Telecamera privata: c’è bisogno di autorizzazioni?

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Non c’è bisogno di autorizzazioni della polizia per le telecamere domestiche se non riprendono anche spazi pubblici.

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Se hai paura che i ladri possano entrare in casa, che il vicino possa compiere atti di vandalismo sul tuo pianerottolo o più semplicemente che qualche curioso possa avvicinarsi alla tua porta di casa per origliare, sei libero di installare una o più telecamere di videosorveglianza sul pianerottolo, eventualmente acquistando il prodotto su internet e installandolo da solo oppure affidandoti a una delle tante società specializzate del settore. La buona notizia è che per la telecamera privata non c’è bisogno di autorizzazioni: né da parte della polizia, né dell’assemblea di condominio. È quanto chiarito dal Garante della Privacy con un recente parere [1].

L’Autorità Garante, ribadendo quanto già espresso in passato, afferma che il privato che desidera installare un impianto domestico di videosorveglianza non deve rispettare tutte le formalità previste dal codice privacy ma deve solo evitare di riprendere le zone soggette a pubblico passaggio. In questo caso scattano tutte le limitazioni previste dalla legge anche in materia di conservazione dei dati e informazione all’utenza. Così, ad esempio, se la telecamera di videosorveglianza viene installata sul pianerottolo dell’appartamento è necessario evitare che, nel raggio di azione dell’inquadratura possano finire anche gli spazi prospicienti le altre abitazioni, in modo da non riprendere i vicini che entrano o escono dalle proprie case; se la telecamera di videosorveglianza viene fissata sul muro esterno del palazzo o della villetta è opportuno fare in modo di non riprendere la strada comunale o gli altri spazi aperti al pubblico. Quand’anche non si possa fare a meno di far cadere, nell’occhio della telecamera, eventuali altri soggetti, bisognerà fare in modo di impedire il loro riconoscimento, limitando il raggio della ripresa alle sole scarpe.

Rispettate tali condizioni, l’installazione della telecamera privata è libera anche se questa è strutturata in modo tale da registrare le immagini catturate.

Se l’installazione di un impianto viene effettuato da privati «per fini esclusivamente personali, la disciplina del codice della privacy non trova quindi applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi, risultando comunque necessaria l’adozione di cautele a tutela dei terzi». In pratica il privato che decide di installare telecamere, con o senza registrazione delle immagini, non ha alcun particolare obbligo di richiedere autorizzazioni, né al Comune né al condominio. L’assemblea, in particolare, non può impedire l’uso delle parti comuni dell’edificio se ciò non impedisce agli altri condomini di farne pari uso.

L’unica condizione di cui il Garante raccomanda il massimo rispetto è che la telecamera non riprenda spazi pubblici perché in tal caso sarà necessario procedere all’oscuramento delle immagini oppure alla modifica dell’angolo visuale delle telecamere. Diversamente, conclude il parere centrale, scatteranno tutti gli obblighi previsti dal codice privacy configurandosi un trattamento di dati per finalità diverse da quelle esclusivamente personali.

note

[1] Garante privacy, parere n. drep/ac/113990 del 7.03.2017.

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Multe autovelox: dal 1° agosto potrebbero essere nulle

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Il Ministero dei trasporti, con parere, ha confermato che dal 1° agosto 2017 le regole per effettuare la taratura degli autovelox sono diverse, per cui occorre verificare se gli apparecchi sono stati tarati nel rispetto delle prescrizioni
autovelox multe contravvenzioni

di Valeria Zeppilli – Con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti numero 282 del 13 giugno 2017 il sistema di taratura e di impiego dei misuratori elettronici della velocità ha subito alcune modifiche, operative dal 1° agosto 2017, che, sebbene in generale non abbiano cambiato di molto la prassi precedente, su un particolare aspetto stanno iniziando a destare alcune perplessità, tali da mettere in discussione alcune delle più recenti multe elevate per eccesso di velocità.

Autovelox: le nuove regole sulla taratura degli apparecchi

In particolare, con riferimento al campo di velocità nel quale vengono eseguiti i test di taratura periodica degli autovelox utilizzati dalle pattuglie mobili, le velocità che i veicoli utilizzati per le misurazioni di prova devono raggiungere nei passaggi richiesti (da 50 a 100) sono comprese tra i 30km/h e i 230 km/h.

Sono velocità molto più elevate rispetto al passato, quando il loro raggiungimento non era tassativo e i test arrivavano più o meno a 200 km/h.

Il parere richiesto al MIT

Il dubbio che tale prassi sia proseguita anche dopo il 1° agosto deriva da un quesito inviato al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti dall’Unione lombarda dei Comuni di Basiano e Masate, al quale il MIT ha risposto con il parere n. 6169 dell’11 ottobre 2017 (qui sotto allegato) ribadendo che, ai fini del rilascio del certificato periodico di corretta taratura, gli strumenti mobili per il controllo della velocità dei veicoli devono essere verificati annualmente con mezzi che raggiungono la velocità di 230 km/h.

Chi ha ricevuto una multa con autovelox dal 1° agosto cosa può fare?

Pertanto, chi ha ricevuto una multa per eccesso di velocità rilevato con un autoveloxsottoposto a controllo periodico di taratura successivo al 31 luglio 2017, potrà decidere di verificare che effettivamente il test necessario per il certificato sia stato eseguito nel rispetto delle prescritte velocità, rivolgendosi al corpo di polizia competente.

Si sottolinea, però, che tale verifica non sempre è agevole, posto che il certificato di taratura generalmente non specifica la velocità alla quale sono state effettivamente eseguite le prove.

Parere MIT 11 ottobre 2017 

Lecita la telecamera puntata su strada a tutela della sicurezza delle case

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La Corte di Giustizia dice sì alla compressione della privacy dei passanti se c’è un interesse alla protezione di beni come la vita della famiglia, la salute e la proprietà.

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Regole sulla privacy riviste da parte della Corte di Giustizia Europea. In una sentenza pubblicata poche ore fa [1], i giudici di Lussemburgo hanno detto che il proprietario di casa può ben puntare una telecamera sul suolo pubblico, in direzione di una strada dove i passanti circolano quotidianamente, anche senza il consenso degli interessati: a condizione che, a monte di ciò, vi sia l’esigenza di proteggere valori come la salute, la vita propria e dei familiari, ma anche la proprietà privata.

In questi casi, posto il peso che hanno detti beni, è lecito il trattamento di dati personali di soggetti terzi anche se questi non abbiano mai fornito alcuna autorizzazione.

Videosorveglianza senza limiti

La direttiva sulla tutela dei dati personali [2] permette, in linea di principio, di trattare dati di tal genere solo se l’interessato ha dato il proprio consenso. Tale direttiva non si applica però ai trattamenti aventi ad oggetto la pubblica sicurezza, la difesa, la sicurezza dello Stato e le attività dello Stato in materia di diritto penale. Allo stesso modo, non si applicano ai trattamenti di dati personali effettuati da una persona fisica per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico: tipico esempio è la telecamera puntata sul proprio garage o sulla porta del proprio appartamento per prevenire il rischio di ladri.

La sentenza però precisa che la videosorveglianza che si estende allo spazio pubblico, quella cioè installata dal privato e diretta al di fuori della sua sfera privata, non si considera un’attività esclusivamente personale o domestica. Ciò, tuttavia, che in astratto è illegittimo, può essere considerato lecito se, secondo il giudice nazionale, nel caso concreto, vi sia un legittimo interesse del responsabile del trattamento alla protezione dei propri beni come la salute, la vita propria o della sua famiglia, la proprietà privata. In tali casi, il trattamento di dati personali può essere effettuato senza il consenso dell’interessato, ma solo se ciò è strettamente necessario alla realizzazione dell’interesse del responsabile del trattamento.

La Corte poi precisa che, ricorrendo tali condizioni, le persone non devono necessariamente essere informate del trattamento dei loro dati, se tale informazione si rivela impossibile o implica sforzi sproporzionati. Ben potrebbe, allora, l’interessato, posizionare un cartello su strada per indicare che la zona è videosorvegliata.

Gli Stati membri possono, comunque, limitare la portata degli obblighi e dei diritti previsti dalla direttiva, quando una siffatta limitazione è necessaria per salvaguardare la prevenzione, la ricerca, l’accertamento e il perseguimento di infrazioni penali o la tutela dei diritti e delle libertà altrui.

note

[1] C. Giust. UE causa C-212/13 dell’11.12.2014.

[2] Direttiva sulla tutela dei dati personali n. 95/46/CE del 24.10.1995.

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Consulenza legale: la può dare chi non è avvocato?

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Quando gli avvocati hanno l’esclusiva

La legge impone l’iscrizione all’albo degli avvocati solo quando è necessario agire in giudizio, ossia fare una causa. Dinanzi al tribunale e, per le cause superiori a 1.100 euro anche davanti al giudice di pace, il cittadino non può né difendersi da solo, né ricorrere all’ausilio di professionisti che non siano avvocati abilitati (quindi, tanto per fare un esempio, non ci si può far difendere da un commercialista anche se la pratica implica nozioni di diritto commerciale o fiscale). Oggi l’avvocato, per essere tale, non deve solo aver superato l’esame di abilitazione all’esito del periodo di tirocinio, ma deve anche essere iscritto all’albo e alla Cassa forense, nonché avere una propria partita Iva .

L’avvocato ha quindi l’esclusiva su tutte le prestazioni di carattere «giudiziario», ossia quelle che implicano la difesa in giudizio e quelle a ciò collegate come, ad esempio:

  • la redazione degli atti di causa: un praticante non può redigere la citazione, farsi pagare, e poi lasciare la successiva fase della difesa in udienza a un collega abilitato;
  • l’esecuzione forzata e i pignoramenti;
  • l’assistenza dinanzi all’organismo di mediazione nelle ipotesi in cui la mediazione è obbligatoria. In tal caso infatti si tratta di una attività propedeutica alla causa e, quindi, collegata ad essa.

Quando gli avvocati non hanno l’esclusiva

Per tutte le altre attività gli avvocati non hanno “l’esclusiva” benché si tratti spesso di questioni che solo chi è professionista da diversi anni è in grado di risolvere. Ciò però non toglie che un commercialista, un ingegnere, un sindacalista o un idraulico che ne sappia quanto un avvocato non possa fornire un parere legale. Attenzione però: quando l’attività viene fornita a pagamento, chi fornisce la consulenza si assume anche la responsabilità di un eventuale errore e, quindi, sarà tenuto a risarcire il danno al cliente cui abbia consigliato qualcosa di sbagliato (ad esempio, facendo prescrivere un diritto al risarcimento del danno).

Tanto per fare qualche esempio, ecco le attività che possono essere compiute da chi non è avvocato:

  • consulenze e pareri legali, purché non finalizzati alla successiva difesa in giudizio;
  • redazione di contratti;
  • diffide, contestazioni e messa in mora;
  • risposta a lettere di diffida, contestazioni e messa in mora;
  • querele e denunce;
  • redazione di accordi e transazioni;
  • conciliazioni laddove la presenza dell’avvocato non è richiesta obbligatoriamente dalla legge;
  • richiesta di risarcimento all’assicurazione per un incidente stradale.

Del resto è principio della Comunità europea quello della libertà della prestazione di servizi, rispetto al quale l’imposizione del requisito dell’iscrizione ad albi e Ordini costituisce l’eccezione da interpretarsi sempre in senso restrittivo. Per cui la regola è che le prestazioni professionali possono essere erogate da chiunque, senza perciò rispondere del reato di «esercizio abusivo della professione», salvo nei casi in cui la legge espressamente attribuisce dette attività esclusivamente agli iscritti all’albo.

In apertura abbiamo fatto riferimento a una sentenza della Cassazione [1]. La Suprema Corte ha detto che la «prestazione di opera intellettuale nell’ambito dell’assistenza legale è riservata agli iscritti agli albi forensi solo nei limiti della rappresentanzaassistenza e difesa delle parti in giudizio e, comunque, della diretta collaborazione con il Giudice nell’ambito del processo. Al di fuori di tali limiti, l’attività di assistenza e consulenza legale non può considerarsi riservata agli iscritti agli albi professionali». Pertanto ha «diritto al compenso colui che la esercita anche in difetto di qualsiasi abilitazione specifica». Nel caso di specie i giudici hanno riconosciuto al segretario di un sindacato il diritto al pagamento della parcella per l’attività stragiudiziale da questi svolta in favore di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

Il diritto alla parcella per chi non è avvocato

La sentenza appena citata riconosce quindi il diritto al compenso per attività di consulenza paralegale fornita da persona non iscritta all’Ordine degli avvocati.

Secondo il codice civile [2] l’esercizio di talune professioni richiede l’iscrizione in albi appositi, con la conseguenza che lo svolgimento di dette attività da parte di soggetti non iscritti – che può addirittura configurare il reato di esercizio abusivo di professione – non dà diritto a compenso, neanche qualora la prestazione sia stata utile al cliente, o abbia raggiunto il risultato da questi desiderato. Il cliente può anzi chiedere la restituzione di quanto eventualmente versato, mentre il professionista non può richiedere neanche il rimborso delle spese sostenute [3].

Tuttavia, secondo il generale principio di libertà nello svolgimento delle professioni, le attività subordinate all’iscrizione a un albo devono essere tassativamente indicate dalla legge. Sono quindi leciti i contratti aventi ad oggetto attività che, sebbene solitamente svolte da professionisti abilitati, non sono espressamente a questi riservate dalla legge, con la sola conseguenza che, in questo caso, non potranno trovare applicazione le tariffe professionali forensi, vincolanti solo per gli iscritti agli albi.

Per quanto attiene specificamente all’attività di consulenza legale, per giurisprudenza costante si ritiene pienamente legittimo il contratto con cui un soggetto non avvocato si impegni a fornire assistenza stragiudiziale, in quanto l’iscrizione è richiesta dalla legge solo per lo svolgimento dell’attività di rappresentanza e difesa in giudizio e non per altre forme di consulenza [4]. La prestazione d’opera intellettuale nell’àmbito dell’assistenza legale è riservata agli iscritti negli albi forensi solo nei limiti della rappresentanza, assistenza e difesa delle parti in giudizio e comunque di diretta collaborazione con il giudice nell’àmbito del processo mentre, al di fuori di tali limiti, l’attività di assistenza e consulenza legale, sia che si svolga mediante il compimento di atti difensivi o di semplici pareri, sia pure che comporti contatti con l’altra parte e tentativi di componimento stragiudiziale, non può considerarsi riservata agli iscritti all’albo degli avvocati e procuratori legali. Conseguentemente dà diritto al compenso a favore di colui che la esercita.

note

[1] Cass. sent. n. 12840/2006.

[2] Artt. 2229 e 2231 cod. civ.

[3] Cass. sent. n. 3794/1982.

[4] Cass. sent. n. 2233/1955, n. 1474/1968, n. 5906/1987.

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Carta di identità elettronica: come funziona

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Entro il mese di agosto 2018 la carta di identità cartacea sarà sostituita, su tutto il territorio nazionale, dalla carta di identità elettronica (cosiddetta Cie). Si tratta di una smart card, simile alla patente di guida, in cui le informazioni personali sono memorizzate su microchip e su banda ottica.

La carta di identità elettronica è un documento di identificazione: consente di comprovare in modo certo l’identità del titolare, tanto sul territorio nazionale quanto all’estero, ad esclusione della verifica delle impronte (per la lettura delle quali è necessario il rilascio dell’autorizzazione da parte del Ministero dell’Interno).

Vediamo come funziona la carta di identità elettronica.

Carta di identità elettronica: com’è fatta

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La Carta di identità elettronicaèha le dimensioni di una carta di credito ed è caratterizzata da:

a) un supporto in policarbonato personalizzato mediante la tecnica del laser engraving con la foto e i dati del cittadino e corredato da elementi di sicurezza (ologrammi, sfondi di sicurezza, micro scritture, guilloches ecc.);

b) un microprocessore a radio frequenza che costituisce:

  • una componente elettronica di protezione dei dati anagrafici, della foto e delle impronte del titolare da contraffazione;
  • uno strumento predisposto per consentire l’autenticazione in rete da parte del cittadino, finalizzata alla fruizione dei servizi erogati dalle PP.AA.;
  • un fattore abilitante ai fini dell’acquisizione di identità digitali sul Sistema Pubblico di Identità Digitale (Spid)
  • un fattore abilitante per la fruizione di ulteriori servizi a valore aggiunto, in Italia e in Europa.

La carta è contrassegnata da un numero seriale stampato sul fronte in alto a destra ed avente il seguente formato: C<lettera><numero><numero><numero><numero><numero><lettera><lettera> (ad esempio CA00000AA). Questo numero seriale prende il nome di numero unico nazionale.

I dati del titolare presenti sul documento sono:

  • Comune emettitore
  • Nome del titolare
  • Cognome del titolare
  • Luogo e data di nascita
  • Sesso
  • Statura
  • Cittadinanza
  • Immagine della firma del titolare
  • Validità per l’espatrio
  • Fotografia
  • Immagini di 2 impronte digitali (un dito della mano destra e un dito della mano sinistra)
  • Genitori (nel caso di carta di un minore)
  • Codice fiscale
  • Estremi dell’atto di nascita
  • Indirizzo di residenza
  • Comune di iscrizione AIRE (per i cittadini residenti all’estero)
  • Codice fiscale sotto forma di codice a barre

Come richiedere la carta di identità elettronica

La CIE può essere richiesta presso il proprio Comune di residenza o presso il Comune di dimora, portando una fototessera, in formato cartaceo o elettronico, su un supporto USB. La fototessera dovrà essere dello stesso tipo di quelle utilizzate per il passaporto.

È consigliabile, all’atto della richiesta, munirsi di codice fiscale o tessera sanitaria al fine di velocizzare le attività di registrazione.

È inoltre necessario il versamento, presso le casse del Comune, della somma di € 16,79oltre i diritti fissi e di segreteria, ove previsti, quale corrispettivo per il rilascio della CIE. Occorre inoltre conservare il numero della ricevuta di pagamento.

In caso di primo rilascio occorre fornire all’operatore comunale un altro documento di identità in corso di validità (per esempio patente). Se non se ne è in possesso occorre presentarsi al Comune accompagnato da due testimoni.

In caso di rinnovo o deterioramento del vecchio documento, invece, bisogna consegnare quest’ultimo all’operatore comunale.

Al momento della richiesta, l’operatore comunale procede all’acquisizione delleimpronte digitali.

In questa sede il cittadino può fornire, se lo desidera, il consenso o il diniego alla donazione degli organi.
Una volta completata la procedura di richiesta allo sportello, Il cittadino riceverà la CIE, entro 6 giorni lavorativi, all’indirizzo indicato all’operatore comunale. Una persona delegata potrà provvedere al ritiro del documento, purché le sue generalità siano state fornite all’operatore comunale al momento della richiesta.

Se il cittadino non può presentarsi personalmente allo sportello del Comune a causa di malattia grave o altre motivazioni, può delegare un’altra persona (per esempio un familiare) che dovrà recarsi presso il Comune con la documentazione attestante l’impossibilità del delgante a presentarsi presso lo sportello. Il delegato dovrà fornire la carta di identità del titolare o altro suo documento di riconoscimento, la sua foto e il luogo dove spedire la CIE.

Effettuato il pagamento, concorderà con l’operatore comunale un appuntamento presso il domicilio del titolare, per il completamento della procedura.

Carta di identità elettronica: dove è già attiva?

Molti Comuni hanno già attivato la carta di identità elettronica: è possibile verificare se è disponibile la CIE presso il proprio Comune di residenza, cliccando sul seguente link: Comuni in cui è attiva la Carta di identità elettronica.

Servizio rifiuti: il Comune può procedere senza bando?

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Distinzione tra concessione e appalto di servizi

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Il lettore ci chiede se, nel caso di affidamento del servizio ad una società che sopporti i rischi collegati alla prestazione del servizio ed ottiene la sua controprestazione, almeno in parte, dagli utenti del servizio, attraverso la riscossione di un prezzo, si possa parlare di concessione e non di appalto di servizi e se sia possibile l’affidamento senza gara. La giurisprudenza, prima della recente riforma degli appalti, si è lungamente occupata della distinzione tra concessione ed appalto di servizi. Come correttamente rilevato dal Tar Liguria, in una sentenza del 2014 :

  • la differenziazione tra l’appalto e la concessione di servizi costituiva una questione di difficile soluzione;
  • la legislazione non era univoca e le prime ipotesi di assimilazione delle due fattispecie avevano avuto lo scopo di imporre l’applicazione delle regole di trasparenza e concorrenzialità anche alle concessioni;
  • la necessità di una chiara distinzione tre le due ipotesi era derivata soprattutto dalla normativa comunitaria, che alla questione aveva dedicato le direttive del 2004, che gli Stati membri avrebbero dovuto recepire nei rispettivi ordinamenti;
  • il discrimine tra le due figure era soprattutto individuato nel rischio operativo, che doveva sempre gravare sul concessionario e che non sussisteva allorché l’amministrazione pubblica si obbligava a coprire le eventuali perdite occorse nell’esercizio dell’attività esercitata, comunque, nell’interesse pubblico;
  • l’appalto di servizi ricorreva, invece, allorché l’ente aggiudicatore acquisiva, in senso ampio, un vantaggio dall’attività dell’appaltatore, senza con ciò ottenere necessariamente il trasferimento della proprietà di un bene;
  • la giurisprudenza aveva più volte affrontato la questione, giungendo a conclusioni a quella data condivise nel senso che il concessionario avrebbe dovuto remunerarsi erogando il servizio all’utenza, che a sua volta gli avrebbe corrisposto una tariffa nella misura determinata dall’autorità concedente o da un organismo regolatore indipendente, mentre nell’appalto l’imprenditore avrebbe ottenuto dall’amministrazione aggiudicatrice il compenso pattuito senza necessità di avere rapporti negoziali con gli utenti del servizio.

Vi era anche un orientamento giurisprudenziale che poneva l’accento sul corrispettivo. È il caso di alcune pronunce del Tar Lombardia, secondo cui la differenza elaborata fra appalto e concessione di pubblici servizi consiste nel fatto che mentre nel primo si prevede un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi; nella concessione la remunerazione del prestatore di servizi proviene non già dall’autorità pubblica interessata, bensì dagli importi versati dai terzi per l’utilizzo del servizio, con la conseguenza che il prestatore assume il rischio della gestione dei servizi in questione. Per concludere questo breve excursus degli orientamenti che hanno preceduto la riforma, è il caso di richiamare una sentenza resa, sull’argomento, nel 2013, dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la quale ha negato una progressiva assimilazione tra i due istituti (appalto e concessione), con l’obiettivo, di matrice europea, di vincolare i soggetti aggiudicatori a rispettare, anche nelle procedure di affidamento delle concessioni, i principi dell’evidenza pubblica comunitaria.

La concessione nella riforma degli appalti

La normativa [1], da una parte, conferma l’applicazione alle concessioni dei principi dell’evidenza pubblica. Alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, i principi generali, le esclusioni, le modalità e le procedure di affidamento, le modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, i requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, i criteri di aggiudicazione, le modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, i requisiti di qualificazione degli operatori economici, i termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, le modalità di esecuzione. La riforma conferma l’essenzialità del rischio a carico del concessionario al fine di poter configurare questo tipo di contratto. Per concessione di servizi deve intendersi un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi, riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi. Per  rischio operativo deve intendersi il rischio legato alla gestione dei lavori o dei servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di entrambi, trasferito al concessionario, chiarendo che si considera che il concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione e che la parte del rischio trasferita al concessionario deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile. Nei contratti di concessione, la maggior parte dei ricavi di gestione del concessionario proviene dalla vendita dei servizi resi al mercato che tali contratti comportano il trasferimento al concessionario del rischio operativo riferito alla possibilità che, in condizioni operative normali, le variazioni relative ai costi e ai ricavi oggetto della concessione incidano sull’equilibrio del piano economico finanziario e, infine, che le variazioni devono essere, in ogni caso, in grado di incidere significativamente sul valore attuale netto dell’insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi del concessionario.

Affidamento ad una società in house

Dopo avere ripercorso la distinzione tra concessione ed appalto, abbiamo visto che, in nome della tendenziale assimilazione tra i due contratti, anche la concessione debba soggiacere ai principi sull’evidenza pubblica. Procedendo con ordine dobbiamo, a questo punto, chiederci cosa accade se la società aggiudicataria dell’affidamento abbia tali caratteristiche per cui potrebbe non essere necessario procedere ad una gara, ricorrendo le condizioni per un affidamento diretto. La riforma degli appalti prevede che una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, non rientrino nell’ambito di applicazione del codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:

  1. l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
  2. oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi;
  3. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.

Un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Aggiunge che tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore. Per determinare la percentuale delle attività, deve prendersi in considerazione il fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa basata sull’attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione. Una considerazione particolare merita la terza tra le condizioni poste dalla norma che ammette, con una disposizione innovativa, la possibilità che nella persona giuridica controllata vi sia una partecipazione diretta di capitali privati, purché non esercitino un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata ossia sulle scelte strategiche e gestionali.

L’affidamento ad una società mista

La legge prende, infine, in esame la possibilità di affidamento ad una società mista, prevedendo che, nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e gestione di un’opera pubblica o per l’organizzazione e la gestione di un servizio di interesse generale, la scelta del socio privato debba avvenire con procedure di evidenza pubblica.Circa, in particolare, la possibilità dell’affidamento ad una società mista della gestione del servizio di raccolta e gestione del ciclo dei rifiutipuò essere utilmente richiamato un parere reso, nel 2013, dalla Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia. La Corte, tra i modelli astrattamente esperibili per gestione del servizio detto, indica l’affidamento del servizio con socio appaltatore. La scelta mediante procedura di evidenza pubblica del socio privato non è, tuttavia, sufficiente perché si possa procedere ad affidamento diretto in favore della società mista. Sul punto può essere richiamata una decisione del Consiglio di Stato del 2010. Osserva il Collegio:

  • che il principio generale è sempre quello della gara e che l’affidamento diretto è sempre una deroga a tale principio;
  • che tale deroga è consentita in casi di stretta interpretazione, per cui la società mista si giustifica quale forma di partenariato pubblico-privato costituito per la gestione di uno specifico servizio per un tempo determinato;
  • che non si ha in questi casi una esenzione dal principio della gara ma muta l’oggetto della gara che deve sempre essere esperita ma non più per trovare il terzo gestore del servizio, bensì il partner privato con cui gestire il servizio;
  • che appare, pertanto, evidente che le società miste cosiddette aperte, costituite cioè per finalità specifiche ma indifferenziate, non possono essere affidatarie dirette in quanto non soddisfano le condizioni a cui è ancorata la deroga.

Una più recente sentenza del Consiglio di Stato consente di cogliere, con chiarezza, la distinzione tra affidamento a società in house ed a società mista. Secondo la decisione del Collegio:

  • la differenza tra la società in house e la società mista consiste nel fatto che la prima agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione dal punto di vista sostanziale, mentre la diversa figura della società mista a partecipazione pubblica, in cui il socio privato è scelto con una procedura ad evidenza pubblica, presuppone la creazione di un modello nuovo, nel quale interessi pubblici e privati trovino convergenza;
  • in quest’ultimo caso, l’affidamento di un servizio ad una società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia svolta una unica gara per la scelta del socio e l’individuazione del determinato servizio da svolgere, delimitato in sede di gara sia temporalmente che con riferimento all’oggetto. La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l’ammissibilità dell’affidamento di servizi a società miste, a condizione che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto la scelta del socio privato (socio non solo azionista ma soprattutto operativo) e l’affidamento del servizio già predeterminato con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l’intera durata della concessione;
  • la chiave di volta del sistema è rappresentata dal fatto che l’oggetto sia predeterminato e non genericamente descritto, poiché altrimenti, è evidente, sarebbe agevole l’aggiramento delle regole pro-competitive a tutela della concorrenza.

La sezione richiama una propria precedente decisione , nella quale, pur affermando, in quel caso, alla stregua dei principi comunitari e della loro interpretazione desumibile dalla giurisprudenza nazionale che l’affidamento diretto di un servizio a una società mista non fosse incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che la gara per la scelta del socio privato della società affidataria fosse stata espletata nel rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza, aveva anche ribadito che i criteri di scelta del socio privato dovessero essere riferiti non solo al capitale da quest’ultimo conferito, ma anche alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire, in guisa da potersi inferire che la scelta del concessionario risultasse indirettamente da quella del socio medesimo.

Conclusioni

Alla luce di quanto sottoposto, riteniamo di poter dire, in risposta al quesito posto, che nel caso in esame, ove il rischio d’impresa faccia carico al concessionario, si può parlare di concessione e che l’affidamento della concessione alla società mista (distinta dalla società in house per quanto detto) possa essere ammissibile a condizione che vi sia una unica gara per la scelta del socio e l’individuazione del determinato servizio da svolgere, delimitato, in sede di gara, sia temporalmente che con riferimento all’oggetto, con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l’intera durata della concessione.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Emanuele Carta

note

[1] Contenuta nel d.lgs n. 50 18.04.2016.

Abitare in un posto diverso dalla residenza è legale?

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Residenza e dimora sono due concetti giuridici diversi ma ben possono essere sdoppiati e non coincidere con lo stesso posto.
Per varie ragioni hai intenzione di spostare la tua residenza nella vecchia casa dei tuoi genitori ormai in parte disabitata, pur vivendo in un’altra abitazione con la tua compagna. Le ragioni sono varie: un po’ per questioni di carattere fiscale, un po’ perché non vuoi ricevere la corrispondenza nel luogo in cui abitualmente vivi e, in particolar modo, le visite dell’ufficiale giudiziario qualora qualcuno decidesse di farti un pignoramento. In questo modo, nessuno saprebbe dove abiti e non ci sarebbe il rischio di vedersi sottrarre beni come il divano, la televisione e l’ultimo computer. Ma che succede se, a seguito di un controllo, la polizia municipale non dovesse trovarti nel luogo che hai indicato come nuova residenza? In altri termini è legale abitare in un posto diverso dalla residenza? Cerchiamo di scoprirlo qui di seguito. Con un’importante precisazione preliminare: se un tempo per poter cambiare la residenza era necessario prima un controllo delle autorità che, presentandosi “a sorpresa” presso la nuova abitazione, verificavano se il richiedente viveva effettivamente là, oggi le cose vanno diversamente: il Comune automaticamente dispone il mutamento di residenza e, nei successivi 45 giorni, può disporre i controlli per verificare l’effettiva corrispondenza con quanto dichiarato. In caso di esito negativo l’interessato riceve un «preavviso di diniego» e ha 10 giorni di tempo per presentare le proprie osservazioni scritte, al fine di evitare l’annullamento della residenza e il ripristino della precedente situazione anagrafiche. In caso di dichiarazioni mendaci sarà data informativa alla Procura della Repubblica.

Che differenza c’è tra domicilio, dimora e residenza

Per poter comprendere se abitare in un posto diverso dalla residenza è legale o meno bisogna prima spiegare cosa si intende con domicilio, cosa con dimora e cosa invece, con residenza:

il domicilio è il luogo nel quale la persona ha il centro dei suoi interessi (ad esempio l’ufficio, l’azienda, ecc.). Si distingue dalla dimora che è il luogo nel quale la persona si trova in via del tutto occasionale, e dalla residenza che è il luogo nel quale la persona abita stabilmente. Residenza e domicilio possono coincidere;
la dimora è il luogo nel quale una persona si trova in via del tutto occasionale (ad esempio la casa vacanze o un appartamento in affitto per un anno per un trasferimento lavorativo);
la residenza è il luogo nella quale la persona abita stabilmente.
Il Comune può rifiutare la residenza?

Se, dagli accertamenti effettuati dalla polizia municipale, non risultano elementi che provino che la persona risieda effettivamente dove ha dichiarato di abitare, l’ufficiale di anagrafe emette un provvedimento di diniego di residenza che viene comunicato all’interessato al suo vecchio indirizzo. Egli ha 10 giorni di tempo per contrastare questa decisione e fare ricorso al Prefetto.

In ogni caso, nulla impedisce a chi ha già ottenuto un rifiuto di presentare una nuova richiesta.

Abitare in un posto diverso dalla residenza è legale?

Da quanto finora detto si comprende agilmente che abitare in un posto diverso dalla residenza non è legale. Lo è solo se tale situazione è provvisoria e momentanea. La residenza è, infatti, il luogo di «abituale dimora»: in altri termini il luogo ove si vive più di frequente deve essere necessariamente la residenza e non un altro posto. Certo, questo non toglie che la persona possa spendere gran parte della giornata nel luogo di lavoro (l’ufficio, lo studio, il negozio, ecc.) ma la residenza rimane il posto ove questi si reca per dormire, dove sta quando non lavora, dove pranza o riceve la posta. La ragione è abbastanza semplice: ogni cittadino ha l’obbligo di essere reperibile e, perciò, è tenuto a fornire alle autorità (nella specie l’ufficio anagrafe e residenza) il luogo ove vive abitualmente. Ciò non toglie che, per periodi di tempo più o meno prolungati, purché sporadici, egli si possa allontanare (è il caso di chi si deve trasferire per qualche mese per lavoro o va a vivere per qualche mese nella casa vacanze).

note
Autore immagine: 123rf com

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