Telefonia fissa: obbligo di fattura ogni mese e non ogni 28 giorni

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Gli operatori della telefonia fissa dovranno rinunciare a un sistema di fatturazione che danneggia gli utenti

I principali operatori di telefonia fissa – Tim, Vodafone, Wind3 e Fastweb – non potranno più emettere fattura ogni 28 giorni ma dovranno farlo con cadenza mensile.

La fatturazione ogni quattro settimane consente alle società leader del mercato telefonico di “guadagnare” 2 o 3 giorni per ogni mese e dunque di emettere 13 fatture all’anno anziché 12, come invece dovrebbe essere.

Attraverso questo meccanismo le tariffe pagate dai consumatori aumentano in media dell’8,6% ogni anno.

Ma l’Authority per le comunicazioni (Agcom) ha detto basta.

Infatti, con una delibera dello scorso marzo [1] l’Autorità aveva già stabilito che la fatturazione ogni 28 giorni è consentita soltanto nel settore della telefonia mobile mentre è vietata nella telefonia fissa e nelle offerte cosiddette “ibride” (comprensive cioè dei servizi sia su fisso che su cellulare).

Le società telefoniche che hanno attuato questa spregiudicata politica commerciale avevano 90 giorni di tempo per mettersi in regola. Ma nessuna di loro lo ha fatto. Anzi, hanno impugnato la delibera davanti al Tribunale amministrativo regionale (Tar), la cui decisione è prevista per febbraio 2018.

Nonostante ciò, scaduti i tre mesi, l’Authority per le comunicazioni è andata avanti per la sua strada e con il provvedimento di ieri ha deciso di sanzionare Tim, Vodafone, Wind3 e Fastweb.

L’importo della multa deve essere ancora stabilito, ma può arrivare fino a un milione di euro.

L’iniziativa dell’Authority nasce anche dall’esigenza di evitare che questa modalità di fatturazione possa iniziare ad essere utilizzata anche in altri settori delle telecomunicazioni (a cominciare dai canali televisivi a pagamento).

Il problema non è legato soltanto ai maggiori costi complessivi che il consumatore deve sopportare a causa della fatturazione ogni quattro settimane ma riguarda anche la correttezza dei rapporti tra i gestori di telefonia e i loro clienti nonché la necessità che la concorrenza tra i vari operatori economici del settore sia effettiva – dunque a tutto vantaggio dei consumatori – e non soltanto apparente.

In effetti, le società colpite dal provvedimento dell’Agcom avevano informato la clientela circa la nuova modalità di fatturazione, ma non sempre in maniera chiara e trasparente.

È vero poi che il cliente può recedere dal contratto di telefonia – senza penali, né costi di disattivazione – a fronte di una modifica delle condizioni contrattuali effettuata unilateralmente dal gestore [2], ma questo diritto viene sostanzialmente vanificato dal fatto che tutti i principali operatori telefonici hanno adottato la fatturazione a 28 giorni. Insomma, chi esercita il diritto di recesso cade quasi inevitabilmente dalla padella nella brace.

E qui entra in gioco il problema relativo alla concorrenza.

Infatti, se diverse società dello stesso settore mettono in pratica una identica politica commerciale a danno dei consumatori (come in questo caso) è forte il sospetto di un cartello – cioè di un accordo – tra gli stessi gestori, che lede i diritti degli utenti e viola le norme sulla concorrenza.

Questa situazione anticoncorrenziale è stata segnalata da varie associazioni di consumatori ed è probabile che sulla questione intervenga l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (Antitrust o AGCM) con una propria indagine.

note

[1] Delibera n. 121 del 15 marzo 2017

[2] Art. 70, comma 4 del Decreto legislativo n. 259 dell’1 agosto 2003 (“Codice delle comunicazioni elettroniche”)

Vale l’assicurazione per la guida fuori strada?

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Utili informazioni per comprendere se l’assicurazione per la responsabilità civile auto sia applicabile anche ai sinistri avvenuti su aree private. 

Se ci si chiede se l’assicurazione valga anche per la guida fuori strada, ad esempio su percorsi sterrati, la risposta è che l’obbligo di copertura assicurativa imposto dalla legge vale solo per la circolazione su strade di uso pubblico o su aree a queste equiparate.

Dove vige l’obbligo di copertura assicurativa

La legge italiana [1] stabilisce che i veicoli a motore senza guida di rotaie, compresi i filoveicoli e i rimorchi, non possono essere posti in circolazione su strade di uso pubblico o su aree a queste equiparate se non siano coperti dall’assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi.

La stessa legge, poi, affida ad un altro atto normativo (cioè ad un decreto ministeriale) [2]il compito di individuare quali siano le aree equiparate a quelle di uso pubblico sulle quali è per legge obbligatorio che i veicoli in circolazione debbano essere coperti dall’assicurazione per la responsabilità civile verso i terzi.

Riassumendo, per legge vi è l’obbligo a far circolare i veicoli a motore senza guida di rotaie, compresi i filoveicoli e i rimorchi, solo se coperti da assicurazione per la responsabilità civile su:

  • strade di uso pubblico
  • e su aree equiparate a quelle ad uso pubblico (individuate da apposito decreto ministeriale).

Chiaramente nulla esclude che, al di là della legge, la singola polizza possa con apposita clausola estendere la copertura assicurativa anche ad aree (come le aree private chiuse al pubblico) sulle quali non vi sia l’obbligo legale di copertura assicurativa per la circolazione dei veicoli (tuttavia una simile clausola avrà valore solo fra assicurato e assicuratore e non sarà operativa nei confronti dell’assicuratore del danneggiato).

La rc auto vale sulle strade di uso pubblico ed aree equiparate.

Quali sono le strade di uso pubblico

L’obbligo di porre in circolazione i veicoli solo se coperti dall’assicurazione per la responsabilità civile vale, come detto, principalmente sulle strade di uso pubblico.

Cosa si intende per strada di uso pubblico?

La giurisprudenza ha chiarito che la strada è di uso pubblico se essa è aperta ad un numero indeterminato di persone, se cioè esiste la possibilità giuridicamente lecita di accedervi da parte di tutti i soggetti diversi dai titolari dei diritti sull’area stessa (proprietari, affittuari ecc.) [3].

Per essere classificata strada di uso pubblico non conta, quindi, se la strada sia di proprietà pubblica o privata; ciò che conta è se sulla strada possa lecitamente transitare un numero indeterminato di persone.

In base a questo criterio, perciò, è stata considerata strada di uso pubblico (su cui vige l’obbligo di circolazione dei veicoli solo se muniti di rc auto e su cui risulta quindi pienamente operativa la copertura assicurativa obbligatoria della rc auto):

  • l’area di parcheggio destinata agli utenti di un ipermercato anche se di proprietà privata [4];
  • il cortile interno di una scuola solamente se si dimostri che possano transitarvi un numero incontrollato di veicoli senza alcuna limitazione né numerica né soggettiva [5];

Su queste basi, quindi il percorso anche sterrato rientra nel concetto di strada di uso pubblico (con operatività della copertura assicurativa della rc auto) solo se sia un percorso sempre e costantemente praticabile senza limiti da un numero indeterminato di veicoli.

Le strade di uso pubblico sono quelle dove può sempre transitare un numero incontrollato di veicoli

Quali sono le aree equiparate alle strade di uso pubblico

L’obbligo legale di porre in circolazione i veicoli solo se coperti dall’assicurazione per la responsabilità civile si estende anche alle aree equiparate alle strade di uso pubblico.

La legge [6] ha stabilito che debbano essere considerate aree equiparate alle strade di uso pubblico tutte le aree, di proprietà pubblica o privata, aperte alla circolazione del pubblico.

Ciò significa, come ha riconosciuto la giurisprudenza, che l’obbligo di copertura assicurativa sussiste e la copertura assicurativa sarà operativa anche:

– in un cortile privato che serve per l’accesso ai soli clienti e fornitori di un negozio e questo perché apertura alla circolazione del pubblico vi è anche se in un’area sia consentito a chiunque di circolare solamente sotto specifiche condizioni o per determinate finalità [7].

Le aree equiparate alle strade di uso pubblico sono le aree aperte alla circolazione del pubblico.

note

[1] Art. 122 cod. assicurazioni

[2] D.m. 1° aprile 2008, n. 86.

[3] Cass., sent. n. 9003 del 29.04.2005.

[4] Cass., sent. n. 17279 del 23.07.2009.

[5] Cass., sent. n. 9496 del 19.07.2000.

[6] D.m. 1° aprile 2008, n. 86.

[7] Cass., sent. n. 20991 del 27.10.2005.

App Ratatua contro il sovraindebitamento: come funziona?

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Un’applicazione gratuita su pc o cellulare per sapere se si riesce a sostenere un debito a partire dalla propria situazione finanziaria. A che e a chi serve.

La tecnologia dà una mano anche per fare un investimento senza rischiare di restare «al verde». Grazie ad un’app, infatti, è possibile valutare se la spesa che si vuole fare è sostenibile, se ci si può permettere di chiedere un prestito alla banca, oppure, semplicemente, gestire il bilancio personale e familiare.

L’app si chiama Ratatua ed è stata lanciata all’inizio del 2017 dal Movimento Difesa del Cittadino insieme alla società per la prevenzione del rischio creditizio e delle frodi Experian. Si tratta di uno strumento scaricabile sul pc o sullo smartphone per sapere se, a partire dalla propria situazione finanziaria di oggi e di domani, chiedere, ad esempio, un mutuo sarà fattibile oppure significherà fare il passo più lungo della gamba. In altre parole, è – almeno nelle intenzioni di chi l’ha progettata – un’app contro il sovraindebitamento.

Come funziona l’app Ratatua

Ratatua, l’app contro il sovraindebitamento, è gratuita e disponibile su Apple Store e su Google Play. Una volta scaricata, è necessario inserire i dati che verranno via via chiesti dall’applicazione, cioè:

  • il reddito personale o familiare;
  • le eventuali rate del prestito o del mutuo;
  • le spese che si sostengono per l’abitazione (utenze, imposte, ecc.);
  • entrate fisse o saltuarie (anche di eventuali soldi investiti);
  • uscite medie mensili;
  • spese per l’istruzione dei figli.

A questo punto, l’app Ratatua crea un profilo finanziario personalizzato per poter simulare un qualsiasi finanziamento e capire se si è in grado di sostenerlo senza rischiare il sovraindebitamento, cioè valutando la sua fattibilità e ricevendo qualche consiglio su come gestire la spesa.

I dati inseriti nell’app restano nella memoria del dispositivo utilizzato: questo significa che non verranno condivisi altrove e che nessuno, al di fuori del diretto interessato, potrà utilizzarli. In altre parole, l’app Ratatua garantisce l’anonimato.

A chi serve l’app Ratatua contro il sovraindebitamento

Ammesso che un’app contro il sovraindebitamento può servire a chiunque, appare ovvio che Ratatua è utile soprattutto a chi cammina spesso sulla sottile linea che separa l’arrivare a fine mese e il debito cronico. Chi non ha difficoltà economiche e, anzi, si può permettere un tenore di vita molto elevato, non si pone il problema di chiedere un finanziamento e non riuscire a restituirlo. Chi, invece, trema all’idea di avere una spesa imprevista ha più bisogno di calcolare le reali possibilità di affrontare un debito.

A chi può essere maggiormente utile, quindi, l’app Ratatua? Ad esempio ai giovani che vogliono acquistare una casa e che, in condizioni di eterno precariato o con uno stipendio spesso non degno di questo nome, non sanno se saranno in grado di rispettare le rate di un mutuo.

Ma anche a chi vuole acquistare un’auto e deve chiedere un prestito. O a chi, di fronte alla spesa straordinaria del matrimonio di un figlio o della ristrutturazione della casa, deve bussare alle porte della banca per farsi dare una mano.

L’app può essere utile pure al piccolo imprenditore che vuole allargare l’azienda acquistando nuovi macchinari o assumendo altro personale.

In sostanza, come sostiene il presidente del Movimento Difesa del Cittadino, Francesco Luongo, l’app Ratatua contro il sovraindebitamento si pone come supporto al cittadino e come antidoto alla ridotta educazione finanziaria che si registra in Italia, dove «le situazioni di difficoltà sono dovute alla scarsa conoscenza dele nozioni fondamentali su banca, finanza, investimenti e risparmio, alla base di comportamenti sbagliati e scelte rischiose». Non è un caso, infatti, se un quarto delle famiglie italiane (il 24%) non riesce a far fronte ai debiti acquisiti.

note

Autore immagine: Movimento Difesa del Cittadino

Telecamere in negozio: obbligatorio segnalarlo ai clienti

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Multa al titolare se all’ingresso del negozio manca il cartello che avvisa i clienti  dell’area videosorvegliata

Installare una telecamera o un sistema di videosorveglianza in un negozio è legittimo per questioni di sicurezza. Talvolta, si tratta di una misura indispensabile per tutelare i beni ed il personale, per scongiurare furti, rapine e ogni genere di “attacco”. Tuttavia, il titolare del negozio che decida di installare un impianto di videosorveglianza all’interno dell’esercizio commerciale ha l’obbligo di avvisare in anticipo  la clientela. Vediamo perché.

Videosorveglianza e privacy

Per poter installare una videocamera di sorveglianza, senza rischiare di incorrere in sanzioni amministrative (una multa per intenderci), è necessario darne previo avviso ai soggetti che verranno ripresi dalla telecamera. Ciò in quanto, l’immagine di un individuo costituisce un dato personale, che come tale dev’essere tutelato. La tutela che viene in rilievo in questi casi è quella concernente la privacy di ognuno.  È necessario, dunque, avvisare i soggetti che verranno inquadrati, mediante apposita segnaletica, così che tutti coloro di cui vengono raccolte le immagini ne siano previamente informati e consapevoli.

Dunque, se un commerciante installa una telecamera per la videosorveglianza in negozio deve darne, in nome della tutela della privacy [1], adeguata informazione alla clientela perché la raccolta delle immagini delle persone è considerata un trattamento di dati personali [2]. 

Videosorveglianza in negozio: obbligatorio segnalarlo ai clienti

Non è consentita, quindi, una telecamera “a sorpresa”, né la presenza di “telecamere nascoste”. Al contrario, la presenza di impianti di videosorveglianza deve essere sempre previamente segnalata. Come? Attraverso l’apposita segnaletica. La segnaletica deve avere un formato e un posizionamento tale da essere chiaramente visibile, può inglobare un simbolo o una stilizzazione di esplicita ed immediata comprensione e deve essere eventualmente diversificata se le immagini sono solo visionate o anche registrate.

Segnaletica al di fuori del negozio

Attenzione: non è sufficiente che la segnaletica sia collocata all’interno del negozio. Secondo la legge [3], infatti, l’informativa deve essere resa agli interessati prima che facciano ingresso nell’area videosorvegliata. Dunque, l’apposita “cartellonistica” deve essere collocata all’esterno dell’esercizio commerciale o, comunque, al di fuori del raggio di azione delle telecamere.

Si rischiano, al contrario, forti sanzioni amministrative. È quanto di recente deciso dalla Corte di Cassazione [4] nei confronti di una farmacia che non si era adeguata agli obblighi di legge. In particolare, la contestazione era relativa al fatto che il titolare della farmacia aveva omesso di informare gli utenti della stessa mediante una segnaletica che si collocasse al di fuori del raggio di azione delle telecamere e solo un cartello interno, attaccato ad una parete, recava la scritta “area videosorvegliata”. Come anticipato, invece, i clienti devono essere previamente avvertiti in ordine alla presenza di un’area videosorvegliata. Il risultato? La farmacia è stata condannata al pagamento di una multapari a  oltre 2 mila e 400 euro.

Onde evitare siffatte sanzioni, quindi, è bene  prendere i dovuti accorgimenti e collocare l’apposita segnaletica all’esterno o comunque all’ingresso dei locali, di modo che i clienti siano previamente resi edotti del fatto che stiano entrano in un’area videosorvegliata.

 

note

[1] D. lgs. n. 196 del 30.06.2003.

[2] Ex multibus, Cass., sent.  n. 17440 del 02.09.2015.

[3] Art. 13 D. lgs. n. 196 del 30.06.2003.

[4] Cass. sent. n. 13663 del 05.07.2016.

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https://business.laleggepertutti.it/25092_telecamere-in-negozio-obbligatorio-segnalarlo-ai-clienti

Bollo auto ed esenzione per legge 104

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La legge 104 prevede agevolazioni per l’acquisto e il mantenimento dell’auto da parte del disabile o del familiare che lo assiste

La Legge 104, come noto, prevede numerose agevolazioni per le persone invalide o disabili e per i loro familiari. Tra queste vi è l’esenzione del bollo auto sui veicoli da loro condotti. Prima di procedere ad analizzare l’esenzione del bollo auto facciamo chiarezza su alcuni concetti.

Bollo auto: le tasse sui veicoli

Le tasse sui veicoli immatricolati sono due e cioè la tassa automobilistica (il bollo auto appunto), il cui importo viene determinato in base ai Kw (Kilovatt) del veicolo ed alla regione e l’imposta provinciale di trascrizione (nota come Itp). L’obbligo del pagamento sorge in capo ai soggetti che sono proprietari, usufruttuari o acquirenti con patto di riservato dominio di un veicolo, mentre in caso di leasing e per tutta la durata del contratto l’imposta è dovuta dagli utilizzatori del veicolo. Per ottenere l’esonero dal pagamento è necessario attestare presso il Pra, attraverso idonea documentazione, l’esistenza di una circostanza atta ad escludere l’obbligo di pagamento. Ad esempio: un provvedimento definitivo dell’autorità giudiziaria, un atto o un provvedimento definitivo dell’autorità amministrativa, un atto di vendita o una denuncia di furto, una dichiarazione di rottamazione del veicolo etc.

Bollo auto: esenzione per legge 104

L’esenzione dal bollo auto richiede una espressa istanza da parte della persona che ne ha diritto, da presentare direttamente presso l’ufficio tributi della Regione di residenza unitamente alla certificazione medica che attesta l’invalidità.

Bollo auto e legge 104: chi può beneficiare dell’esenzione?

Come anticipato, l’esenzione dal pagamento del bollo derivante dalle previsioni della Legge 104 del 1992, è limitata ad alcune categorie di persone. In particolare si tratta di soggetti affetti da:

  • disabilità che comporta ridotte capacità motorie permanenti;
  • disabilità con grave limitazione della capacità di deambulazione o affetti da pluriamputazioni;
  • disabilità mentale o psichica per la quale e stata riconosciuta l’indennità di accompagnamento;
  • disabilità per cecità o sordità.

L’esenzione del bollo auto può essere applicata ai veicoli, condotti dai disabili o da familiari per il loro accompagnamento, con limitazione di cilindrata fino a 2000 cc se con motore a benzina, e fino a 2800 cc se con motore diesel. L’esenzione può essere concessa per un solo veicolo, a scelta dal disabile stesso qualora ne possieda più di uno. Il veicolo deve essere intestato al disabile o al familiare che ce l’ha a carico. In ordine alla richiesta di esenzione bisogna precisare che se a richiedere lesenzione bollo auto è il disabile al quale è intestato il veicolo non vi sono requisiti di reddito da rispettare e dunque l’esenzione spetta indipendentemente dal reddito del cittadino. Diversamente, se il richiedente è un familiare, lesenzione dal pagamento del bollo auto è ottenibile solo al ricorrere di alcune condizioni reddituali. L’esenzione dal pagamento del bollo ha carattere permanente: una volta riconosciuta per il primo anno, prosegue anche per gli anni successivi, senza dover effettuare ulteriori adempimenti. Tuttavia, qualora vengano meno le condizioni dell’agevolazione (per esempio il veicolo viene venduto o radiato oppure viene meno l’invalidità del beneficiario), l’interessato deve darne tempestiva comunicazione all’ufficio competente. La stessa comunicazione deve esser compiuta dagli eredi del titolare del beneficio nel caso di morte di quest’ultimo. In caso contrario, l’Agenzia delle entrate provvederà al recupero forzoso del tributo maggiorato di mora e sanzioni.

Cartelle di pagamento: l’errore più frequente che le rende nulle

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L’escamotage per ottenere l’annullamento completo della cartella o quantomeno l’eliminazione degli interessi da corrispondere.

Pagare o fare ricorso? Questo è il dilemma. Quando arriva una cartella di pagamento e si sa di essere nel torto per aver effettivamente omesso un pagamento dovuto, non resta che aggrapparsi a qualche vizio formale: il classico escamotage che ogni contribuente spera di trovare, panacea di un problema che sembra non avere altre soluzioni. E se c’è l’escamotage, le strade da intraprendere sono due: o impugnare la cartella davanti al giudice o chiederne lo sgravio in autotutela. La seconda delle opzioni offre minori garanzie, a meno che si tratti di un vizio palese (nel qual caso è consentito ottenere la sospensione automatica); la prima invece presenta il vantaggio di avere davanti un organo imparziale e terzo, quale il magistrato, ma è sicuramente una strada tortuosa, lunga e costosa. C’è poi il fatto che, anche quando una sentenza afferma un principio, gli altri giudici potrebbero avere un’interpretazione diversa. Esiste però un motivo di nullità delle cartelle di pagamento assai frequente per il quale ormai si è formata una giurisprudenza consolidata. Ed è di questo che parleremo in questo articolo dedicato appunto all’errore più frequente che rende nulle le cartelle di pagamento.

Quella che stiamo per spiegare non è la tesi di qualche isolato tribunale; è la stessa Cassazione a confermarla le cartelle sono quasi tutte incomplete perché non indicano i criteri di calcolo degli interessi. Che significa? Che non basta che, nel calcolo delle somme richieste al contribuente sia riportato l’importo dovuto a titolo di interessi, ma deve essere esplicitato anche il criterio di calcolo applicato dall’Esattore, in base cioè a quali aliquote si è arrivati, anno dopo anno, a tale somma. Cerchiamo di spiegarci meglio, anche con qualche documento che abbiamo estratto da alcune cartelle che, per ovvie ragioni di privacy, abbiamo oscurato.

Come noto, quando non si paga una tassa, oltre alle sanzioni, vengono calcolati anche gli interessi dal giorno in cui sarebbe dovuto intervenire il versamento a quando questo viene intimato. Se il contribuente non adempie, tali importi vengono «iscritti a ruolo»: in altre parole, con un documento formale, l’ente titolare del credito delega l’Agente della riscossione (Agenzia delle Entrate Riscossione) a riscuotere le somme in via forzata. Come? Inizialmente con la notifica della cartella esattoriale e dopo, con il pignoramento. Ebbene, la cartella esattoriale deve indicare:

  • il tributo, con il relativo codice;
  • l’importo del tributo;
  • l’anno di riferimento del tributo;
  • gli oneri di riscossione (quello che un tempo si definiva «aggio»);
  • le spese di notifica;
  • gli interessi distinti dal capitale: non basta la somma complessiva degli interessi dovuti, ma è necessario una chiara indicazione delle modalità di calcolo degli interessi addebitati, specificando quanto meno il tasso applicato e la decorrenza.

Per darti la prova di ciò riportiamo qui di seguito un esempio di prima pagina di una cartella di pagamento.

In questa cartella viene prima indicato:

  • l’importo dovuto a titolo di imposta,
  • l’ammontare complessivo degli interessi (maturati dall’anno di maturazione del debito sino all’iscrizione a ruolo della somma);
  • le spese di notifica.

Come evidente, da nessuna parte della cartella viene indicato il tasso di interessiapplicato anno dopo anno, a partire dal 2010, anno in cui – nell’esempio in questione – l’importo era dovuto.

La lacuna non viene sanata neanche nella successiva pagina della cartella dove vi è un ulteriore dettaglio.

La cartella che qui abbiamo voluto riportare è solo una delle tante che presentano questo difetto. Anzi, ad oggi quelle emesse dalla ex Equitalia presentano quasi tutte questa tipologia di vizio. Bisognerà verificare poi se in quelle che emetterà in futuro il nuovo esattore, Agenzia delle Entrate Riscossione, si provvederà a sanare tale anomalia.

Perché riportare il calcolo degli interessi è così importante e determina la nullità della cartella? La spiegazione è in una recente sentenza della Commissione Tributaria di Isernia [2]. La cartella di pagamento, in quanto manifestazione di una pretesa impositiva da parte della pubblica amministrazione, deve essere improntata al principio della «trasparenza» imposto dalle norme sul procedimento amministrativo e dallo Statuto del contribuente [3]. Quindi, anche la cartella, al pari di qualsiasi atto della pubblica amministrazione, deve riportare una congrua motivazione e non deve mancare degli elementi essenziali, che consentano al contribuente di verificare se le somme che gli vengono richieste siano corrette o meno. Tale requisito riguarda anche gli interessi riportati nella cartella medesima.

In gran parte delle cartelle manca la specificazione delle informazioni relative al calcolo degli interessi. Al contrario, tali importi vengono semplicemente riportati in misura complessiva e riferiti all’annualità relativa all’omesso versamento di imposte. Difficilmente vengono inseriti dei prospetti specifici per il calcolo degli interessi. L’orientamento di tutta la giurisprudenza tributaria conviene sul fatto che la mancata indicazione delle modalità di calcolo degli interessi, quantomeno con riferimento al tasso applicato e alla decorrenza, rappresenta un motivo di illegittimità della cartella. Attenzione però: se per alcuni giudici la lacunosa indicazione degli interessi rende nulla l’intera cartella, per altri essa investe solo la parte relativa agli interessi stessi, mentre resta fermo l’obbligo di pagare le imposte e le sanzioni. Anche in questo secondo caso, però, almeno per le cartelle esattoriali particolarmente vecchie – dove l’importo a titolo di interessi è elevato – il contribuente potrebbe ricevere un sostanzioso sconto. In quest’ultimo caso, però, bisognerà valutare attentamente la convenienza dell’operazione, atteso che il contribuente deve sempre anticipare le spese di giudizio e l’onorario del professionista.

note

[1] Cass. sent. n. 249433/16

[2] Ctp Isernia, sent. n. 133/01/17

[3] Art. 7 Statuto del contribuente.

Autore immagine: 123rf com

Cartelle di pagamento: l’errore più frequente che le rende nulle

Assegno di ricollocazione sino a 5mila euro per 500mila disoccupati

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Va a regime l’assegno di ricollocazione per il reimpiego dei disoccupati: mezzo milione di potenziali beneficiari.

Un assegno sino a 5mila euro per rientrare nel mercato del lavoro, del quale potrebbero beneficiare 500mila disoccupati ogni anno: sono questi i numeri previsti per l’entrata a regime della ricollocazione, una misura (ad oggi sperimentale) finalizzata a trovare un nuovo impiego alle persone con più difficoltà nel rioccuparsi.

L’assegno di ricollocazione, è bene precisarlo, sarà erogato sotto forma di voucher e potrà essere speso presso i centri o le agenzie per l’impiego o presso i delegati della Fondazione consulenti per il lavoro, che potranno incassarlo solo se riusciranno a trovare una nuova occupazione al beneficiario della misura.

Ma procediamo per ordine e vediamo come funzionerà l’assegno di ricollocazione da quest’autunno in poi.

Chi ha diritto all’assegno di ricollocazione

Hanno diritto all’assegno di ricollocazione tutti coloro che percepiscono la Naspi, cioè l’indennità di disoccupazione, da almeno 4 mesi. L’adesione alla ricollocazione è volontaria e l’erogazione del voucher non fa perdere e non riduce la Naspi, così come non si perde per la mancata adesione alla misura.

A quanto ammonta l’assegno di ricollocazione

L’assegno di ricollocazione parte da un minimo di 250 euro e può arrivare, come anticipato, sino a 5mila euro. L’ammontare dell’assegno dipende dal profilo di occupabilità dell’interessato: in pratica, più è difficile trovare un nuovo lavoro al beneficiario, più alto sarà l’assegno.

Come richiedere l’assegno di ricollocazione

Per quanto riguarda la procedura per ottenere l’assegno di ricollocazione, il primo soggetto ad attivarsi è il sistema informativo unitario (Siu) dell’Anpal (l’agenzia nazionale per le politiche attive del lavoro): una volta trascorsi 4 mesi di disoccupazione senza reimpiego, difatti, Il Siu invia un’apposita comunicazione al disoccupato.

Se questi decide di aderire alla ricollocazione, deve fare domanda per ottenere l’assegno:

  • telematicamente attraverso il Siu del portale Anpal;
  • rivolgendosi direttamente al centro per l’impiego competente, che deve rilasciare l’assegno entro 15 giorni, verificata la sussistenza dei requisiti.

Il beneficiario, se decide di accettare l’assegno, può scegliere l’ente accreditato ai servizi per il lavoro che gli erogherà il servizio di assistenza alla ricollocazione: in questo caso, viene sospeso il patto di servizio personalizzato sottoscritto con il centro per l’impiego competente, in quanto viene sostituito dalle misure di ricollocazione.

Perdita dell’assegno e della Naspi

Dopo il primo appuntamento, l’ente che si occupa della ricollocazione elabora il “programma di ricerca intensiva“, che deve essere sottoscritto dall’interessato, e assegna un tutor al disoccupato.

Il beneficiario dell’assegno di ricollocazione deve partecipare agli incontri concordati con l’ente ed accettare l’offerta congrua di lavoro che eventualmente gli sarà fatta.

In caso contrario, devono essere applicate le dovute sanzioni, che vanno da una prima riduzione della Naspi fino alla sua perdita totale.

Assegno di ricollocazione anticipato

A breve l’assegno di ricollocazione dovrebbe essere esteso anche a chi il lavoro non l’ha ancora perso, ma si trova in cassa integrazione straordinaria per crisi aziendale.

Questi dipendenti a rischio licenziamento potrebbero dunque, grazie alle misure di ricollocazione, trovare un nuovo lavoro ancora prima di perdere definitivamente il vecchio impiego.

Assegno di ricollocazione delle Regioni

Non dimentichiamo, infine, che accanto all’assegno di ricollocazione esistono diverse misure, con la stessa finalità, riconosciute dalle singole Regioni:

  • la Campania prevede un assegno di ricollocazione per i disoccupati senza sostegno al reddito;
  • il Lazio ha previsto lo scorso anno una misura di ricollocazione per le donne con figli minori di 6 anni ed ha appena finanziato il Contratto di ricollocazione generazioni, una misura per disoccupati tra i 30 e i 39 anni, che aiuta anche chi vuole iniziare un’attività autonoma;
  • l’Emilia Romagna ha previsto un bonus per i lavoratori dell’edilizia con almeno 50 anni di età;
  • la Lombardia, dal 2013, ha previsto una dote unica per il lavoro, con oltre 155 milioni di sostegni prenotati;
  • in Veneto è partito lo scorso anno il programma Garanzia adulti, grazie al quale sono stati erogati bonus sino a 3mila euro ai disoccupati over 50 di lunga durata; sarà presto operativo anche l’Assegno per il lavoro, aperto a tutti i disoccupati che potranno ottenere direttamente i fondi dal centro per l’impiego, su base personalizzata;
  • in Sardegna è stato invece attivato il Cris (contratto di ricollocazione Sardegna) destinato a 2.700 disoccupati di lunga durata dell’isola;
  • in Umbria era possibile aderire, sino a qualche mese fa, alle agevolazioni del Pacchetto adulti;
  • in Sicilia è stato invece attivato da quest’estate il contratto di ricollocazione, a favore dei disoccupati con Isee sotto i 20mila euro, con misure di sostegno diverse a seconda delle fasce di età ed un’indennità di partecipazione che viene erogata direttamente al disoccupato;
  • a breve sarà operativa anche la dote unica lavoro della Calabria, che prevede, tra le varie attività, misure riservate a disabili e fasce deboli.

Bollette a 28 giorni illegittime e diritto al rimborso

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Telefoni: stop alle bollette ogni 28 giorni. Il sistema grava sulle tasche degli utenti

Pagare una bolletta telefonica ogni 28 giorni anziché con cadenza mensile potrebbe sembrare quasi indifferente. In realtà, si tratta di un vero e proprio “trucchetto” ideato dalle compagnie telefoniche (tra cui Tim, Wind, Tre, Vodafone e Fastweb) per lucrare sulle tasche degli utenti. Calcolatrice alla mano, infatti, pagare una bolletta telefonica ogni 28 giorni anziché con cadenza mensile, significa pagarne 13 e non 12 in un anno. In buona sostanza, così facendo, ogni utente ogni anno “regala” alla propria compagnia telefonica il pagamento di una bolletta non dovuta. Tradotto in denaro: il rincaro per il cittadino si aggira intorno all’8,6% in più ogni anno, mentre l’illegittimo guadagno per la compagnia telefonica corrisponde ad una vera e propria tredicesima.

Siamo quindi al colmo: se non tutti i lavoratori (purtroppo) percepiscono una tredicesima, al contrario tutte le compagnie telefoniche (o almeno le più importanti) si sono letteralmente accaparrate questo diritto. Si tratta, a ben vedere, di una tredicesima al contrario (e dunque ancora più assurda), atteso che in questo caso non è erogata dal datore di lavoro, ma dal consumatore.

Per fortuna “il trucchetto” – portato avanti dal 2015 – è stato scoperto e con una delibera dello scorso marzo è intervenuta anche l’Agcom (Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni) per “costringere” gli operatori a porre fine a questa pratica [1]. Le compagnie telefoniche avevano 90 giorni di tempo per “mettersi in regola”. Nonostante tale monito, però, gli operatori non si sono ancora adeguati, continuando ad emettere fatture ogni 28 giorni anziché mensilmente. L’Agcom, dunque,  ha deciso di avviare procedimenti sanzionatori nei confronti degli operatori telefonici Tim, Wind Tre, Vodafone e Fastweb per il mancato rispetto delle disposizioni relative alla cadenza delle fatturazioni e dei rinnovi delle offerte di comunicazioni elettroniche.

Bollette ogni 28 giorni illegittime: Cosa fare?

Nel frattempo che gli operatori si adeguino a pratiche più corrette, è bene comunque non restare con le mani in mano e chiedere quanto prima alla propria compagnia telefonica  il recesso dal contratto e sceglierne un’altra che non applichi la fatturazione a 28 giorni. Resta comunque fermo il diritto degli utenti ad ottenere il rimborso di quanto pagato in eccedenza. A tal fine si hanno due possibilità:

  • rivolgersi ai Co.re.com, ossia i comitati regionali per le comunicazioni. Si tratta di organi funzionali all’Agcom, che hanno il compito di tentare una conciliazione nelle controversie in materia di telecomunicazioni tra utenti e operatori;
  • inviare direttamente un reclamo alla propria compagnia telefonica con richiesta di rimborso di quanto versato in eccedenza.

note

[1] Delibera n. 121/17/CONS del 15.03.2017.

Autore immegine: Pixabay.com

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