Cause vinte contro il Ministero della Salute

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Ci sono episodi di malasanità che coinvolgono un singolo medico, altri in cui la responsabilità è di una struttura sanitaria. Ci sono, però, dei casi in cui a dover rispondere in prima persona è direttamente il Ministero della Salute. E il cittadino che ha subìto un danno non deve avere il timore di denunciare e di pretendere il risarcimento di un danno dal Ministero: di cause vinte contro il Ministero della Salutece ne sono state diverse. Quindi, non è detto che sia sempre il più potente ad avere la meglio. Ogni tanto, più spesso di quello che si pensa, l’utente ottiene giustizia.

Certo, bisogna armarsi di pazienza. Le cause vinte contro il Ministero della Saluteevidenziano nella maggior parte dei casi che i tempi per ottenere un risarcimento sono tutt’altro che immediati. Ma vale la pena tentare e attendere. Lo dimostrano le sentenze che riportiamo in queste articolo. Sono solo alcune in cui il Ministero è stato condannato a risarcire il danno di chi, ad esempio, è stato contagiato da epatite C con una trasfusione sbagliata o di chi è riuscito a convincere un tribunale delle conseguenze negative avute da un vaccino.

Vediamo, intanto, quali sono le responsabilità del dicastero che gestisce la sanità pubblica ed una carrellata di cause vinte contro il Ministero della Salute. Sono solo alcune, dicevamo. Ma servono a far capire a chi legge che ci sono dei precedenti favorevoli e che, quindi, vincere una causa è possibile.

Ministero della Salute: quali responsabilità sulle trasfusioni

Con una sentenza piuttosto recente [1], la Corte d’Appello di Roma ha stabilito che è competenza del Ministero della Salute l’esercizio del controllo e della vigilanza sulla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e sull’uso degli emoderivati. Significa che il Ministero si rende responsabile di eventuale errori in materia e, dunque, spetta a lui l’eventuale risarcimento dei danni di epatite e di infezione da Hiv per omesso controllo.

I giudici hanno, dunque, respinto il ricorso con cui il Ministero aveva attribuito alle singole Regioni ogni responsabilità in materia di sanità.

C’è da aggiungere che sul tema dell’accertata omissione delle attività di controllo e di vigilanza si era già espressa la Cassazione [2]. Per la Suprema Corte, con riferimento all’epoca di produzione del preparato, la conoscenza oggettiva ai più alti livelli scientifici della possibile veicolazione di virus attraverso sangue infetto e l’esistenza di una patologia in un soggetto emotrasfuso, tale omissione può ritenersi causa dell’insorgenza della malattia. Quindi, conclude la Cassazione, solo se il Ministero controlla o vigila la pratica può evitare il verificarsi dell’evento.

Causa vinta contro il Ministero della Salute per epatite da emotrasfusione

Ci sono voluti 35 anni, ma alla fine ce l’ha fatta a vincere la causa contro il Ministero della Salute un cittadino del Napoletano che, nel 1982, fu sottoposto ad un’emotrasfusione e, dopo poco tempo, iniziò a manifestare i sintomi di epatite C.

L’uomo decise di rivolgersi al tribunale per avviare una causa contro il Ministero e pretendere il risarcimento del danno.

In primo grado la sua richiesta venne respinta [3] (ed eravamo già nel 2008), così l’utente presentò ricorso alla Corte d’Appello. Qui ebbe più fortuna: i giudici accolsero la richiesta [4] e condannarono il Ministero della Salute al pagamento di 162.014,40 euro, oltre alla rivalutazione, gli interessi e le spese di giudizio. Era il 2014.

Questa volta fu il dicastero a puntare i piedi e a rivolgersi alla Cassazione alludendo ad un mancato nesso di causalità tra l’emotrasfusione e la malattia. In sostanza, il Ministero sosteneva che non era dimostrabile il legame tra l’insorgere dell’epatite C e la trasfusione. Tuttavia, la Suprema Corte [5] decise di condannare il Ministero al pagamento del risarcimento riconosciuto dalla Corte d’Appello e delle spese di giudizio (altri 2.600 euro). Perché? Lo abbiamo spiegato poco fa: perché, come più volte stabilito dalla giurisprudenza, il Ministero della Salute è tenuto ad esercitare l’attività di controlloe di vigilanza in ordine alla pratica terapeutica della trasfusione del sangue e dell’uso di emoderivati. Inoltre, lo stesso Ministero risponde in base al Codice civile [6] per omessa vigilanza dei danni derivanti da epatite e da infezione Hiv contratte da soggetti emotrasfusi.

Concludendo: dopo 35 anni il cittadino ha vinto la causa contro il Ministero della Salute perché quest’ultimo non ha dimostrato di avere assunto i compiti imposti dalla legge. La struttura sanitaria in cui sono avvenute le trasfusioni (in questo caso l’Università Federico II di Napoli) non ha alcuna responsabilità in quanto le sacche di sangue utilizzate provenivano dal Ministero e non sono state contestate delle negligenze da parte del personale sanitario.

Causa vinta contro il Ministero della Salute: il maxirisarcimento per sangue infetto

Non arrendersi mai. Con questo spirito un gruppo di cittadini che hanno ricevuto sangueemoderivati infetti hanno presentato un ricorso a Strasburgo per chiedere giustizia. E la tenacia è stata (in parte) premiata: la Corte europea per i diritti umani ha condannato lo Stato italiano (e quindi si parla di causa vinta contro il Ministero della Salute) al pagamento complessivo di 10 milioni di euro a 371 pazienti italiani infettati da epatite B e C e dal virus dell’Hiv per trasfusioni contaminate tra gli anni ’70 e gli anni ’90.  C’è da dire, però, che in tutti questi anni circa 4.500 persone sono decedute senza vedere un soldo. E che nel nostro Paese sono 120mila i pazienti viventi infettate da una trasfusione di sangue.

Quasi 900 pazienti infettati si sono rivolti tra il 2012 ed il 2013 alla Corte di Strasburgo dopo avere chiesto invano un risarcimento al Ministero della Salute tra il 1999 ed il 2008. Lamentavano il mancato accesso al riconoscimento del danno, le procedure troppo lunghe e la mancata applicazione delle sentenze in materia. I ricorsi accolti sono stati, come detto, 371, nella maggior parte per la violazione da parte dello Stato italiano del diritto alla vita dei ricorrenti a causa dell’eccessiva durata dei procedimenti. A ciascuno di loro spetta un risarcimento per danni morali compreso tra i 20mila ed i 35mila euro.

Causa vinta contro il Ministero della Salute: si può chiedere il pignoramento?

Un episodio simile a quello accaduto a Napoli ha fatto vincere una causa contro il Ministero della Salute ad un uomo della provincia di Pescara che, nel 1983, contrasse l’epatite C in seguito ad un’emotrasfusione praticata all’ospedale di Chieti. La Commissione medica ospedaliera accertò le responsabilità nel 2004 e nel 2007 si avviò il processo per la richiesta di un risarcimento del danno. Il Tribunale dell’Aquila [7]condannò l’Asl di Chieti ed il Ministero al pagamento di 103.110 euro (il 50% a testa). L’uomo ha ottenuto anche una pensione di invalidità.

Il problema si presentò nel momento in cui al cittadino non venne corrisposto quanto determinato dal giudice. L’Asl, attraverso la compagnia di assicurazione, pagò il dovuto ma non così il Ministero, nonostante la sentenza fosse passata in giudicato senza alcuna impugnazione. All’avvocato del danneggiato non è rimasto che presentare un atto di pignoramento per tentare di recuperare quanto dovuto presso la Banca d’Italia.

E se il Ministero dicesse che non ci sono i soldi? Non sarebbe una giustificazione valida: sarebbe possibile avviare un giudizio di non ottemperanza al Tar e chiedere la nomina di un commissario ad acta a cui affidare la gestione del risarcimento.

Causa vinta contro il Ministero della Salute per danni da vaccino

Tra le polemiche più infuocate tra un settore della società ed il Ministero della Salute c’è sicuramente quella che riguarda le vaccinazioni obbligatorie. Il pugno di ferro imposto dall’ex ministro Beatrice Lorenzin per ammettere nelle scuole dell’obbligo solo bambini e ragazzi che abbiano rispettato il piano sulla distribuzione dei sieri ha sollevato un coro di proteste da parte di chi ritiene che i vaccini siano dannosi per i propri figli. Ma è vero che quella puntura può pregiudicare la salute di una persona?

A quanto pare può succedere, almeno secondo quanto determinato da alcune sentenze. C’è, ad esempio, quella riguardante una causa vinta contro il Ministero dalla Salutedalla famiglia di un bambino affetto da autismo ed al quale era stato un vaccino esavalente prodotto da una multinazionale. Il Tribunale di Milano [8] ha condannato il Ministero a versare a vita un assegno bimestrale in quanto sarebbe stata stabilita la sussistenza di un nesso causale tra la vaccinazione e la malattia. Sulla perizia del medico legale incaricato dal Tribunale, si legge che probabilmente il disturbo autistico sia stato concausato dal vaccino, sulla base di un polimorfismo che lo ha reso suscettibile alla tossicità di uno o più ingredienti.

Anche in questo caso la famiglia aveva chiesto in vano un risarcimento al Ministero. Da qui la decisione di rivolgersi ai giudici. I responsabili legali del dicastero non hanno presentato ricorso in appello e, quindi, la sentenza è diventata definitiva.

Sempre a Milano, in tempi più recenti, c’è stata un’altra causa vinta contro il Ministero della Salute per simili motivi. Riguarda il caso di una donna della provincia di Pavia, vaccinata circa sei mesi dopo la nascita, nel 1975. Poco dopo, l’allora neonata cominciò ad accusare dei disturbi e ad avere delle crisi epilettiche sempre più frequenti, a cui si sono aggiunte altre forme di disabilità.

Solo nel 2009 è stato appurato che la forma di encefalopatia di cui soffre la paziente è da associare alla somministrazione del vaccino, circostanza che portò al padre, nel ruolo di amministratore di sostegno, a fare causa al Ministero della Salute. Dopo un primo round favorevole, anche la Corte d’Appello ha condannato il Ministero al versamento del risarcimento. Pure in questo caso la sentenza è passata in giudicato perché il Ministero non ha fatto ricorso in tempi utili.

note

[1] Corte Appello Roma, sent. n. 2270/2017.

[2] Cass. sent. n. 581/2008.

[3] Trib. Napoli, sentenza n. 6136/2008.

[4] Corte Appello Napoli, sent. del 03.05.2014.

[5] Cass. sent. n. 22832/2017.

[6] Ex. Art. 2043 cod. civ.

[7] Trib. L’Aquila, sent. del 20.05.2010.

[8] Trib. Milano, sent. del 23.09.2014.

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Fuoco e sigilli sulla Maddalena.

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Fuoco e sigilli alla Maddalena di Aversa

“Aversa è una città che sembra uscita da un racconto di Calvino. Fortezze al posto del cuore e nugoli di strade scarne che si piegano su sé stesse confondendo direzioni e traiettorie. Fai fatica ad orientarti e quando arrivi non sai mai bene da dove sei venuto”.

Aversa. Ci piace immaginarla così: una città che sembra uscita da un racconto di calvino. Chiese, arte, nugoli di strade che si piegano su sé stesse. Cittadella normanna, aragonese, angioina… Ma chi ha “rubato” la nostra cultura? Chi ci ha fatto dimenticare la nostra storia, la memoria? Chi chiude gl’occhi per non farci vedere che Aversa, con le adeguate infrastrutture, avrebbe tutte le potenzialità per diventare una piccola Firenze?

Quello che sta avvenendo all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria Maddalena è qualcosa di agghiacciante. Ti lascia con l’animo gelato.

Aversa, si sa, è nota per essere stata in passato una vera e propria “cittadella della follia”: la Casa della Santissima Annunziata, che nel XIV secolo fungeva da ricovero per malati, bisognosi e dissennati; l’OPG, da prima sito nella sede dell’antico castello aragonese e poi trasferito nell’ex palazzo della cavalleria, dove si trova tutt’ora; Il manicomio, istituito, nel 1813, da Gioacchino Murat nel ex convento di Santa Maria Maddalena, e successivamente ampliato, fu il primo manicomio dell’Italia meridionale istituzionalizzato. Ad Aversa si è tenuto, nel XIX secolo, il secondo Congresso dei freniatri Italiani. Aversani sono il noto alienista Gaspere Vigilio e il suo allievo Filippo Saporito. Persino il ben più noto criminologo Cesare Lombroso teneva conto degli studi di Virgilio sulle cause costituzionali che all’epoca si riteneva fossero alla base di alcune patologie mentali. Poi c’è stato il periodo basagliano: la liberazione, i “matti” finalmente, per legge, venivano dimessi da i manicomi, riacquistavano i diritti civili ed erano affidati ai servizi territoriali. Ma anche qui qualcosa non è andato come doveva: la legge Basaglia è nota per essere rimasta una legge monca. Ad Aversa solo sul finire degli anni ’90, ormai a quasi trent’anni dall’emanazione della suddetta legge, sono stati dimessi gli ultimi pazienti dalla Maddalena, che da allora versa in stato d’incuria e d’abbandono. Encomiabile è stato, in quel periodo, il lavoro fatto da Franco Rotili e Giovanna Del Giudice per l’organizzazione dei servizi territoriali della città; prezioso, indispensabile si è rivelato l’apporto di altri professionisti e delle associazioni che con il loro fare cultura, attività sociale, hanno favorito, accompagnato, il ritorno degli ex internati a una vita “normale”.

Fuoco e sigilli alla Maddalena di AversaFuoco e sigilli alla Maddalena di Aversa

Questa è una memoria pesante da sostenere, difficile da guardare, ingombrante da gestire, facile da “cancellare”, che però potrebbe dare nuovo lustro e dignità alla città. Dicevamo: all’interno dell’ex ospedale psichiatrico di Santa Maria Maddalena negli ultimi giorni si è verificato l’ennesimo incendio, probabilmente di natura dolosa. La zona interessata è stata quella dell’ex falegnameria. Le fiamme sono divampate solo all’interno del pozzo, non hanno toccato le strutture. Pare che all’inizio a dare l’allarme sia stata una persona che abita nei pressi della Maddalena. Immediatamente sul posto sono arrivati i vigili del fuoco e alcuni membri del Comitato “la Maddalena che vorrei”. Tale Comitato, chiamato dalla stessa persona che ha dato l’allarme, da circa due anni tenta di accendere i riflettori sullo stato di abbandono in cui versa il complesso promuovendone la riqualifica socio-culturale. Una volta giunti in loco la scena che tutti i presenti si sono trovati davanti, è stata a dir poco paradossale: le autobotti dei vigili del fuoco non potevano accedere alla parte antica della struttura per andare a spegnere le fiamme a causa dei cancelli fatti ripristinare, per motivi di sicurezza, negli ultimi mesi, dall’ASL, proprietaria della struttura. I cancelli non potevano essere sfondati. Ci sono volute diverse ore per trovare le chiavi. Se l’incendio fosse stato più vasto probabilmente avrebbe devastato l’intero complesso. Sui giornali sono comparse immediatamente le prime confuse notizie di cronaca. Il mattino dopo sono arrivate sul posto tre volanti dei carabinieri e i vigili del fuoco per i normali accertamenti. Inizialmente si ipotizzava anche la possibile presenza di un cadavere nel pozzo, sono stati chiamati i corpi speciali che si sono calati all’interno della cisterna, nella quale c’erano, tra gli altri rifiuti, un divano ed un frigorifero bruciato; diversi locali della falegnameria, dopo la chiusura ordinaria dei cancelli, probabilmente prima che venisse appiccato il fuoco, sono stati intenzionalmente devastati: alcuni materiali ritrovati infondo al pozzo provenivano da lì. Le autorità presenti sul luogo con l’accordo dell’ente sanitario hanno messo i sigilli a una parte molto ampia dell’ex manicomio.

Ora, oltre a chiedersi chi ha fatto questo e perché, sarebbe utile domandarsi: chi ha permesso ciò e come si è arrivati a tale punto. La Maddalena è un pezzo di storia non solo della città, ma dell’intera nazione. Nei manicomi c’è passata tutta la storia d’Italia: umanità, sofferenza, ma anche sviluppo e prosperità. Gli ospedali psichiatrici erano organizzati come delle piccole cittadelle, pensate per funzionare in maniera totalmente autonoma. Il loro impatto sull’economia dell’area in cui sorgevano è paragonabile a quello che oggi, in altri luoghi, hanno grandi aziende come la FIAT. Molte persone del hinterland aversano trovavano impiego all’interno del frenocomio dove, grazie al lavoro degli internati, venivano anche lavorate materie prime e prodotte manifatture. L’ex manicomio di Santa Maria Maddalena, a pari di molte altre strutture che caratterizzano il contesto urbano, può essere, se viene adeguatamente utilizzato e riqualificato, con i suoi diciassette ettari, un volano per la cultura, l’economia e lo sviluppo del territorio.

Ieri siamo stati a lungo sul posto. Parlando con le persone che giravano lì intorno, o semplicemente con i curiosi che davano uno sguardo all’accaduto, ci siamo resi conto che tutti sapevano cos’è stata e cos’è la Maddalena. Molti suggerivano: “bisogna fare questo o quello”, poi con un briciolo d’amarezza aggiungevano: “è colpa dei politici, è colpa dell’ente proprietario, è colpa dello Stato”, ma cosa ha fatto, nel suo piccolo, ogni singolo cittadino per mantenere e preservare la memoria dell’ex manicomio e dell’intera città? Fino a quando si ragionerà con una logica secondo cui “sono solo cose vecchie” nulla cambierà. I cittadini e le istituzioni dovrebbero fare pace con la loro memoria, con la loro storia, con la loro identità. Il passato è importante. La Maddalena per troppo tempo, negli ultimi anni, è passata inosservata. Tutti vedevano, ma molti hanno preferito chiudere gli occhi, non vedere, non entrare, non capire.

La cultura è un volano per l’economia, se viene adeguatamente impiegata dalle giuste competenze, produce posti di lavoro, migliora la qualità della vita, crea, anche grazie alla ricerca, benessere, sviluppo sano e altra cultura. La memoria è costituita dalla storia e dal quotidiano. Si alimenta continuamente di fatti accaduti. Attraverso la memoria si fa cultura e la cultura migliora la qualità della vita. Troppe volte i genitori si lamentano che non c’è lavoro, che i propri figli sono costretti ad andare altrove: giovani e meno giovani perdono la speranza. Luoghi tangibili come la Maddalena non solo conservano tra le loro mura la storia e la memoria, ma sono contenitori di speranza e potenzialità; se venissero adeguatamente riqualificati, con attività socio-culturali che ne rispettino l’identità, potrebbero diventare un volano per lo sviluppo e dare nuova linfa al territorio.

La responsabilità di questo processo, di tali luoghi non è di questo o di quello, ma appartiene a tutti.

di Grazia Martin

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Garanzia sui prodotti: come funziona?

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Acquistare un prodotto, di qualsiasi genere e tipologia sia, è un’attività che svolgiamo tutti ogni giorno, dalla spesa quotidiana agli acquisti più rilevanti. Può capitare però, e capita a chiunque, che il bene comprato, che nel negozio era in confezione chiusa, o che magari si è perfino provato, una volta arrivati a casa non funzioni più. I casi più frequenti sono naturalmente quelli nei quali, dopo un certo peridoo di tempo, un oggetto acquistato smette di funzionare, in tutto o in parte, o presenta malfunzionamenti di vario genere (dall’auricolare del cellulare che funziona solo da un lato al personal computer che si spegne all’improvviso). In queste ipotesi, bisogna immediatamente attivarsi per vedere se è possibile far valere la garanzia sul bene, che è regolata da precise regole e norme di legge. Si tratta in definitiva di capire non soltanto come funziona la garanzia sui prodotti acquistati, e quindi cosa prevede il diritto alla garanzia, ma anche e soprattutto quanto dura il periodo di copertura della garanzia su un prodotto, quali difetti deve avere un prodotto per rientrare nella garanzia, e a chi rivolgersi se il bene è ancora in garanzia.

Prodotti in garanzia: accorgimenti necessari

Prima di entrare nel merito di come funziona la garanzia sui prodotti acquistati dai consumatori, bisogna specificare un punto che può sembrare banale o scontato ma che, in realtà, lo è meno di quanto si possa pensare. Ogni volta che facciamo un acquisto di una certa rilevanza, sarebbe buona regola anzitutto informarsi al momento dell’acquisto su eventuali regole specifiche che riguardino la copertura di garanzia di quel bene. Non solo, ma spesso, è possibile sottoscrivere – previo pagamento – un’apposita copertura di garanzia aggiuntiva, soprattutto per quanto riguarda i prodotti tecnologici. Fondamentale inoltre, quale regola generale e di buon senso, ricordarsi di conservare gli scontrini e le ricevute comprovanti l’effettivo pagamento e la data dell’acquisto del bene. A seconda dei casi, anche farne una fotocopia a titolo precauzionale – o una foto-scansione col proprio cellulare – non è mai una cattiva idea, dato che col passare del tempo (non necessariamente infatti i beni presentano malfunzionamenti nei primi giorni dall’acquisto) l’inchiostro degli scontrini tende a sbiadire, e i caratteri necessari per identificare data, costo e luogo dell’acquisto potrebbero non essere più visibili, vanificando ogni aspettativa di far valere la garanzia in tempo.

Garanzia in Italia: come funziona

Nel nostro ordinamento giuridico il sistema della garanzia dei prodotti è disciplinato dal codice del consumo, che prevede le modalità con cui il diritto alla garanzia può essere esercitato e i requisiti indispensabili, sia dal punto di vista dei tempi necessari a far valere la garanzia che in relazione alle problematiche che il bene deve presentare affinchè possano essere utilizzati i rimedi previsti dalla normativa in materia. Si tratta di quella che viene definita garanzia legale, cioè quella che si può far valere nei confronti del venditori di beni di consumo: l’acquirente di un prodotto ha infatti diritto di ricevere dal venditore un bene che sia conforme al contratto ed alle qualità e requisiti promessi dal venditore.

Alla garanzia legale può aggiungersi anche quella che ha il nome di garanzia convenzionale, che è la garanzia del produttore, disciplinata da uno specifico contratto aggiuntivo che può essere sottoscritto – ma non è obbligatorio farlo – al momento dell’acquisto del bene.

Quando il prodotto acquistato presenti dei vizi, di produzione o di conformità, esistenti al momento della consegna all’acquirente o anche manifestatisi in un momento successivo, il consumatore potrà rivolgersi direttamente al venditore per ottenere uno dei rimedi previsti per legge, purchè rispetti precise tempistiche.

I tempi per far valere la garanzia

In relazione ai termini per far valere la garanzia, la responsabilità del venditore copre un periodo di 24 mesi (due anni) dal momento dell’acquisto (da intendersi quale avvenuta consegna del bene all’acquirente). Il consumatore, non appena si accorge del difetto del prodotto, deve comunicare al venditore l’esistenza del vizio o del difetto di conformità del bene, e deve provvedere alla comunicazione entro due mesi da quando ha scoperto tale difetto.

Prodotti in garanzia: rimedi previsti per il malfuzionamento

Se il bene rientra nel periodo di garanzia e il vizio o difetto di conformità vengono comunicati entro i due mesi dalla scoperta, il consumatore avrà diverse opzioni fra le quali optare.

I rimedi previsti in caso di bene rientrante in garanzia possono realizzarsi infatti attraverso differenti modalità:

  • ripristino, senza alcuna spesa aggiuntiva da sostenere da parte del consumatore – acquirente, della conformità del bene, attraverso il rimedio della riparazione del bene;
  • ripristino, senza alcuna spesa aggiuntiva da sostenere da parte del consumatore – acquirente, della conformità del bene, attraverso il rimedio della sostituzione con un bene analogo;
  • se non è possibile riparare o sostituire il bene, ottenere una riduzione adeguata del prezzo;
  • in alternativa alla riduzione, sempre che non sia possibile la riparazione o la sostituzione, il consumatore può optare per la risoluzione del contratto.

La scelta dell’acquirente fra la sostituzione e la riparazione del prodotto è consentita sempre che il rimedio scelto non sia oggettivamente impossibile oppure eccessivamente oneroso rispetto all’alternativa.

Se si sceglie di chiedere la sostituzione o la riparazione del bene, entrambe devono essere effettuate in tempi ragionevoli, senza gravare in alcun modo sul consumatore, che non dovrà sostenere alcuna spesa, né per quanto riguarda materiali e mano d’opera né in relazione a eventuali spese di spedizione. Se le tempistiche si dovessero allungare oltre un congruo termine, l’acquirente potrà anche chiedere a sua scelta di ottenere una riduzione del prezzo o la risoluzione del contratto.

Prodotti in garanzia e Unione Europea

Le regole sulla garanzia dei prodotti acquistati in un paese dell’Unione Europea sono le stesse che abbiamo analizzato finora. L’acquirente che abbia comprato un prodotto in un paese ricompreso fra gli stati europei avrà quindi a disposizione due anni per far valere la garanzia, e 60 giorni per segnalare il malfunzionamento del bene dal momento in cui lo stesso smetta di funzionare correttamente. Si potrà quindi ottenere la sostituzione o la riparazione o chiedere, come abbiamo visto per la garanzia in Italia, un rimborso o la restituzione di quanto pagato.

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Dieta in palestra o da chi è senza titoli: è reato

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Diete personalizzate: commette reato di esercizio abusivo della professione chi, senza i dovuti titoli medici, elabora e prescrive diete personalizzate

Se le «diete fai da te» possono rivelarsi davvero pericolose, lo sono (a maggior ragione) anche quelle  prescritte da chi non abbia alcun titolo per farlo. L’improvvisazione, molto spesso, genera mostri e chi si spaccia per esperto in nutrizione – pur non essendolo affatto – e fa diete personalizzate non solo può nuocere gravemente alla salute altrui, ma commette anche un reato. Il reato che viene in rilievo in queste ipotesi è quello di esercizio abusivo della professione. A stabilirlo è stata la Corte di Cassazione [1] che, con una recente sentenza, ha posto l’accento sul diffusissimo fenomeno di prescrivere diete personalizzate da parte di soggetti non qualificati come istruttori di palestrapersonal trainer, massaggiatori. È bene sapere, dunque, che questo fenomeno è perseguibile penalmente. Possibile? Sì, visto che il codice penale stabilisce che chiunque abusivamente esercita una professione, per la quale è richiesta una speciale abilitazione dello Stato, è punito con la reclusione fino a sei mesi o con la multa da 103 a 516 euro [2].

Risultato: l’istruttore di palestra non può prescrivere diete personalizzate. Parimenti, non possono elaborare diete o fare il lavoro del nutrizionista coloro i quali non abbiano i titoli per farlo, né – di conseguenza – alcuna voce in capitolo.

Il personal trainer può fare diete personalizzate?

Chi vuole dimagrire o, semplicemente, vuole mantenersi in forma può tranquillamente iscriversi in palestra. Palestre e centri benessere, infatti, sono pieni di professionisti del settore sempre molto qualificati (leggi sul punto: Palestre: le qualifiche per diventare istruttori). Attenzione, però, a tenere ben distinte le cose; chiamatela «sportiva» anziché «dimagrante», ma il risultato non cambia: a prescrivere la dieta può essere solo un medico dietologo e non di certo un istruttore di palestra o un personal trainer. E così, l’istruttore di palestra trovato a compilare, su foglietti di carta o con e-mail, diete personalizzate ai propri amici o ai clienti del centro sportivo, rischia il penale. Non importa se lo fa per lavoro, facendosi pagare, o solo per piacere, perché gli è stato chiesto qualche suggerimento.

L’istruttore di palestra non può fare diete personalizzate

La vicenda all’esame della Suprema Corte è scaturita da un controllo effettuato dalla Guardia di Finanza in una palestra, nel corso del quale erano state ritrovate delle schede di alimentazione personalizzate per i frequentatori, compilate da persone prive di un titolo abilitativo di dietista o biologo, titolo ritenuto – dalla Cassazione – indispensabile per prestazioni di questo genere. «L’individuazione dei bisogni alimentari dell’uomo attraverso schemi fissati per il singolo con rigide previsioni e prescrizioni» – scrive la Corte – è attività che può svolgere solo il medico biologo o ad altre categorie professionali per le quali è comunque prescritta una specifica abilitazione (medicifarmacistidietisti).

L’istruttore di palestra, dunque, non può fare diete personalizzate: la redazione di schede personalizzate è una competenza che, proprio per le ricadute in termini di salute, può essere esercitata solo da chi è in possesso di uno specifico titolo, come medicifarmacistidietisti biologi. Dunque, commette il reato di esercizio abusivo della professione il titolare della palestra o il personal trainer che, senza abilitazione predispone, con schede personalizzate, le diete agli utenti.

Chi non può prescrivere una dieta?

Al di là di istruttori di palestra e personal trainer, vi sono anche altre figure professionali che, parimenti, non possono elaborare diete o fare il lavoro del nutrizionista e che se lo facessero commetterebbero il reato di esercizio abusivo della professione. Ecco l’elenco

  • farmacista (consiglia integratori, ma non può prescrivere diete);
  • tecnologo alimentare (si occupa di educazione alimentare non personalizzata);
  • istruttore laureato in scienze motorie;
  • fisioterapista;
  • infermiere;
  • naturopata;
  • estetista;
  • chimico;
  • psicologo;
  • consulenti/venditori di prodotti o integratori per dimagrire.

I professionisti di cui all’elenco che precede potrebbero – occupandosi a vario titolo di benessere, estetica, salute, cura e commercio di prodotti dimagranti – farsi “tentare” dalla voglia di mettersi a dare diete o di svolgere il lavoro del nutrizionista, ma va chiarito che non possono farlo.

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[1] Cass. sent. n. 20281/17 del 28.04.2017.

[3] Art. 348 cod. pen.

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Bolletta acqua: ogni quanto deve arrivare?

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Il gestore dei servizi idrici deve inviare al consumatore un numero minimo di bollettenell’anno, non potendo omettere la fatturazione e inviare un unico conguaglio a distanza di mesi o addirittura anni. Il consumatore ha infatti diritto di conoscere i propri consumi periodici, anche al fine di gestire al meglio l’utenza e i pagamenti.

L’Autorità del settore dei servizi idrici (Arera) ha deliberato un’apposita regolazione della qualità contrattuale del servizio idrico integrato o di ciascuno dei singoli servizi che lo compongono [1]. In questa delibera sono previsti, tra gli standard qualitativi, i termini e i modi di fatturazione che devono essere rispettati dal gestore del servizio idrico. Vediamo ogni quanto deve arrivare la bolletta dell’acqua.

IBollette acqua: come avviene la fatturazione?

La fatturazione avviene sulla base dei consumi, relativi al periodo di riferimento, rilevati attraverso la lettura, oppure  un’autolettura dell’utente finale opportunamente validata dal gestore, oppure sulla base di consumi stimati.

Nell’utilizzo dei dati relativi ai consumi dell’utente finale, il gestore è tenuto al rispetto del seguente ordine di priorità:

  1. dati di lettura;
  2. in assenza di dati di lettura, i dati di autolettura;
  3. in assenza di dati di cui sopra, dati di consumo stimati.

Ciascun gestore è tenuto ad esplicitare chiaramente in un documento, reso noto all’utente finale, le modalità di calcolo dei consumi stimati per la fatturazione in acconto.

Le modalità di fatturazione devono essere tali da minimizzare, nel corso dell’anno, la differenza tra consumi effettivi e consumi stimati.

Bolletta acqua: tempo di emissione

Il tempo per l’emissione della fattura è il tempo intercorrente tra l’ultimo giorno del periodo di riferimento della fattura e il giorno di emissione della medesima da parte del gestore.

Il periodo di riferimento della fattura è il tempo intercorrente tra il primo e l’ultimo giorno cui è riferita la fattura. Tale periodo deve essere coerente con la periodicità di fatturazione prestabilita dal gestore.

Bolletta acqua: ogni quanto deve arrivare?

Il gestore è tenuto ad emettere un numero minimo di bollette nell’anno differenziato in funzione dei consumi medi annui relativi alle ultime tre annualità.

Il numero di fatturazioni nell’anno costituisce standard specifico di qualità ed è differenziato come segue:

  • 2 bollette all’anno, con cadenza semestrale, per consumi medi annui fino a 100 mc;
  • 3 bollette all’anno, con cadenza quadrimestrale, per consumi medi annui da 101 fino a 1000 mc;
  • 4 bollette all’anno, con cadenza trimestrale, per consumi medi annui da 1001 mc a 3000 mc;
  • 6 bollette all’anno, con cadenza bimestrale, per consumi medi superiori a 3000 mc.

Ai fini dell’individuazione della relativa fascia di consumo, i consumi medi annui delle utenze condominiali devono essere determinati riproporzionando il consumo medio annuo totale per le unità immobiliari sottostanti.

Nelle more della definizione della regolazione della misura, qualora non dovessero essere disponibili i dati relativi ai consumi medi annui delle ultime tre annualità, al fine di individuare la fascia di consumo dell’utente finale, il gestore:

a) utilizza quelli a disposizione, purché relativi ad un periodo non inferiore a 12 mesi consecutivi ricompreso nelle ultime tre annualità;

b) procede ad una stima dei consumi nel caso in cui i dati a disposizione non superino i 12 mesi.

Con cadenza biennale il gestore procede alla revisione della periodicità di fatturazione associata a ciascuna utenza sulla base dei consumi medi.

Bolletta acqua in caso di chiusura del rapporto contrattuale

In caso di chiusura del rapporto contrattuale in seguito a voltura o disattivazione, il gestore provvede ad emettere la fattura di chiusura.

Con la fattura di chiusura il gestore provvede a conguagliare i consumi e alla restituzione del deposito cauzionale versato dall’utente finale, unitamente ai relativi interessi maturati fino alla data di riaccredito.

Qualora l’importo dovuto dall’utente finale risulti inferiore a quello relativo al deposito cauzionale, maggiorato dei relativi interessi maturati fino alla data di riaccredito, il gestore provvede al riaccredito della differenza tramite rimessa diretta entro 45 giorni solari dalla data di disattivazione, ovvero di voltura, della fornitura.

Bolletta acqua: termini pagamento

Il termine per il pagamento della bolletta è fissato in almeno 20 giorni solari a decorrere dalla data di emissione. Il pagamento della bolletta, qualora avvenga nei termini di scadenza e presso i soggetti o con le modalità indicate dal gestore, libera l’utente finale dai propri obblighi.

Disguidi dovuti ad eventuali ritardi nella ricezione della bolletta, o nella ricezione della comunicazione dell’avvenuto pagamento non possono essere in nessun caso imputati all’utente finale.

note

[1] Delibera 23 dicembre 2015, 655/2015/R/idr.

fonte

Bollette telefono 28 giorni: come avviene il rimborso

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L’Autorità Garante delle Comunicazioni ha precisato come devono essere “rimborsati” i clienti per il ritardato adeguamento alla fatturazione mensile da parte degli operatori.

La decorrenza delle fatture emesse dopo il ripristino della cadenza mensile dovrà essere posticipata di un numero di giorni corrispondente a quelli indebitamente erosi a causa del passaggio alla fatturazione a 28 giorni, a partire dal 23 giugno 2017, o dalla data successiva di sottoscrizione del contratto. In questo modo si attua una sorta di compensazione, in cui il cliente, invece di ricevere un rimborso vero e proprio, recupera i giorni indebitamente fatturati.

Viene riportato qualche esempio per comprendere quando decorre la fattura e come avviene il rimborso.

Fatturazione 28 giorni: come funziona il rimborso

Come noto, a partire dal 23 giugno 2017, gli operatori avrebbero dovuto adeguarsi alla fatturazione a ciclo mensile. Dunque, una fattura decorrente dal 23 giugno avrebbe dovuto coprire il periodo fino al 22 luglio successivo; invece, applicando il calcolo a 28 giorni (4 settimane), il periodo fatturato si sarebbe fermato al 20 luglio, con una erosione pari a 2 giorni.

Il successivo periodo di decorrenza avrebbe dovuto essere quello dal 23 luglio al 22 agosto; invece, sempre in base al calcolo a 28 giorni, la decorrenza avrebbe riguardato il periodo dal 21 luglio al 17 agosto, con una erosione di 3 giorni sul singolo ciclo di fatturazione e di 5 sul totale dei due cicli di fatturazione. E così via.

Il medesimo calcolo può essere effettuato con riferimento a ciascun ciclo di fatturazione e in base a tutte le date di decorrenza delle fatture successive a quella del 23 giugno 2017: prendendo ad esempio una fattura con decorrenza dal 1° luglio 2017, il periodo fatturato su base quadrisettimanale si sarebbe concluso il 28 luglio invece che il 31 luglio, con una erosione di 3 giorni; il successivo periodo di fatturazione, conseguentemente, avrebbe interessato il periodo dal 29 luglio al 25 agosto, con una erosione di 3 giorni sul ciclo mensile e di 6 rispetto al totale.

Risulta, quindi, agevolmente quantificabile per l’operatore il monte giorni eroso per ciascun cliente, sulla base della data di decorrenza della prima fattura successiva al 23 giugno 2017 e della data di ripristino della fatturazione con periodicità mensile.

Diffide agli operatori telefonici

L’Agcom ha dunque diffidato Tim, Wind TreVodafone e Fastweb a differire la decorrenza della prima fattura emessa secondo la periodicità su base mensile o di multipli del mese di un numero di giorni pari a quelli erosi, calcolati in base al criterio sopra illustrato.

Per esempio, nel caso di una fattura emessa ad aprile con decorrenza dal 1° aprile al 30 aprile e in presenza di una erosione pari a 15 giorni, la decorrenza della fattura dovrà essere posticipata al 16 aprile e conseguentemente il periodo fatturato dovrà risultare quello intercorrente dal 16 aprile al 15 maggio.

Questo meccanismo garantisce il diritto degli utenti di ottenere un immediato ristorodel disagio sofferto senza dover ricorrere a procedure contenziose e rimanendo liberi di poter cambiare operatore, una volta ottenuta la compensazione.

FONTE

l trionfo del M5S disegna una regione dove praticamente tutti i candidati del movimento di Grillo e Di Maio sono stati eletti nei collegi uninominali.

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Senato: collegi uninominali
Gli eletti

Napoli – San Carlo all’Arena: Franco Ortolani (M5S)
Fuorigrotta: Paola Nugnes (M5S)
Giugliano: Maria Domenica Castellone (M5S)
Casoria: Raffaele Mautone (M5S)
Caserta: Vilma Veronese (M5S)
Benevento: Danila De Lucia (M5S)
Avellino: Ugo Grassi (M5S)
Battipaglia-Cilento: Francesco Castiello (M5S)
Salerno: Andrea Cioffi (M5S)
Torre Del Greco: Virginia La Mura (M5S)
Portici: Francesco Urraro (M5S)

Camera: collegi uninominali Campania 1

Circoscrizione 1
Giugliano: Salvatore Micillo (M5S)
Acerra – Pomigliano: Luigi Di Maio (M5S)
Casoria: Vincenzo Spadafora (M5S)
Pozzuoli: Andrea Caso (M5S)

Circoscrizione 2
Napoli – Fuorigrotta: Roberto Fico (M5S)
Napoli – San Carlo all’Arena: Doriana Sarli (M5S)
Napoli – San Lorenzo: Raffaele Bruno (M5S)
Napoli – Ponticelli: Rina De Lorenzo (M5S)

Circoscrizione 3
Portici: Gianfranco Di Sarno (M5S)
Nola: Silvana Nappi (M5S)
Torre Del Greco: Luigi Gallo (M5S)
Castellammare di Stabia: Catello Vitiello (M5S)

Camera: collegi uninominali Campania 2

Circoscrizione 1
Benevento: Angela Ianaro (M5S)
Ariano Irpino: Generoso Maraia (M5S)
Avellino: Michele Gubitosa (M5S)

Circoscrizione 2
Caserta: Antonio Del Monaco (M5S)
Santa Maria Capua Vetere: Giuseppe Buompane (M5S)
Aversa: Nicola Grimaldi (M5S)

Circoscrizione 3
Scafati: Virginia Villani (M5S)
Salerno: Nicola Provenza (M5S)
Battipaglia: Nicola Acunzo (M5S)
Agropoli: Marzia Ferraioli (Forza Italia)

La lista di Di Maio.

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La lista di Di Maio. Sono 18 i componenti del potenziale Governo M5S.

  1. Paola Giannetakis all’Interno,
  2. Emanuela Del Re agli Esteri,
  3. Elisabetta Trenta alla Difesa,
  4. Andrea Roventini all’Economia,
  5. Alfonso Bonafede alla Giustizia,
  6. Salvatore Giuliano all’Istruzione,
  7. Alberto Bonisoli ai Beni Culturali,
  8. Armando Bertolazzi alla Sanità,
  9. Riccardo Fraccaro ai Rapporti con il Parlamento,
  10. Pasquale Tridico al Lavoro,
  11. Alessandra Pesce all’Agricoltura,
  12. Giuseppe Conte alla P.A.,
  13. Lorenzo Fioramonti allo Sviluppo economico,
  14. Mauro Coltorti a Infrastrutture e Trasporti,
  15. Sergio Costa all’Ambiente,
  16. Filomena Maggino alla Qualità della Vita e Sviluppo Sostenibile,
  17. Domenico Fioravanti allo Sport.
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