Segnalazione centrale rischi: quando?

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Hai tardato a pagare diverse rate del mutuo. Le tue condizioni economiche non sono affatto disperate, ma spesso ti trovi ad affrontare un non perfetto allineamento tra le entrate e le uscite del tuo lavoro. Capita, ad esempio, che i clienti ti paghino in ritardo e, di conseguenza, sei anche tu costretto a pagare la banca con uno slittamento di qualche giorno, a volte settimane. Questa volta, però, il ritardo non ti è stato perdonato e ora ti trovi iscritto alla Centrale Rischi, ossia la famigerata banca dati dei cattivi pagatori. Ti rivolgi al direttore di banca per fargli notare che, comunque, la tua posizione non è equiparabile a quella di un debitore incallito e, per quanto non sempre in modo puntuale, i pagamenti sono stati sempre stati eseguiti. Insomma, la tua condizione economica è solida e non giustifica un’onta di tale tipo. Il direttore si giustifica aggrappandosi alle consuete istruzioni della direzione e sostiene di non poterci fare nulla. Chi dei due ha ragione? Quando scatta la segnalazione alla Centrale Rischi? La soluzione è stata offerta da una recente sentenza della Cassazione [1], la quale non ha fatto altro che ribadire un orientamento ormai solido in giurisprudenza ed al quale – a quanto sembra – le banche non sempre si adeguano.

La Centrale Rischi interbancaria è un “elenco” dei cattivi pagatori tenuto dalla Banca d’Italia che serve a garantire la stabilità del sistema creditizio e fare in modo che i nominativi dei morosi siano noti agli istituti di credito. In tal modo si evita che un soggetto che non abbia restituito un prestito possa chiedere ulteriori finanziamenti ad altre banche e rendersi inadempiente anche nei confronti di queste ultime. Tale segnalazione finisce però per essere sempre un grave pregiudizio per il correntista che, così, oltre a vedersi negare il credito, subisce una “macchia” alla propria credibilità commerciale. Ecco perché la Cassazione ha sempre detto che la segnalazione nella banca dati dei cattivi pagatori può intervenire solo quando l’insolvenza è conclamata e certa. Il semplice ritardo nel pagamento di qualche rata del mutuo non può invece giustificare tale provvedimento.

La sentenza in commento conferma questo indirizzo e ribadisce: la banca non può segnalare alla Centrale rischi della banca d’Italia il proprio cliente solo se questi non ha rispettato le scadenze relative alle rate di un mutuo. Prima di far inserire il nominativo del cliente nella black list dei soggetti a rischio di insolvenza è, infatti, necessario essere certi che la difficoltà economica non sia «transitoria» o non sia, ad esempio, determinata da un andamento caratteristico delle aziende del settore (si pensi a una azienda che fattura di più nel periodo estivo e meno nel periodo invernale).

Prima dell’iscrizione del mutuatario nella Centrale Rischi è necessaria una seria valutazione delle cause del ritardo. Una semplice difficoltà economica momentaneanon può essere equiparata a un indice di insolvenza conclamata. Capita, non di rado, che determinate attività lavorative siano soggette a cicli produttivi legali ai consumi. Un esempio su tutti sono le attività stagionali (si pensi a chi vende addobbi per alberi di Natale). Anche i professionisti possono subire crisi momentanee di questo tipo; è noto, ad esempio, che in agosto si lavora di meno. Ed anche un lavoratore dipendente che, in un determinato periodo, abbia ricevuto la paga con qualche giorno di ritardo, non può essere pregiudicato da tale circostanza se non c’è il rischio che perda il lavoro. Dunque tutte le volte in cui le difficoltà economiche sono transitorie, il mancato rispetto delle scadenze del contratto di mutuo non può considerarsi un segnale di insolvenza.

Che può fare il correntista quando la segnalazione alla centrale Rischi è illegittima? Il primo passo è quello di chiedere la cancellazione immediata dalla banca dati, offrendo le prove della propria stabilità economica. In secondo luogo, dimostrando che tale situazione ha determinato un danno – anche solo alla reputazione commerciale – può chiedere il risarcimento alla banca troppo frettolosa.

note

[1] Cass. sent. n. 25512/2017.

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Rigare l’auto è reato?

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Se un giorno, avvicinandoti alla tua auto, dovessi scoprire che la fiancata è stata rigatacosa faresti? Al di là delle comprensibili e immaginabili imprecazioni, la prima cosa che sorge spontaneo fare è presentare una denuncia ai carabinieri contro ignoti. Ma la verità è che è sorto più di un dubbio sul fatto se rigare l’auto è reato. Questo perché l’anno scorso la legge [1] ha depenalizzato il reato di danneggiamento, trasformandolo in un semplice illecito amministrativo. Il reato è ancora valido solo nel caso di «danneggiamento aggravato», ossia quando il bene è esposto alla cosiddetta «pubblica fede». Questa circostanza ricorre tutte le volte in cui il reato viene posto in essere contro beni lasciati alla mercé della collettività, contando sul rispetto che gli altri devono avere per le cose altrui. Come appunto nel caso dell’auto parcheggiata al lato della strada. La questione è stata affrontata dalla Cassazione con una sentenza di poche ore fa [2] con cui ha chiarito se rigare l’auto è reato oppure non lo è più.

Il decreto legge sulla depenalizzazione ha sì cancellato il reato di danneggiamento, prevedendo per tali condotte solo una sanzione amministrativa. Ma l’illecito penale resta in piedi quando c’è l’aggravante dell’esposizione del bene alla fede pubblica. Si ha esposizione alla pubblica fede quando le cose su cui viene posto in essere il reato si trovano esposte, per necessità, consuetudine o destinazione, al pubblico. Con l’espressione «esposizione a pubblica fede» il codice penale indica l’affidamento che il proprietario di un bene ripone (o è tenuto a riporre) nella coscienza civile dei consociati, quando si trova costretto (per necessità, destinazione dei beni, consuetudine sociale) a dover lasciare i propri oggetti nella piena disponibilità della collettività (ad esempio l’auto o il motociclo parcheggiati nelle pubbliche vie, i prodotti da banco nei supermercati, ecc.).

La questione affrontata dalla Cassazione è se l’auto lasciata sì al lato del marciapiedi, ma dotata di antifurto e ripresa dalla telecamera dell’impianto di videosorveglianza installato all’esterno dell’abitazione del proprietario possa ancora dirsi «esposta alla pubblica fede». Dalla risposta dipende anche la sussistenza o meno del reato di danneggiamento in caso di auto rigata.

Secondo la Cassazione non ci sono dubbi: è reato danneggiare un’auto in strada nonostante l’antifurto, il Gps o qualsiasi altra forma di controllo come la videosorveglianza. Si tratta infatti di sistemi che servono a scoraggiare il ladro o il vandalo e facilitano la sua individuazione, ma non impediscono di certo la consumazione dell’illecito.

Non è depenalizzato l’illecito di atti vandalici contro l’auto se questa è parcheggiata su un marciapiedi o comunque su una strada pubblica, in quanto vi è l’aggravante dell’esposizione del bene alla fede pubblica. Per il colpevole scatta la condanna alla reclusione e al risarcimento dei danni.

Ma che fare se qualcuno ti riga l’auto?

Se hai una polizza contro gli atti vandalici è verosimile che non ti preoccuperai più di tanto. Ti basterà fare la denuncia ai carabinieri contro ignoti e inoltrare il documento alla tua assicurazione affinché provveda alla liquidazione del danno secondo quanto previsto in polizza.

Il problema è se non hai una copertura assicurativa. In tale ipotesi, purtroppo, potresti ottenere un risarcimento solo scoprendo il responsabile. Ma se è vero che l’assassino torna sempre sul luogo del delitto è verosimile che la tua auto possa essere nuovamente oggetto di “attenzione” di chiodi o chiavi. Così, potresti installare una telecamera che inquadra il parcheggio del condominio, nel rispetto della normativa sulla privacy (a riguardo leggi Telecamera che inquadra il parcheggio condominiale è lecita?).

note

[1] Dl n. 7/2016.

[2] Cass. sent. n. 51622/17.

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Chiamate continue da un numero che attacca subito: che fare?

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Spesso il telefono suona ma dall’altra parte nessuno risponde. La cosa può succedere più e più volte, anche nell’arco della stessa giornata, fino ad esasperare il povero utente. Come tutelarsi in questi casi? Bisogna distinguere: le chiamate mute possono provenire da operatori di telemarketing oppure da persone che hanno solamente intenzione di disturbare. Fatta questa breve premessa, che fare in caso di chiamate continue da un numero che attacca subito?

 Chiamate continue da un numero che attacca subito: il telemarketing

Sono state numerose le segnalazioni all’Autorità Garante per la protezione dei dati personali per la ricezione di telefonate nelle quali, una volta risposto, non si viene messi in contatto con alcun interlocutore: in pratica, il telefono rimane muto oppure viene riattaccato subito. Dopo una serie di verifiche, l’Autorità ha accertato che il problema deriva dalle impostazioni dei sistemi centralizzati di chiamata dei call center, rivolte a massimizzare la produttività degli operatori: per eliminare tempi morti tra una telefonata e l’altra, il sistema genera in automatico un numero di chiamate superiore agli operatori disponibili.

Queste chiamate, una volta ottenuta risposta, possono essere mantenute in attesa silenziosa finché non si libera un operatore. Il risultato è appunto una chiamata muta, che può indurre comprensibili stati di ansia, paura e disagio nei destinatari.

Il Garante, per eliminare questa pratica commerciale senza penalizzare l’efficienza delle imprese di telemarketing, ha stabilito alcune regole, tra le quali:

  • call center dovranno tenere precisa traccia delle chiamate mute, che dovranno comunque essere interrotte trascorsi tre secondi dalla risposta dell’utente;
  • l’utente non potrà più essere messo in attesa silenziosa, ma il sistema dovrà generare una sorta di rumore ambientale (ad es. con voci di sottofondo, squilli di telefono, brusio) per dare la sensazione che la chiamata non provenga da un eventuale molestatore;
  • l’utente disturbato da una chiamata muta non potrà essere ricontattato per una settimana e, al contatto successivo, dovrà essere garantita la presenza di un operatore.

Comunque, nel caso in cui dovesse capitare la situazione appena descritta, è possibile contattare direttamente il Garante della privacy per chiedere la cessazione della condotta illecita.

Chiamate continue da un numero che attacca subito: le molestie

Diversa è la situazione di chi contatta telefonicamente un’altra persona soltanto per arrecargli fastidio. Il codice penale punisce con l’arresto fino a sei mesi o con l’ammenda fino a 516 euro chi, in un luogo pubblico o aperto al pubblico, ovvero col mezzo del telefono, per petulanza o per altro biasimevole motivo, reca a taluno molestia o disturbo [1]. Il bene giuridico tutelato è sia la tranquillità pubblica che quella del privato (reato cosiddetto plurioffensivo): nel primo caso, rileva che la condotta molesta avvenga in luogo pubblico o aperto al pubblico; nel secondo, invece, l’utilizzo del mezzo telefonico o di qualsiasi altro idoneo ad arrecare disturbo. Trattasi di una contravvenzione, cioè di un reato minore, non punito con la reclusione e suscettibile di prescrizione più breve di quella prevista per i delitti. Detto ciò, secondo la Corte di Cassazione integra il reato di molestie la condotta dell’agente, insistente e petulante, idonea a turbare in modo apprezzabile le normali condizioni nelle quali si svolge la vita della persona molestata [2].

Chiamate continue da un numero che attacca subito: lo stalking

Secondo la Corte di Cassazione [3], quando le telefonate mute diventano eccessive e suscitano nella vittima uno stato di apprensione tale da indurla a temere per la propria vita oppure a cambiare le abitudini quotidiane, è possibile che si integri il reato di stalking [4]. Questo può avvenire, però, solamente quando il numero delle telefonate sia importante e ingeneri nella persona che le riceve un serio stato di ansia o paura, eventualmente anche accertabile clinicamente.

Chiamate continue da un numero che attacca subito: cosa fare

Come detto, se si tratta di chiamate commerciali è possibile ricorrere al Garante della privacy. Nel caso, invece, di condotta costituente reato (molestie o stalking) occorre sporgere denuncia/querela presso le forze dell’ordine, entro tre mesi dalla ricezione dell’ultima chiamata. È opportuno fornire quante più informazioni possibili al fine di rendere efficaci le indagini delle autorità. È molto probabile che le chiamate siano effettuate in forma anonima; in questa ipotesi, l’utente può cercare di risalire al numero attraverso i servizi messi a disposizione dalle diverse compagnie telefoniche, le quali generalmente consentono, soprattutto davanti ad una denuncia sporta, di svelare i tabulati. Le forze dell’ordine, invece, potranno addirittura mettere sotto controllo l’apparecchio telefonico, provvedendo eventualmente alle intercettazioni (in verità poco utili se dall’altra parte nessuno parla).

note

[1] Art. 660 cod. pen.

[2] Cass., sent. n. 2967 del 16.03.1978.

[3] Cass., sent. n. 45547/16 del 28.10.2016.

[4] Art. 612-bis cod. pen.

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Pensione anticipata: ecco i 15 lavori gravosi

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Saranno 15 le categorie di lavoratori escluse dall’innalzamento automatico dell’età pensionabile in relazione all’aspettativa di vita. Il Governo, infatti, ha proposto di bloccare l’aumento dell’età pensionabile per 15 categorie di lavori ritenuti usuranti. Per questi lavoratori, dunque, non varrà la regola dei 67 anni che dovrebbe scattare a partire dal 2019. Secondo i primi calcoli si tratta di una platea di 15-17mila persone, pari al 10% circa della totalità dei pensionamenti stimati per il 2019. Per queste 15 categorie di lavoratori, come detto, non varrà la regola dei 67 anni. Ai fini del pensionamento, infatti, saranno richiesti requisiti diversi. In particolare:

  • l’aver raggiunto i 36 anni contributivi;
  • l’aver svolto la mansione gravosa per almeno 6 anni continuativi nell’arco degli ultimi 7.

Ciò posto, vediamo nel dettaglio di quali categorie di lavoratori si tratta.

Operai dell’industria estrattiva

Si tratta di lavoratori che si occupano, con strumenti e tecniche diverse, dell’estrazione e della lavorazione di pietre e minerali. Sono ricompresi in questa categoria anche coloro che si occupano della costruzione, rifinitura e manutenzione di edifici, opere pubbliche e del mantenimento del decoro architettonico.

Conduttori di gru e di macchinari mobili

Saranno sottratti alla regola dei 67 anni i lavoratori specializzati nella manovra e nella manutenzione delle macchine per il cosiddetto movimento terra ed il sollevamento di materiali utilizzati nel lavori di scavo, nei cantieri edili e nelle grandi infrastrutture.

Conciatori di pelli e pellicce

Rientrano in questa categoria i lavoratori che si occupano della prima lavorazione di rifinitura di cuoio, pelli e pellicce al fine della confezione di capi di abbigliamento ed accessori.

Conduttori di convogli ferroviari

Eseguono un lavoro usurante anche i macchinisti alla guida dei convogli ferroviari per il trasporto su rotaie di persone e merci. Attenzione: della categoria in commento fa parte anche il personale viaggiante impegnato nei servizi resi nei confronti dei viaggiatori a bordo.

Autisti di camion e mezzi pesanti

Potranno andare in pensione prima anche gli autisti di camion  e mezzi pesanti utilizzati per il trasporto di merci.

Personale infermieristico ospedaliero

Tra le categorie di lavori gravosi rientra anche quella rappresentata da infermierilaureati e iscritti all’albo, responsabili dell’assistenza sanitaria generale. La categoria ricomprende anche le ostetriche. Tra i requisiti si richiede che il lavoro sia organizzato a turni e svolto in strutture ospedaliere.

Addetti all’assistenza di persone non autosufficienti

Sono i lavoratori che assistono le persone anziane in convalescenza, disabili e non autosufficienti nelle istituzioni, a domicilio o in famiglia.

Insegnanti di asilo

Svolgono una professione considerata gravosa anche gli insegnanti d’asilo. Vale a dire gli insegnati e gli educatori della scuola pre-primaria, dell’infanzia e degli asili che si occupano dell’educazione dei bambini in età pre-scolare.

Facchini ed addetti allo spostamento merci

Si tratta di lavoratori che si occupano di operazioni di carico, scarico e movimentazione di merci e bagagli presso aeroportistazioni ferroviarie, porti e imprese, anche per conto di clienti di alberghi e di altre strutture ricettive.

Addetti ai servizi di pulizia

Ci si riferisce al personale non qualificato che si occupa di mantenere pulito ed in ordine l’ambiente di imprese ed organizzazioni, enti pubblici ed esercizi commerciali.

Operatori ecologici

Sono gli operatori che provvedono alla raccolta dei rifiuti nelle strade e negli edifici, nelle industrie e nei luoghi pubblici e del trasporto dei rifiuti presso le aree di smaltimento.

Operatori agricoli

Ci si riferisce ai lavoratori addetti alla coltivazione di fondi o allevamenti di bestiame ovvero addetti ad attività connesse a favore di imprese agricole.

Lavoratori siderurgici

Si tratta di lavoratori che conducono macchinari ed impianti (quali alti forni e forni di prima e seconda fusione) per la produzione e la lavorazione di metalli ferrosi e non.

Lavoratori marittimi

Si tratta di lavoratori che fanno parte di un equipaggio e svolgono, a qualsiasi titolo, servizio o attività lavorativa a bordo di una nave adibita alla navigazione marittima.

Pescatori

Infine, svolgono un lavoro usurante anche gli addetti al settore della pesca.

Certificato di agibilità: quando serve?

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Il certificato di agibilità è necessario e deve essere rilasciato dalla Pubblica amministrazione solo per le nuove costruzioni (edificate cioè dopo il 30 giungo 2003) oppure in caso di ricostruzioni e/o sopraelevazioni totali o parziali o di interventi sugli edifici esistenti che possano incidere sulle condizioni di igiene e sicurezza. Nel caso del lettore, perciò, essendo l’acquisto avvenuto quattro anni fa, non vi era alcun obbligo di allegare all’atto di compravendita il certificato di agibilità (a meno che non ricorressero le circostanze sopra indicate e, cioè, ricostruzioni e/o sopraelevazioni totali o parziali o di interventi sugli edifici esistenti che possano incidere sulle condizioni di igiene e sicurezza), né il Comune avrebbe avuto alcun obbligo a rilasciarlo se gli fosse stato richiesto. D’altra parte, si può produrre in rogito, nel caso di edificio realizzato prima del 1° settembre 1967, in luogo degli estremi della licenza edilizia, una dichiarazione sostitutiva di atto notorio che attesti appunto che la costruzione dell’immobile risulti iniziata prima del 2 settembre 1967: sul certificato di agibilità la legge tace e ciò significa che l’allegazione di questo documento non è requisito richiesto a pena di nullità dell’atto o la cui mancanza possa in qualche modo incidere sulla validità della compravendita. Fatta questa premessa, il problema (per gli immobili costruiti in epoca non recente come il quello del lettore) è allora non se esista o meno il certificato di agibilità (che come abbiamo visto può legittimamente mancare senza che ciò produca di per sé effetti sulla validità del contratto o effetti risarcitori), ma se quello che è stato dichiarato in rogito corrisponda all’effettivo stato di fatto e di diritto dell’immobile. E, a tale fine, è evidente che ogni acquirente (soprattutto per gli immobili di costruzione ante 1967) deve prudentemente verificare prima dell’acquisto se l’immobile stesso corrisponda o meno alla proprie esigenze. Se, infatti, nel contratto definitivo si sia fatto riferimento all’immobile indicandone misure e ubicazione e, come spesso accade, si sia inserita la clausola con la quale si attesta che l’acquirente gradisce l’immobile nello stato di fatto descritto e se l’uso dell’immobile (uso autorimessa nel caso specifico) corrisponde all’accatastamento, è chiaro che successive lamentele (in ordine all’ampiezza del box ed alle difficoltà di manovra) non potranno avere alcuna rilevanza se tutto quello che è stato indicato nel rogito sia corrispondente al reale stato di fatto e di diritto dell’immobile acquistato. Infine, anche per quanto attiene al certificato di prevenzione incendi, l’attuale normativa non ne prevede il rilascio per autorimesse delle dimensioni di quella di un box per singola autovettura. Difatti, il rilascio del certificato prevenzione incendi è previsto solo per autorimesse, pubbliche o private, di superficie coperta superiore a 300 metri quadrati.

 

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Angelo Forte

Inoccupato: posso avere l’esenzione dal ticket?

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Non hai mai avuto un posto di lavoro, né hai mai lavorato da autonomo. Per la legge sei un inoccupato, ossia una persona che non ha mai percepito alcun reddito in vita sua. Vieni in questo modo distinto dal disoccupato che, invece, è colui che, inizialmente assunto, ha poi perso il lavoro. Non è purtroppo una differenza solo terminologica. Ci sono diversi aspetti che distinguono le due categorie. La prima questione che balza agli occhi è che l’inoccupato non potrà mai avere la cosiddetta Naspi, ossia l’indennità di disoccupazione che spetta a chi perde il lavoro per una causa non dipendente dalla sua volontà (tipico caso è il licenziamento). Di fronte a tale svantaggio, spesso l’inoccupato si chiede: posso avere l’esenzione del ticket? Per lungo tempo la risposta è stata negativa. La legge infatti assegnava il beneficio solo ai disoccupati. Recentemente però una sentenza del Tribunale di Roma [1] ha ovviato a tale discriminazione. Vediamo come e in che termini.

Fino ad oggi, chi è stato inoccupato ha sempre dovuto pagare le medicine, le analisi e le visite. Non ha mai potuto usufruire dell’esenzione del ticket. E ciò perché la legge stabilisce che l’esenzione spetta unicamente ai seguenti soggetti:

  • codice di esenzione E01: bambini con meno di 6 anni o anziani con più di 65, purché appartenenti a nucleo familiare con reddito lordo annuo inferire a 151,98 euro;
  • codice di esenzione E02: disoccupati e loro famigliari a carico, con reddito annuo inferiore a 8.263,31 euro o reddito annuo del nucleo inferiore a 11.362,05 euro (nucleo di 2 componenti con coniuge a carico); il limite è aumentato di 516,46 euro per ogni figlio a carico;
  • codice di esenzione E03: titolari di assegno o pensione sociale ed i loro familiari a carico;
  • codice di esenzione E04: titolari di pensioni al minimo over 60 ed i loro familiari a carico, con reddito annuo inferiore a 8.263,31 euro, o reddito annuo del nucleo inferiore a 11.362,05 euro (nucleo di 2 componenti con coniuge a carico); il limite è aumentato di 516,46 euro per ogni figlio a carico.

Secondo la sentenza in commento, la prima che affronta l’argomento, nel concetto di disoccupati vanno inseriti anche gli inoccupati a cui pure spetta quindi l’esenzione del ticket. E ciò perché con il Job Act si è previsto che «le norme nazionali o regionali ed i regolamenti comunali che condizionano prestazioni di carattere sociale allo stato di disoccupazione si intendono riferite alla condizione di non occupazione».

L’inoccupato che vuol quindi giovarsi dell’esenzione del ticket potrà far riferimento da oggi a questa sentenza. Ma non solo. C’è anche una circolare del Ministero del Lavoro che condivide questa interpretazione [2]; ciò, di fatto, finisce per eliminare ogni incertezza sul punto.

Il ministero si è trovato a dare la definizione di «condizione di inoccupazione» distinguendola dalla definizione di «stato di disoccupazione»; nella circolare è stato detto che è in condizione di non occupazione chi non svolge attività lavorativa, in forma subordinata, parasubordinata o autonoma, oppure chi, pur svolgendo tale attività, ne ricava un reddito annuo inferiore al reddito minimo escluso dalla imposizione fiscale. La legge [3] mira infatti a evitare l’ingiustificata registrazione come disoccupati di persone che non sono immediatamente disponibili a lavorare e, a tal fine, vincola la frizione di prestazioni di carattere sociale esclusivamente alla condizione di non occupazione. È evidente quindi che, per l’esenzione ticket, le Asl dovranno tenere conto della intervenuta modifica legislativa. Risultato: non conta più se il richiedente ha o meno svolto un lavoro in precedenza; egli infatti ottiene l’esenzione con decorrenza dal primo giorno del mese successivo alla domanda.

note

[1] Trib. Roma, sent. n. 1558/2017.

[2] Min. Lavoro circolare n. 5090/2016 che interpreta l’art. 19 co. 7 d.lgs. n. 150/15.

[3] Art. 19 co. 7 d.lgs. n. 150/15.

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Ventura, Tavecchio e il flop dell’Italia dei Mediocri: ecco da dove si dovrebbe ripartire

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Pensate davvero che i problemi ormai congeniti del Calcio italiano (e verrebbe da dire dell’Italia…) si risolvano cacciando Ventura e Tavecchio?
Se in campo mondiale non si riesce ad allestire una Nazionale decente dal 2006 non è certamente colpa di Ventura e Tavecchio. Il Calcio italiano avrebbe dovuto essere rifondato, prim’ancora che dall’eliminazione maturata a San Siro contro la Svezia, dall’estromissione subita in Sudafrica nel girone con Slovacchia, Paraguay e Nuova Zelanda…
Chiaramente sia Ventura che Tavecchio hanno enormi responsabilità. Il Ct per la caparbietà che ha dimostrato nel perseverare nei suoi sbagli tecnici e tattici. Il presidente federale perché ha voluto legare il suo destino a quello di questo allenatore e non ha saputo coglierne lo stato confusionale e l’isolamento in cui è caduto dopo il rovescio spagnolo di settembre. Se la scelta di Ventura, dopo l’europeo francese, è stata condizionata anche dal rifiuto di altri candidati, l’averlo confermato fino al 2020, appena qualche mese fa, costituisce un errore inemendabile per i vertici della Figc.
Ma dietro la disfatta “svedese” si stagliano il commissariamento delle Leghe di Serie A e B che dura da mesi, le riforme annunciate ma perennemente al palo e i troppi dirigenti calcistici, o sedicenti tali, evidentemente non adeguati a ciò che lo Sport-Business contemporaneo esige. La mediocrità elevata a sistema di comando può essere comoda per alcuni, ma alla lunga espone tutti a dolorose figuracce.
Il segnale di serietà e di responsabilità che Ventura e Tavecchio dovrebbero dare ora al Paese, facendo entrambi un passo indietro, sarebbe fondamentale anche per iniziare la risalita dal baratro.
Già, ma da dove si riparte?
Come sempre dalla base. E facendo cose semplici.
Anzitutto obbligando i club professionistici a investire una percentuale del fatturato (e non degli utili come prevede oggi la legge) nei settori giovanili. Realizzando strutture all’altezza dei tempi o, se non è chiedere troppo, all’avanguardia. Fare una seria politica di integrazione, almeno con lo “ius soli sportivo” (senza ricorrere a misure straordinarie, raffazzonate o in deroga). Ci vuole il coraggio che ha avuto la Germania, post Europeo 2000, nel coinvolgere le seconde e terze generazioni di immigrati, riconoscendo la cittadinanza italiana a chi se lo merita. Adottare, per converso, una rigida politica a favore dei calciatori eleggibili in Nazionale, in particolare dai settori giovanili. Dove non è consentito dalle norme europee occorre l’accordo tra i club che hanno un interesse comune e una regia federale. Dalla Figc, al di là dei centri di formazione che sta disseminando sul territorio, ci si deve aspettare un profondo rinnovamento nel processo di selezione delle rappresentative nazionali con due o tre centri di eccellenza nei quali allevare i giovani più promettenti (e non quelli raccomandati da amici e procuratori). Per questo servono staff tecnici multidisciplinari specializzati nella preparazione di ragazzi e ragazze e che lavorino con questo esclusivo obiettivo.
A livello di club la rifondazione non può prescindere poi dalla creazione di squadre B almeno da parte delle società di prima fascia sul modello spagnolo e dalla riduzione contestuale del numero di club professionistici (in molti casi senza le risorse economiche necessarie per condurre un’attività di alto livello). Finché le entrate che il sistema calcio italiano riesce a generare (meno di due miliardi a stagione) restano queste devono essere concentrate nei club che possono garantire qualità e organizzazione e non disperse a pioggia (per il resto c’è il Calcio Dilettantistico).
In quest’ottica e per quanto appaiano non direttamente connesse al tema Nazionale occorrono politiche governative per favorire la costruzione di stadi di qualità commisurati alle esigenze delle differenti piazze che incrementino il giro d’affari dei club e una più spinta managerializzazione delle aziende calcistiche.
Questi potrebbero essere alcuni dei provvedimenti da assumere se si vuole invertire il declino che ha ridotto la Serie A a quarta Lega europea e la Nazionale a triste spettatrice dei mondiali russi.

Ventura, Tavecchio e il flop dell’Italia dei Mediocri: ecco da dove si dovrebbe ripartire

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