Traguardo storico a Roma. Dopo ben 5 anni di inattività, la Raggi mette in funzione le famosissime spazzatrici di Ama.

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sabato 22 aprile 2017

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I mezzi, costati oltre un milione e mezzo, erano fuori uso e fermi nel terminal Gianicolo (60 mila euro al mese d’affitto) dal 2012. L’assessora: «Le avete conosciute quando erano incomprensibilmente abbandonate. Ora in funzione 5, presto le altre 6»

Finalmente sono operative – spazzano, strofinano, ingoiano cartacce – cinque anni dopo la presentazione in pompa magna in Campidoglio, quand’era sindaco Gianni Alemanno. Sono i tempi della capitale, ma tant’è. L’11 febbraio 2017, nella storia minore dell’Ama, la municipalizzata rifiuti al centro di un permanente tourbillon di scandali, sarà ricordato come un giorno speciale. Di festa. Sono infatti entrate in funzione – dopo uno spreco nell’ordine delle centinaia di migliaia di euro – le spazzatrici elettriche nuove di zecca acquistate nel 2011 per pulire il centro storico e da allora custodite in garage, inattive. I 12 mezzi, agili e silenziosi, perfetti per infilarsi nei vicoli, erano costati 130 mila euro ciascuno, per un totale di un milione 560 mila euro, e oltre che il rispetto dell’ambiente garantivano un miglioramento della produttività, essendo previsto l’impiego di un singolo operatore. Peccato che, per la mancanza di uno «spinotto» adeguato, tale da garantire un’efficiente ricarica, finirono subito nel terminal Gianicolo (come denunciato nella recente inchiesta del Corriere) e lì siano rimaste per quasi un lustro. Ebbene, in queste ore i romani stanno vivendo il privilegio di rivederle in funzione. Dal vivo e sul web.

fonte; http://roma.corriere.it/notizie/cronaca/17_febbraio_11/ama-spazzatrici-elettriche-azione-5-anni-raggi-posta-video-727be256-f06e-11e6-811e-b69571ccd9d9.shtml

Photo by fabiolopiccolo:

Lavoro: la rivincita dei geometri, più pagati degli architetti

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Più attività e differenziate: oltre al catasto pratiche fiscali, certificati energetici, rilievi acustici e architettonici. Ora fatturano il 15 % in più del Pil medio pro capite

di CORRADO ZUNINO22 Aprile 2017ROMA. La crisi dei sette anni, 2008-2014, è passata lasciando in piedi, probabilmente più robusto, un mestiere conosciuto, tra i più interpretati al cinema e fino a ieri più snobbati in classe: il geometra. Non è lontana la fine del percorso parlamentare che porterà in Italia la laurea unica (triennale) per diventare geometra, come l’Europa ci chiede entro il 2020. E l’ultima ricerca dell’Università di Genova ora evidenzia come in un decennio il fatturato medio di un geometra si sia attestato a 31.832 euro lordi l’anno (sfiorando 35mila euro nel 2008 e scendendo sotto i 28mila nel 2015). Oltre quindici punti percentuali, comunque, sopra il Pil medio pro capite. Le previsioni degli intervistati dai ricercatori nel 60 per cento dei casi prevedono un reddito “almeno pari” nel 2016, da poco chiuso. In dieci anni i professionisti in Italia sono lievemente cresciuti: da 105mila a 107mila anche se coloro che possono pagarsi la previdenza sono calati da 92mila a 82mila.


Questi numeri raccontano una professione che ha tenuto. All’interno di un panorama di riferimento – quello edilizio – che ha visto sparire mezzo milione di addetti. Per fare un confronto utile, si può usare l’osservatorio del Cresme.

Il centro ricerche del mercato dell’edilizia ha rilevato tra il 2008 e il 2015 una riduzione del reddito annuo degli architetti, professione parente e avversaria, pari al 41 per cento. Un tracollo. Nello stesso periodo i geometri hanno perso solo il 7 per cento. Di più, nel 2015 il numero degli architetti con reddito inferiore ai 9mila euro è cresciuto a quota 34 per cento mentre quelli che guadagnano più di 30mila euro sono soltanto il 17 per cento. In un paragone più allargato, lo stipendio di un geometra è definito “più alto di quello di un impiegato”. Non è un caso che oggi i giovani contabili di catasto siano relativamente autonomi. Iniziano a guadagnare dopo un corso di sei mesi post-diploma (o un tirocinio di diciotto mesi in uno studio), quindi tra i venti e i ventidue anni. Bene, la metà di loro ha lasciato la famiglia d’origine prima dei 35 anni: il 10,6 per cento oggi è single, il 39 per cento ha costruito un nuovo nucleo familiare. In Italia, in media, solo un terzo degli under 35 è indipendente.

La risposta positiva della professione alla doppia crisi (generale e poi edilizia) è arrivata con l’allargamento del campo d’azione. I nuovi geometri hanno preso quote ai mestieri “affini e laureati” (architetti e ingegneri, a cui a volte tolgono la “direzione dei lavori”) e ad altri apparentemente lontani (commercialisti e notai). Oggi solo il tre per cento dei geometri – rivela ancora la ricerca – ha la laurea, ma tutti hanno diversificato gli interventi. Le pratiche catastali e i rilievi topografici restano dominanti (il 45,6 per cento dei lavori fatti), ma scendono di tre punti rispetto a dieci anni fa. Nello stesso periodo si sono moltiplicate per quattro le certificazioni energetiche. E in generale si richiede l’intervento della figura per i test acustici, i rilievi architettonici, le dichiarazioni di successione, le pratiche fiscali e quelle burocratiche, la digitalizzazione delle procedure professionali. L’interlocutore non è più solo il Comune o la Regione, ma sempre più i condomìni, le imprese, l’autorità giudiziaria. Sono geometri sette consulenti dei tribunali su dieci.

“Il conto alla crisi lo abbiamo pagato anche noi”, dice Fausto Amadasi, presidente della Cassa di previdenza, “ma di fronte al crollo dell’edilizia siamo stati capaci di far crescere settori prima marginali. In Piemonte quasi tutti gli amministratori di condominio sono nostri e con l’esplosione delle sofferenze sui mutui ci siamo specializzati anche su questa questione”. Gli istituti tecnici formativi “restano troppo teorici, generalisti” e così i diplomati hanno bisogno di un tirocinio sul campo maggiore, “ma la laurea unica ci darà formazione e status”.

Resta, come in ogni dossier italiano, il profondo rosso del Sud: un geometra di Vicenza guadagna in media 35mila euro l’anno, uno di Catanzaro 16mila.

sabato 22 aprile 2017 , Gabanelli choc: vi racconto gli sprechi e le ruberie della Rai. Ecco dove finisco i nostri soldi del canoneMilena Gabanelli: “Rai, ecco la lista degli sprechi. Basta lottizzazione, o non ci avvicineremo mai alla Bbc”“Per tornare efficiente e competitiva, la Rai andrebbe ‘snellita’, ma modifiche radicali saranno possibili solo se si interviene sulla riforma del 1975, meglio nota come lottizzazione”. Lo scrive in un lungo editoriale sul Corriere della Sera Milena Gabanelli, in cui fa la lista degli sprechi del servizio pubblico. Troppi telegiornali, reti e strutture inventate solo per accontentare politici, assessori e governatori di turno. Troppi incarichi dirigenziali e una proliferazione incredibile di sedi e strutture regionali. Nulla di più lontano dalla Bbc, “il miglior servizio pubblico al mondo” di cui tanto si parla ma che mai sarà avvicinato se non si mettono “competenza” e “merito” come criteri essenziali per la nomina della governance.In seguito alla lottizzazione, scrive la giornalista, “ogni partito si è preso un canale, e poi ci ha infilato i suoi uomini scegliendo come unico criterio la ‘fedeltà’, non all’azienda ma al partito. Risultato: proliferazione di strutture e incarichi dirigenziali che negli anni si sono stratificati”. Per questo la Rai è imparagonabile a ogni altro servizio pubblico del mondo:“Non esiste nessuna tv pubblica al mondo dentro la quale convivono 3 telegiornali che hanno come referenti 3 diverse aree politiche; ognuno ha una sua struttura autonoma, i suoi direttori, i suoi inviati, il suo apparato tecnico, i suoi studi, il suo budget. Poi c’è Rai news 24, che non si può dire sia seguitissima, e le 26 sedi per l’informazione regionale. Bisogna ‘ottimizzare’ si dice, ma da dove cominci se non metti mano al contratto di servizio con lo Stato? Le sedi regionali sono nate in funzione dei rapporti con le istituzioni locali. Un modello in crisi poiché le Regioni non rappresentano più il territorio, quindi bisognerà cambiare completamente la prospettiva in funzione delle macroaree. Si prende spesso a modello il miglior servizio pubblico al mondo, ovvero la Bbc, dove però i canali generalisti nazionali sono sostenuti solo dal canone: 174 euro, contro i nostri 113. Se tuttavia il modello a cui ispirarsi è Bbc, confrontiamoci. Le stazioni televisive locali inglesi sono 15, che interagiscono con quelle radiofoniche. I dipendenti sono circa 1.500 contro i nostri quasi 2.000. Le sedi occupano mediamente 2 piani (con una postazione fissa per il giornalista che si connette), la maggior parte sono in affitto. Noi occupiamo edifici giganteschi, quasi tutti di proprietà, con insostenibile spreco di spazi e costi. La loro sede più piccola è quella delle Channel Island: 2 dipendenti; da noi a Campobasso sono in 70. Nella sede di Cosenza lavorano 95 persone, ma il palazzo sembra quello di Viale Mazzini. Tutti i servizi finiscono dentro a Bbc One (la nostra Rai 1), con 4 brevi collegamenti al giorno. Inutile ribadire che la produzione locale del nostro servizio pubblico è perlopiù asservita ad assessori e governatori, che in caso di smantellamento di qualche sede si incateneranno pur di non vedere sottratta una telecamera a loro uso e consumo”.Gabanelli fa poi tre esempi di strutture create e poi mantenute solo per non turbare la sensibilità di nessun ‘potente’: Rai Vaticano, Rai Expo e Rai Quirinale.“Emblematica la genesi di Rai Vaticano. Nel ‘97 una decina di dipendenti occupavano due stanze per preparare gli eventi di Giubileo 2000. Senza budget, il team si relazionava con la Santa Sede per agevolare le reti nella produzione di programmi da trasmettere e vendere in tutto il mondo, e doveva essere operativo per 2 anni. Il Giubileo è finito da tempo, ma la piccola squadra si è trasformata in una struttura con i suoi funzionari e dirigenti per continuare a fare le stesse cose. Rai Expo è l’ultima creatura: una dirigenza, 45 dipendenti, una sede a Milano e una a Roma. Ma per raccontare il grande evento dell’alimentazione mondiale non bastano le sedi regionali e i programmi delle reti? A Expo finita (ottobre 2015) siamo sicuri che quella struttura non diventerà permanente? Anche Rai Quirinale, da postazione informativa è diventata nel tempo un elefantino, con un direttore e 35 dipendenti. Per fare cosa? Trasmettere il messaggio del presidente della Repubblica di fine anno e la cerimonia del 2 giugno”.Secondo Gabanelli, per rinascere è inevitabile “eliminare sedi e strutture che non hanno nessun senso, ma non mandando a casa qualche migliaio di persone che hanno famiglia! L’azienda avrebbe bisogno di tutto il suo personale se venisse organizzata in modo produttivo; è pur sempre la più grande industria culturale del Paese! Ricordiamo inoltre che non ha ammortizzatori sociali, e sarebbe paradossale creare disoccupati per dare 80 euro in più a chi uno stipendio (anche se magro) ce l’ha. Certo occorrerà poi liberarsi dai burocrati e intervenire sui contratti collettivi di lavoro”. Un cambiamento di questa portata – sostiene ancora la giornalista – non può essere realizzato da un direttore generale da solo, ma ha bisogno dell’aiuto del governo. Come? Appunto dando la priorità a “merito” e “competenza” come unici criteri per la scelta dei vertici. Come fa la Bbc, dove “quando un dirigente sbaglia, va a casa senza tante storie”. 

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sabato 22 aprile 2017

“Per tornare efficiente e competitiva, la Rai andrebbe ‘snellita’, ma modifiche radicali saranno possibili solo se si interviene sulla riforma del 1975, meglio nota come lottizzazione”. Lo scrive in un lungo editoriale sul Corriere della Sera Milena Gabanelli, in cui fa la lista degli sprechi del servizio pubblico. Troppi telegiornali, reti e strutture inventate solo per accontentare politici, assessori e governatori di turno. Troppi incarichi dirigenziali e una proliferazione incredibile di sedi e strutture regionali. Nulla di più lontano dalla Bbc, “il miglior servizio pubblico al mondo” di cui tanto si parla ma che mai sarà avvicinato se non si mettono “competenza” e “merito” come criteri essenziali per la nomina della governance.

In seguito alla lottizzazione, scrive la giornalista, “ogni partito si è preso un canale, e poi ci ha infilato i suoi uomini scegliendo come unico criterio la ‘fedeltà’, non all’azienda ma al partito. Risultato: proliferazione di strutture e incarichi dirigenziali che negli anni si sono stratificati”. Per questo la Rai è imparagonabile a ogni altro servizio pubblico del mondo:

“Non esiste nessuna tv pubblica al mondo dentro la quale convivono 3 telegiornali che hanno come referenti 3 diverse aree politiche; ognuno ha una sua struttura autonoma, i suoi direttori, i suoi inviati, il suo apparato tecnico, i suoi studi, il suo budget. Poi c’è Rai news 24, che non si può dire sia seguitissima, e le 26 sedi per l’informazione regionale. Bisogna ‘ottimizzare’ si dice, ma da dove cominci se non metti mano al contratto di servizio con lo Stato? Le sedi regionali sono nate in funzione dei rapporti con le istituzioni locali. Un modello in crisi poiché le Regioni non rappresentano più il territorio, quindi bisognerà cambiare completamente la prospettiva in funzione delle macroaree. Si prende spesso a modello il miglior servizio pubblico al mondo, ovvero la Bbc, dove però i canali generalisti nazionali sono sostenuti solo dal canone: 174 euro, contro i nostri 113. Se tuttavia il modello a cui ispirarsi è Bbc, confrontiamoci. Le stazioni televisive locali inglesi sono 15, che interagiscono con quelle radiofoniche. I dipendenti sono circa 1.500 contro i nostri quasi 2.000. Le sedi occupano mediamente 2 piani (con una postazione fissa per il giornalista che si connette), la maggior parte sono in affitto. Noi occupiamo edifici giganteschi, quasi tutti di proprietà, con insostenibile spreco di spazi e costi. La loro sede più piccola è quella delle Channel Island: 2 dipendenti; da noi a Campobasso sono in 70. Nella sede di Cosenza lavorano 95 persone, ma il palazzo sembra quello di Viale Mazzini. Tutti i servizi finiscono dentro a Bbc One (la nostra Rai 1), con 4 brevi collegamenti al giorno. Inutile ribadire che la produzione locale del nostro servizio pubblico è perlopiù asservita ad assessori e governatori, che in caso di smantellamento di qualche sede si incateneranno pur di non vedere sottratta una telecamera a loro uso e consumo”.
Gabanelli fa poi tre esempi di strutture create e poi mantenute solo per non turbare la sensibilità di nessun ‘potente’: Rai Vaticano, Rai Expo e Rai Quirinale.

“Emblematica la genesi di Rai Vaticano. Nel ‘97 una decina di dipendenti occupavano due stanze per preparare gli eventi di Giubileo 2000. Senza budget, il team si relazionava con la Santa Sede per agevolare le reti nella produzione di programmi da trasmettere e vendere in tutto il mondo, e doveva essere operativo per 2 anni. Il Giubileo è finito da tempo, ma la piccola squadra si è trasformata in una struttura con i suoi funzionari e dirigenti per continuare a fare le stesse cose. Rai Expo è l’ultima creatura: una dirigenza, 45 dipendenti, una sede a Milano e una a Roma. Ma per raccontare il grande evento dell’alimentazione mondiale non bastano le sedi regionali e i programmi delle reti? A Expo finita (ottobre 2015) siamo sicuri che quella struttura non diventerà permanente? Anche Rai Quirinale, da postazione informativa è diventata nel tempo un elefantino, con un direttore e 35 dipendenti. Per fare cosa? Trasmettere il messaggio del presidente della Repubblica di fine anno e la cerimonia del 2 giugno”.
Secondo Gabanelli, per rinascere è inevitabile “eliminare sedi e strutture che non hanno nessun senso, ma non mandando a casa qualche migliaio di persone che hanno famiglia! L’azienda avrebbe bisogno di tutto il suo personale se venisse organizzata in modo produttivo; è pur sempre la più grande industria culturale del Paese! Ricordiamo inoltre che non ha ammortizzatori sociali, e sarebbe paradossale creare disoccupati per dare 80 euro in più a chi uno stipendio (anche se magro) ce l’ha. Certo occorrerà poi liberarsi dai burocrati e intervenire sui contratti collettivi di lavoro”. Un cambiamento di questa portata – sostiene ancora la giornalista – non può essere realizzato da un direttore generale da solo, ma ha bisogno dell’aiuto del governo. Come? Appunto dando la priorità a “merito” e “competenza” come unici criteri per la scelta dei vertici. Come fa la Bbc, dove “quando un dirigente sbaglia, va a casa senza tante storie”.

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