Paragone demolisce Macaron: “Chi c’è dietro al candidato”: perchè dobbiamo tremare tutti

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mercoledì 26 aprile 2017

Macron, il candidato moderno. Il presidente in pectore che andrà oltre i partiti tradizionali. Il giovane euro entusiasta. Riformista, solidarista, liberista e, visto che ci siamo, anche liberal quanto basta da sposare una donna più grande di lui di parecchi anni. Macron, il candidato a taglia unica, che va bene sia ai radical chic della sinistra francese che ai moderati che guardarono a Sarkozy con fiducia. Macron, il banchiere di Rothschild, l’amico dell’Europa e nemico dei nazionalismi.

Quante cose è questo Macron, la faccia pulita che un pezzo di Francia ha scelto per andare al ballottaggio contro la pericolosa xenofoba Marine Le Pen, che – per quanto ridimensionta – alla sfida a due è riuscita ad andarci. Macron è sostanzialmente tutto e nulla, come si addice ai leader moderni: non è importante avere l’esperienza per guidare un Paese, basta avere la rete di relazioni che contano. E lui ce l’ha. Ecco perché di tutte le definizioni con cui l’hanno descritto ne manca una, assai maliziosa, che tuttavia le contiene tutte: Macron, il presidente duttile, teleguidabile. Un altro presidente perfetto per quel sistema GangBank che racconto nel mio libro appena uscito sul perverso intreccio tra finanza e politica. Un altro di quei signori che entreranno e usciranno dalle banche d’affari: Rothschild, Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley e compagnia bella.

«Farò da argine ai nazionalismi – ha commentato – Hanno perso i partiti tradizionali». È vero, hanno perso i partiti tradizionali, ha vinto la finanza speculativa. Ma ovviamente in questo clima di melassa non suona strano a nessuno se i partiti tradizionali stiano perdendo dappertutto, sostituiti da contenitori a taglia unica, unisex guidati da giovani rottamatori. Nell’Europa del neoliberismo i partiti tradizionali sono ferri vecchi, pezzi di antiquariato perché antiquato è il mondo cui si riferivano. Se il lavoro è disarticolato, non ha senso un partito socialista. Se le piccole imprese affogano nella tempesta della globalizzazione finanziaria, nemmeno un partito liberale serve. Così come è fuorimoda un partito repubblicano senza una Repubblica sovrana.Nella politica moderna financo la Costituzione diventa un impiccio. Una costituzione che parli di lavoro e di impresa, di diritti e di Stato, non può essere la carta fondamentale per mancanza dell’oggetto in questione. Macron è il campione di una modernità costruita in laboratorio per distruggere gli Stati.

In Francia il sistema GangBank non poteva perdere: sarebbe stata la fine. Ora le paure sono finite: in Italia, la legge elettorale è funzionale all’eurismo distruttivo. La propaganda farà il resto: come potete fidarvi della Le Pen? Come potete mandare al governo i Cinquestelle o Salvini? Come pensate di uscire dall’euro? Non solo seminano il panico ma colpevolizzano pure la vittima: avete vissuto sopra le vostre possibilità! Adesso, state buoni.

La finanza che ci fa la morale è la stessa che ha truccato la partita, che ha creato le condizioni delle bolle e poi delle crisi. GangBank ha trasformato i cittadini in consumatori per lasciarli nudi di fronte al loro indebitamento.

Macron ha chiamato il suo movimento «En Marche!» ma dietro di lui non c’è il quarto stato. Però ha vinto, ha superato il modello dei partiti, e questo basta per mettere tutti all’angolo. È la vittoria del ragazzo con la faccia pulita, il candidato che rassicura, è la sintesi di tutti i buoni principi. È il Battista del leader globale che verrà, Mark Zuckerberg, quel Gesù della Silicon Valley mandato dal dio moderno. Quando lo chiameremo presidente, il buonismo diventerà atto di fede e allora bye bye opposizione e diritto di critica. Bastano loro, i buoni per definizione.

di Gianluigi Paragone


Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/12368182/emmanuel-macron-gianluigi-paragone-presidente-teleguidato-alta-finanza.html

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IL GRANDE BUCO DI ALITALIA? COME SEMPRE C’E’ DI MEZZO MONTEZEMOLO E LA GHENGA DI BANDITI: ECCO LE LIQUIDAZIONI MOSTRUOSE DI CHI HA AMMAZZATO LA COMPAGNIA DI BANDIERA

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mercoledì 26 aprile 2017

Volare sulle ali di piombo della politica. Volare fuori rotta. Volare fuori dal mercato. La storia degli ultimi vent’anni di Alitalia è la successione seriale di fallimenti che generano altri fallimenti.

E una costante di fondo: manager modellati con la creta della politica e il Palazzo che si affanna a affondare il biscotto in quel pozzo senza fondo. «Gli interventi della politica a avario titolo – spiega il professor Marco Ponti, uno dei più autorevoli esperti di economia dei trasporti in Europa – sono stati almeno 5 negli ultimi vent’anni e secondo Mediobanca, che ha attualizzato i numeri, ricapitalizzazioni, aiuti e mance sempre generosissime sono costati al contribuente dal 1974 in poi fra i 7,4 e gli 8 miliardi di euro». Una cifra monstre per avere un’azienda sull’orlo del cratere e i conti completamente sballati.

La grande crisi comincia intorno al 2002-2003 quando Ryanair scala i cieli europei introducendo un nuovo concetto: il low cost. Alitalia, che ha una struttura vecchia e che ancora sopravvive sugli antichi allori, non fa nulla per mettersi al passo. E spesso le mosse fatte sono sbagliate o non risolutive. Gli organici sono gonfiati a dismisura, le assunzioni spesso passano dal notabile di turno, le destinazioni degli aerei devono tenere conto di troppi equilibri e diventano, come tutto il resto, un esercizio di equilibrismo. Per compiacere deputati e senatori e per ragioni di bandiera la compagnia raggiunge molte destinazioni che non sono redditizie. Anzi, sono una palla al piede. «A quel punto – prosegue Ponti – sarebbe stata necessaria una riconversione dal corto raggio al lungo raggio». Tradotto dal linguaggio tecnico a quello della strada significa sfoltire col decespugliatore le mete nazionali o europee per buttarsi su quelle intercontinentali, al momento le sole che generano profitto. Ma per farlo ci vorrebbero manager con la schiena dritta, ci vorrebbe coraggio, ci vorrebbero soprattutto molti soldi, una montagna di denari.

Alitalia, il più classico dei carrozzoni, resta impantanata nei suoi limiti strutturali, nei veti dei sindacati che banchettano allegramente con i soldi del contribuente, nella miopia di chi dovrebbe raddrizzare la barca. Ryanair ha un solo modello di aereo, Alitalia, fedele alla sua logica diplomatico-ecumenica, chiamiamola così, ne ha 22 e per di più di case diverse. Un manicomio per il magazzino, la logistica, le trattative con i fornitori.

La vendita ad Air France, che avrebbe dato un’anima alla flotta, sfuma e nel 2008 Berlusconi affida la compagnia ai «capitani coraggiosi»: i Colaninno, i Riva, i Benetton. La concorrenza continua a mangiare quote di mercato e le tariffe, per la fortuna dei passeggeri, scendono, ma il brand tricolore non decolla. Certo, i dipendenti calano da quota 20mila, uno scandalo, ma oggi, dieci anni dopo, siamo ancora a 12.500 e già si parla di altri 1.600 esuberi. Si dovrebbero ridurre i modelli e modificare le rotte ma il carburante del cambiamento non arriva. Oggi Alitalia spende 6,5 centesimi a chilometro per passeggero contro i 3,5 di Ryanair. Una guerra persa in partenza.

La compagnia è un pesce fuori scala per tutti i cieli. Troppo grande rispetto alle low cost, troppo piccola per competere con Air France e Lufthansa. A metà del guado non si va da nessuna parte, nemmeno quando arrivano gli arabi di Etihad. Che però, attenzione, acquisiscono solo il 49% e non la maggioranza assoluta del grande malato. Forse si muovono con particolare prudenza, forse hanno più dubbi che certezze. L’ultima chance svanisce. Oggi gli aerei che viaggiano a lungo raggio sono solo 25 su 115 e l’incremento portato da James Hogan è stato modestissimo: 2 unità. Poco o nulla. Il confronto finale è impietoso: i voli interni sono scesi dal 58 al 54% contro il 17-18 per cento del duo Air France Lufthansa. Un disastro. In compenso chi compra un biglietto in Italia finanzia con 3 euro una cassa integrazione di 7 anni, più lunga di uno scivolo di Disneyland. Un altro record della maglia nera dei cieli.

NON PIU’ TARDI DELLO SCORSO SETTEMBRE, APPARVE SUI GIORNALI QUESTA NOTIZIA

Silvano Cassano si è dimesso per motivi personali dalla carica di amministratore delegato di Alitalia, che ricopriva da dopo l’ingresso nell’ormai ex compagnia di bandiera degli arabi di Etihad; il dirigente, secondo quanto riportato da alcuni quotidiani, si vedrà riconosciuta una buonuscita da record: 2,4 milioni di euro il “tfr” per appena nove mesi di mandato. In una lettera interna, l’attuale presidente di Alitalia, Luca di Montezemolo, ha dato l’annuncio, spiegando che Cassano “cessa il suo mandato per motivi personali, ha formalmente comunicato le dimissioni al Consiglio di Amministrazione in data odierna”.

FONTE

ILGIORNALE

Alitalia, il super-pilota confessa:”Sapete come buttano i soldi?E poi alle hostess”

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mercoledì 26 aprile 2017

“L’Alitalia people ha sempre creduto a dispetto dei santi: ad ogni ristrutturazione si rimboccava le maniche e ripartiva sempre con rinnovato vigore. Un popolo di entusiasti. Se stavolta ha detto ‘no’ è perché c’è rabbia vera, la gente s’è stufata delle promesse e la fiducia è ormai sotto zero…”. Così Riccardo Canestrari, 54 anni, pilota civile dal ’92 e coordinatore nazionale piloti Anpac commentando la vittoria del ‘no’ al referendum su Alitalia. E ancora, al Corriere della Sera, il pilota spiega: “Ho già vissuto tre ristrutturazioni – racconta – ricordo soprattutto quella del 2008, con mille piloti e 11 mila dipendenti mandati a casa senza pietà. Un bagno di sangue, con scene tipo Lehman Brothers, gente che se ne andava in lacrime da Fiumicino, piloti che poi sono finiti a volare in Bangladesh”.

E dopo questa lunga premessa, l’attacco, durissimo, alla nostra compagnia di bandiera. “Nessuno oggi festeggia per questo ‘no’, perché sarebbe come brindare sul Titanic che affonda. L’Alitalia people ne è ben consapevole, ma il ‘no’ era l’ unico modo per dire basta”, sottolinea. Canestrari aggiunge che “noi abbiamo già dato. Ricordo nel 2014 il welcome drink per il nuovo azionista, il benvenuto dato da tutti noi a Etihad col sacrificio delle tredicesime e di quote dello stipendio. Ma perché devono sempre pagare i lavoratori per le scelte sbagliate dei manager”. E dunque il pilota le elenca, queste scelte sbagliate: “Buonuscite fantasmagoriche, piani industriali mai realizzati, errori sui leasing, sui carburanti, aerei nuovi arrivati col contagocce, corsi di formazione ad Abu Dhabi per insegnare alle hostess italiane come si versa il vino”. Piccoli dettagli che, però, rivelano in pieno gli sprechi di Alitalia. Una compagnia da anni e anni sull’orlo del fallimento che sgancia buonuscite monstre e “addestra” le hostess a versare il vino. Come dice Libero, meglio farla fallire.

Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/12367598/alitalia-riccardo-canestrari-maxi-buonuscite-corsi-aggiornamento-vini-hostess.html

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