La storia degli eBook

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La storia degli eBook

di Andrea Patassini

Con una infografica proviamo a raccontare la storia dei libri digitali, così per tratteggiare sinteticamente la strada finora percorsa attraverso lo sviluppo tecnologico, le politiche commerciali e l’evoluzione culturale.

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Hanno isolato il Qatar

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Potrebbe essere iniziata una nuova crisi in Medio Oriente, questa volta tra i paesi arabo-sunniti: si parla di frontiere chiuse, voli cancellati e rapporti diplomatici sospesi

Tamim bin Hamad Al-Thani

L’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad al Thani (AP Photo/Osama Faisal, File)

Questa notte diversi paesi arabi sunniti hanno annunciato di avere rotto i rapporti con il Qatar, anch’esso uno stato dove l’Islam sunnita è maggioritario, accusandolo di sostenere il terrorismo. È una notizia molto grossa, perché ha avviato la peggiore crisi degli ultimi anni tra alcuni dei paesi più importanti del mondo arabo. I paesi uniti contro il Qatar sono Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti, a cui lunedì mattina si sono aggiunti lo Yemen, il governo della Libia orientale (quello non riconosciuto dall’ONU, e alleato di Egitto ed Emirati Arabi Uniti), oltre che le Maldive. Appartiene a questo gruppo anche il Bahrein, che nonostante sia un paese a maggioranza sciita è governato da una monarchia sunnita. Sunnismo e sciismo sono i due principali orientamenti dell’Islam: alle differenze dottrinali si sono aggiunte nel tempo rivalità politiche, che si sono intensificate a partire dalla rivoluzione iraniana del 1979, quella che portò all’istituzione in Iran di una teocrazia islamica guidata da religiosi sciiti (per approfondire il tema, qui).

Il Qatar ha risposto poco dopo, definendo la decisione «una violazione della sua sovranità». Non è la prima volta che si verifica una crisi del genere con in mezzo il Qatar: si era visto qualcosa di simile nel 2014, ma non a questi livelli di gravità. E ci potrebbero essere conseguenze su tutto il Medio Oriente.

qatar

Qualche effetto della decisione di questa notte, comunque, c’è già stato. La compagnia aerea Etihad, che ha sede ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi Uniti, ha annunciato la sospensione dei suoi voli per il Qatar. Una decisione simile è stata presa anche da Flydubai, da Emirates e da Egypt Air. Allo stesso tempo Qatar Airways, la compagnia aerea del Qatar, ha annunciato la sospensione dei voli verso l’Arabia Saudita. Arabia Saudita, Egitto, Bahrein ed Emirati Arabi Uniti hanno detto inoltre che lasceranno due settimane di tempo ai qatarioti per lasciare i rispettivi paesi, e chiuderanno i confini con il Qatar (e come si vede dalla mappa qui sopra sarà un grosso problema). Il personale diplomatico dei paesi coinvolti verrà ritirato dal Qatar e le forze armate qatariote verranno espulse dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita che sta combattendo in Yemen. La decisione di questa notte potrebbe anche minacciare il prestigio che il Qatar ha guadagnato a livello internazionale negli ultimi anni, grazie a una diplomazia molto attiva e poco schierata che tra le altre cose gli ha permesso di vincere la candidatura per ospitare i Mondiali di calcio nel 2022.

Cosa c’è dietro alla rottura
Nonostante la diffidenza verso il Qatar non nasca ieri, c’è stato un episodio recente che si può individuare come causa scatenante della reazione dei quattro paesi arabi. Alla fine di maggio l’agenzia di news statale qatariota attribuì all’emiro del Qatar, Sheikh Tamim bin Hamad al Thani, una frase molto contestata: «Non c’è saggezza nel nutrire l’ostilità nei confronti dell’Iran». L’Iran – paese a stragrande maggioranza sciita – è il principale nemico dell’Arabia Saudita ed è ostile a praticamente tutti i paesi arabi del Golfo, ad eccezione proprio del Qatar. Sauditi e iraniani sono impegnati su due fronti diversi sia nella guerra in Siria – dove l’Arabia Saudita appoggia i ribelli, mentre l’Iran sostiene il regime siriano di Bashar al Assad – sia nella guerra in Yemen – dove i sauditi appoggiano le forze governative, mentre gli iraniani sostengono i ribelli Houthi che controllano la capitale Sana’a. Secondo l’agenzia di news statale qatariota, al Thani avrebbe anche condannato l’inclusione dei libanesi di Hezbollah e dei palestinesi di Hamas nella lista delle organizzazioni terroristiche, definendo entrambi “gruppi di resistenza”, e non “gruppi terroristici”, scontrandosi anche su questo punto con le posizioni degli altri paesi arabi (dal 2012 in Qatar vive in esilio Khaled Mashaal, uno dei principali leader di Hamas).

Dopo la diffusione della dichiarazione di al Thani, l’agenzia di news statale qatariota si era giustificata dicendo di essere stata hackerata. In pochi però ci avevano creduto. Tra le altre cose, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti avevano reagito bloccando nei loro paesi l’accesso al sito di al Jazeera, il principale network del mondo arabo che ha base in Qatar e che è finanziato in parte dalla famiglia reale qatariota. Al Jazeera era già finita nel mirino di diversi paesi arabi negli anni scorsi, a causa del suo aperto sostegno ai Fratelli Musulmani, un gruppo politico-religioso che in passato ha sfidato il potere delle monarchie arabo-sunnite del Medio Oriente. Il caso più emblematico è quello dell’Egitto, dove nel 2011 le proteste anti-governative portarono alla caduta del regime autoritario di Hosni Mubarak e alla progressiva ascesa dei Fratelli Musulmani. Nel giugno 2012 Mohammed Morsi, uno dei leader dei Fratelli Musulmani, fu eletto presidente, ma il suo periodo in carica fu breve. Un anno dopo Morsi fu destituito con un colpo di stato organizzato da Abdel Fattah al Sisi, allora potente generale dell’esercito e oggi presidente del paese. Tra le altre cose, negli ultimi anni Sisi ha messo fuori legge i Fratelli Musulmani e ha arrestato centinaia dei suoi leader. Anche i giornalisti di al Jazeera hanno avuto un sacco di problemi in Egitto.

Il punto è che le dichiarazioni di al Thani, vere o false che siano, non sono state una cosa nuova, venuta fuori dall’oggi al domani. Come ha scritto Haaretz, «tradizionalmente la politica estera del Qatar è stata fatta mettendo le uova dell’emirato in molti cestini», ovvero molti piedi in molte scarpe. Nel corso degli ultimi anni la famiglia reale qatariota ha costruito una specie di impero, usando gli strumenti della diplomazia ed enormi investimenti. Per esempio, mentre sosteneva diversi gruppi estremisti islamisti, il Qatar manteneva relazioni ufficiali con Israele, che questi gruppi non li vede affatto di buon occhio; mentre cooperava con la Turchia nella guerra contro il presidente siriano Bashar al Assad, offriva i propri servizi come mediatore tra i gruppi ribelli anti-Assad e il regime siriano; mentre partecipava alla coalizione guidata dai sauditi a favore del governo dello Yemen, stringeva accordi di cooperazione militare con l’Iran, che come detto nella guerra yemenita sostiene i ribelli anti-governativi.

Tra le molte cose ancora poco chiare di questa storia c’è la risposta alla domanda: perché ora? La decisione di rompere i rapporti con il Qatar sembra avere preso alla sprovvista anche la maggior parte degli analisti che si occupano di politica regionale del Golfo Persico. Non c’è accordo su questo punto. Una delle ipotesi che stanno circolando di più – ma che appunto va presa solo come un’ipotesi, e non come una certezza – è che l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti si siano sentiti incoraggiati ad aumentare la pressione sul Qatar dopo la visita di Trump a Riyadh, Arabia Saudita, due settimane fa (quella della foto di Trump con la sfera misteriosa, presa molto in giro su Internet): potrebbero avere percepito di avere le spalle più coperte, diciamo così, nel tentare di spingere il Qatar ad allinearsi con le politiche degli altri paesi arabi sunniti del Golfo, allontanandosi quindi dall’Iran.

La rottura riguarda anche gli Stati Uniti
Un altro capitolo della storia riguarda gli Stati Uniti. Il Qatar ospita una grande base militare americana e ha rapporti molto buoni con gli americani. Non è ancora chiaro quali conseguenze ci saranno per i militari statunitensi che sono in Qatar. Lunedì Rex Tillerson, il segretario di Stato americano, ha sostenuto che la decisione di questa notte non avrà effetti rilevanti nella guerra contro lo Stato Islamico – che è un’organizzazione sunnita, ma che non è sostenuta dai paesi sunniti del Golfo Persico – e ha invitato gli stati della regione ad appianare le loro differenze.

Tutta questa storia non è importante solo per le conseguenze che avrà nel medio-lungo periodo, ma anche perché mostra come abbia poco senso interpretare quello che succede in Medio Oriente guardando solo la contrapposizione tra sciiti e sunniti. All’interno di questi due gruppi ci sono molte divisioni, così come ci sono rapporti ufficiali e ufficiosi tra paesi dell’uno e dell’altro gruppo. Sempre Haaretz scrive: «I legami costruiti dal Qatar mostrano come gli interessi economici e nazionali siano più importanti della condivisione di fondamenti religiosi». Tutti quelli che si aspettavano un fronte comune di paesi arabi sunniti nemici dell’Iran e dell’estremismo islamista, per esempio Stati Uniti e Israele, dovranno probabilmente trovare un’altra strada.

http://www.ilpost.it/2017/06/05/qatar-isolato/

di Elena Zacchetti – @elenazacchetti

DON CIOTTI: «TOTÒ RIINA RIVELI I SUOI SEGRETI, LA DIGNITÀ PASSA DI LÌ»

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 Don Luigi Ciotti interviene sul caso della sentenza Riina: “Venga curato, ma resti in condizioni di non nuocere. I domiciliari agevolerebbero il crimine”.

07/06/2017

La decisione della Cassazione che accoglie con rinvio al tribunale di sorveglianza il ricorso dei legali di Riina fa discutere. Quali riflessioni le suscita questa “apertura”?

«C’è chi ha letto nella sentenza della Cassazione un eccesso di indulgenza o perfino il segno di un disimpegno nei riguardi della lotta alla mafia. Premesso che l’attenzione al tema non deve mai venir meno, preferisco attenermi al merito della questione, che è certo giuridica, ma che chiama in causa anche altri fattori. Intendo dire che Totò Riina ha diritto, come ogni detenuto, di essere curato al meglio in carcere e, se necessario, in ospedale. Ma non bisogna dimenticare il suo peso criminale, che non è solo simbolico, e il diritto dei famigliari delle vittime ad essere rispettati e prima ancora riconosciuti nel loro dolore. Io ho la fortuna di conoscerne tanti: sono persone di grande dignità, animate dalla ricerca di verità e da una speranza incrollabile nella giustizia. Molte di loro s’impegnano per costruire una società più giusta. Non possono essere dimenticate».

Lo Stato di diritto non può essere vendicativo, ma deve trovare il giusto mezzo tra pietas e protezione dal pericolo. Il capo dei capi pur malato rappresenta ancora un pericolo?

«Lo Stato di diritto segue una logica di giustizia diversa ma non incompatibile con quella della misericordia a cui richiama Papa Francesco, una logica nata appunto per porre fine alla barbarie della vendetta. Quanto alla pericolosità di Riina, sarebbe da ingenui o da disinformati pensare che una detenzione agli arresti domiciliari non finirebbe per agevolarne l’attività criminale. Anche dal carcere è sempre lui a comandare, a dare indicazioni, come dimostrano anche le minacce rivolte a Nino Di Matteo e al sottoscritto. Quindi venga curato, si rivolgano al suo stato di salute tutte le attenzioni necessarie, ma sempre in una condizione nella quale non possa nuocere o nuocere il meno possibile».

Non solo le leggi dello Stato in caso di ergastolo ostativo chiedono di mostrare collaborazione per accedere ai benefici, ma pure il perdono cristiano presuppone un ravvedimento. Quanto conta nel valutare moralmente e in termini di pericolo l’assenza di ogni barlume di ripensamento?

«Le valutazioni della giustizia si limitano ai fatti, e nel caso di Riina i fatti dicono che non c’è stata alcuna forma di collaborazione. Quanto al ravvedimento, non si sono avuti nemmeno lì segnali di sorta. C’è sempre tempo, però. La sentenza della Cassazione parla di un «diritto di morire dignitosamente» che è sacrosanto, e che Riina realizzerebbe in pieno nell’incontro sempre schivato con la verità. Ci riveli i tanti segreti che porta con sé, le cause di tanto dolore, violenza, morte, e il suo morire sarà davvero un morire con dignità, se non nel perdono almeno nel rispetto».

Dignità e detenzione sono compatibili?

«Devono esserlo. Ce lo chiede la Costituzione, la legge dello Stato, all’art.27. Ce lo chiede l’essere la patria di Cesare Beccaria. Il grado di civiltà di un Paese di misura dalla qualità delle sue scuole, dei suoi ospedali e delle sue carceri. Qualche passo in avanti è stato fatto in tema di detenzione, ma la strada da percorrere è ancora lunga».

Dov’è Totò Riina adesso

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Da un anno e mezzo sconta il 41 bis all’ospedale di Parma per i suoi problemi di salute, in condizioni simili a quelle del carcere

Guardia di Finanza - ospedale Parma

L’ospedale di Parma. (ANSA)

Da lunedì in Italia si parla molto della sentenza della Corte di Cassazione sulla detenzione di Salvatore “Totò” Riina, capo dell’organizzazione mafiosa “Cosa nostra” tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, condannato a diversi ergastoli per omicidi e stragi, compresa quella in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, nel 1992. Riina, che fu arrestato nel 1993 dopo una lunga latitanza, ha 86 anni ed è molto malato: ha gravi problemi cardiaci, renali e soffre di parkinsonismo vascolare.

Attualmente Riina è ospitato presso la clinica universitaria di Parma, la città nel cui carcere sta scontando la pena: la sentenza della Cassazione si riferisce a una decisione del 2016 del tribunale di sorveglianza di Bologna, che decide sulle richieste di pene alternative alla detenzione in carcere presentate dai condannati. Il tribunale aveva negato il differimento della pena per Riina (cioè la sua sospensione o la sua trasformazione in arresti domiciliari) richiesto dal suo avvocato per gravi problemi di salute. Il tribunale di sorveglianza aveva quindi stabilito la compatibilità delle condizioni di salute di Riina con il regime carcerario a cui è sottoposto: la Cassazione ha però annullato la sentenza di Bologna, perché le sue motivazioni sono «carenti» e «contraddittorie» in alcuni punti. La Cassazione ha quindi deciso semplicemente che deve essere emessa una nuova sentenza, con motivazioni diverse.

Riina, a partire dalla metà degli anni Novanta, ha cambiato diverse volte carcere: prima era all’Asinara, in Sardegna, poi è stato ad Ascoli Piceno e dal 2013 è a Parma. È sottoposto – come la maggior parte dei boss mafiosi – al 41 bis, il regime di carcere duro inserito nell’ordinamento penitenziario italiano nel 1975, e che dagli anni Novanta è stato applicato soprattutto ai condannati per mafia (ma che può anche essere deciso per reati di terrorismo). In tutto, le persone che stanno scontando la propria pena con il regime di carcere duro in Italia sono oltre 700. La principale caratteristica del 41 bis è l’isolamento, che può essere di livelli diversi: nei casi più gravi, prevede che il condannato non interagisca con gli altri detenuti durante le cosiddette “ore d’aria”, e che abbia un numero molto limitato di telefonate e di incontri con i familiari e gli avvocati, uno o due al mese.

La cella di chi è condannato al 41 bis è singola, costantemente sorvegliata e i contatti con gli agenti penitenziari sono ridotti al minimo. È proibito tenere moltissimi tipi di oggetti personali, che devono essere approvati con procedure lente e macchinose. Il 41 bis non può essere assegnato senza limiti temporali ai detenuti, ma deve essere periodicamente rinnovato: questo perché è una misura legata alla pericolosità del detenuto, e non alla gravità dei suoi crimini. I rischi legati alle sue interazioni con le altre persone devono quindi essere valutati regolarmente, per verificare se sia necessario il carcere duro. Molte organizzazioni che si occupano dei diritti dei carcerati si oppongono al 41 bis, o almeno ad alcune sue applicazioni, sostenendo che violi i diritti umani. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è stata invocata in diverse occasioni, perché si esprimesse su questo tipo di pena. Per ora ha sempre stabilito la legalità del 41 bis, nonostante abbia dato precise raccomandazioni riguardo alla sua applicazione.

Il 41 bis di Riina fu in parte “ammorbidito” nel 2001, quando era ad Ascoli Piceno, e gli fu permesso di vedere alcuni detenuti selezionati durante il giorno. Dal novembre del 2015, Riina non si trova più nel carcere di Parma, ma è stato trasferito all’ospedale Maggiore per i suoi problemi di salute, dopo che a lungo varie sentenze avevano stabilito che dovesse rimanere in prigione. Come ha raccontato Salvo Palazzolo su Repubblica, nella sua stanza sono ammesse in tutto una ventina di persone, tra il personale medico e gli agenti di polizia. Le sue condizioni di salute lo costringono a stare costantemente sdraiato, e a ogni pasto viene aiutato a sedersi sul letto dagli infermieri. Riina, racconta Palazzolo, vuole assistere a tutte le udienze del processo sulla presunta “trattativa Stato-mafia”: le vede da una stanza speciale nel carcere di Parma, dove viene scortato ogni volta in ambulanza.

La stanza di Riina è piccola, di cinque metri per cinque, abbastanza nascosta e con una finestra, Riina non può tenere niente: ha fatto richiesta per un calendario, ma non l’ha ottenuto; una richiesta per una radio è invece stata approvata, ma dopo un anno Riina non l’ha ancora ricevuta. Ha anche chiesto di poter vedere la televisione durante i pasti, ricevendo risposta negativa, e non può leggere i giornali. Nel 2015 i giornali italiani dedicarono molta attenzione a una sua lamentela sul fatto che il giorno di Natale non gli era stato servito il panettone, raccontando l’episodio con toni molto coinvolti e manifestando un’indignazione evidentemente poco proporzionata al fatto in sé. L’avvocato di Riina, Luca Cianferoni, commentando la sentenza della Cassazione, ha detto: «Riina è lucidissimo, ma la situazione è ormai gravissima, finalmente è stata presa in considerazione dalla Cassazione con una sentenza che definirei storica, perché apre un varco per l’intero sistema»

Cosa ha detto davvero la Cassazione su Totò Riina

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Né che Riina vada scarcerato né che le sue condizioni siano incompatibili col carcere

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La Corte di Cassazione lunedì 5 giugno ha pubblicato una sentenza sulle condizioni di detenzione di Salvatore “Totò” Riina, boss mafioso che dal 1992 è stato condannato a diversi ergastoli, arrestato nel 1993 dopo una lunga latitanza e in carcere da 24 anni. Totò Riina oggi ha 86 anni ed è malato; il suo avvocato ha presentato un’istanza al tribunale di sorveglianza di Bologna (dal 2013 Riina è detenuto a Parma) in cui chiede la sospensione della pena o almeno gli arresti domiciliari. Il tribunale di Bologna non ha accolto la richiesta. La prima sezione penale della Cassazione, con la sentenza numero 27766, ha risposto invece annullando con rinvio l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna: questo non significa che per Riina sia stato deciso un differimento della pena ma che la decisione finale non è ancora stata presa.

Nel maggio del 2016 il tribunale di sorveglianza di Bologna – che decide sulle richieste di pene alternative alla detenzione in carcere presentate dai condannati – aveva escluso il differimento della pena per Totò Riina, dicendo che dalle relazioni sanitarie presentate emergevano sì le sue gravi condizioni di salute, ma non tali da rendere inefficace un intervento in ambiente carcerario. L’ordinanza diceva che il «continuo monitoraggio» di Riina aveva già portato a diversi suoi ricoveri in ospedale. Gli episodi di crisi cardiaca di Riina erano sotto controllo in carcere e «lo stato di detenzione nulla aggiungeva alla sofferenza della patologia, essendo il rischio dell’esito infausto pari e comune a quello di ogni altro cittadino, anche in stato di libertà». Infine, a sostegno del rigetto dell’istanza, i giudici di Bologna avevano presentato motivazioni che avevano a che fare con la notevole pericolosità di Riina e con le conseguenti esigenze di sicurezza e incolumità pubblica.

La Cassazione ha analizzato le motivazioni del tribunale di sorveglianza di Bologna e ha scritto che in alcuni punti sono «carenti» e «contraddittorie». Il solo fatto che il detenuto sia continuamente monitorato a causa della sua patologia cardiaca, che implica un pericolo per la sua vita, non giustifica il rifiuto del differimento della pena e non dimostra la compatibilità delle condizioni di salute di Riina con il regime carcerario: la motivazione del tribunale di sorveglianza è dunque «parziale», si dice, perché nel decidere il differimento della pena va considerato lo stato di salute generale del ricorrente. Nel caso di Riina va dunque tenuto conto della sua età, della duplice neoplasia renale di cui soffre, di una situazione neurologica compromessa, del fatto che non riesca nemmeno a mettersi seduto da solo. La Cassazione ha insomma ricordato che mantenere una persona in carcere nonostante il decadimento fisico può essere contrario al senso di umanità e dignità – prescritti dalla Costituzione senza eccezioni – e potrebbe risolversi in una detenzione inumana, vietata anche dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

L’ordinanza del tribunale di sorveglianza sarebbe poi contraddittoria, secondo la Cassazione, perché da una parte afferma la compatibilità dello stato di detenzione di Riina con il regime carcerario e dall’altra «evidenzia espressamente le deficienze strutturali della Casa di reclusione di Parma», dove Riina si trova, affermando che queste stesse deficienze sono però irrilevanti. C’è infine, per la Cassazione, un’ultima carenza nella decisione del tribunale di sorveglianza di Bologna: non si spiega «con motivazione adeguata» come la pericolosità di Riina e «il suo indiscusso spessore criminale», che vengono riaffermati, possano e debbano considerarsi attuali «in considerazione della sopravvenuta precarietà delle condizioni di salute e del più generale stato del decadimento dello stesso». La Cassazione conclude che le eccezionali condizioni di pericolosità di Riina debbano essere basate «su precisi argomenti di fatto rapportati all’attuale capacità del soggetto di compiere, nonostante lo stato di decozione in cui versa, azioni idonee in concreto ad interagire il pericolo di recidivanza».

La Cassazione ha dunque annullato l’ordinanza del tribunale di sorveglianza di Bologna con rinvio: ha dato cioè un giudizio di legittimità sul caso e non di merito, affermando che il tribunale di Bologna dovrà verificare di nuovo, motivando adeguatamente, l’eventuale compatibilità delle condizioni generali di salute di Riina con la detenzione carceraria. E dovrà farlo tenendo conto, nei confronti di Riina, del rispetto dei criteri ribaditi dalla Suprema Corte e dei principi stabiliti dalla Costituzione.

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