Prodotti alimentari ritirati dal Ministero della salute: la lista aggiornata

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Quali sono gli alimenti ritirati dal commercio ritirati dai supermercati? Cosa deve fare l’acquirente se ha comprato un prodotto pericoloso. 

Risultati immagini per supermercato scaffale

Periodicamente il Ministero della Salute comunica, sul proprio sito, i prodotti che, a seguito di indagini a campione svolte dalle autorità, sono stati ritirati dal commercio perché ritenuti pericolosi, nocivi, non sicuri, non conformi alle norme sulla tutela dei consumatori. Si tratta, quasi sempre, di prodotti commestibili anche se, talvolta, le indagini riguardano anche creme estetiche e altri prodotti suscettibili di entrare in contatto con gli organi interni ed interni dell’uomo. Il ritiro coinvolge più spesso partite di alimenti su cui sono state trovate tracce di veleni, di allergeni, rischi chimici o microbiologici, ecc. Cosa deve fare il consumatore in questi casi? Sicuramente rivolgersi al venditore per chiedere la restituzione del prezzo o la sostituzione del prodotto secondo le procedura che qui di seguito vedremo. In questo articolo riporteremo innanzitutto la lista aggiornata dei prodotti alimentari ritirati dal ministero della salute e spiegheremo come comportarsi.

Lista prodotti alimentari ritirati dal commercio

21 giugno 2018 – Bauer S.P.A. – BRODO GRANULARE ISTANTANEO FUNGHI 120 g

Richiamo per rischio presenza di allergeni. Significa che il prodotto contiene alimenti che determinano allergie e, ciò nonostante, detta informazione non è contenuta sull’etichetta come invece richiesto dalla legge. Si invitano i consumatori allergici alla noce, che avessero acquistato il lotto L0008440 a non consumarlo e a rivolgersi all’azienda chiamando il numero 0461.944.350.

20 giugno 2018 – Cipster – Sfogliatine di patate fritte

Richiamo per rischio presenza di allergeni. Il ritiro riguarda le scatole di cipster in cartone da 85 grammi. Si invitano i consumatori intolleranti al glutine o allergici al frumento che avessero comprato questo prodotto con data di scadenza al 31.10.2018 – 30.11.2018 – 31.12.2018 e 31.01.2019 a non consumarlo e a rivolgersi al numero verde 800-055200

19 giugno 2018 – ACQUA MINERALE SAN BENEDETTO – ACQUA MINERALE SAN BENEDETTO

Richiamo per rischio chimico. Il lotto di prodotto incriminato è il 23LB8137E. Il ritiro è avvenuto per presenza consistente di contaminanti idrocarburici prevalenza cilene trimetilbenzene toluene etilbenze.

14 giugno 2018 – Frutta e Bacche – Alga Chlorella Biologica in polvere

Richiamo per presenza di solfiti (allergene) non dichiarati in etichetta. Rischio rivolto solo alle persone allergiche all’anidride solforosa e solfiti. Per tutti gli latri consumatori il prodotto è idoneo al consumo.

14 giugno 2018 – Frutta e Bacche – Alga Chlorella Biologica in polvere

Richiamo per rischio presenza di allergeni. Lotto n. 7166. Presenza di solfiti non dichiarati in etichetta.

11 giugno 2018 – CONAD – Crema con patate e porri

Richiamo per rischio presenza di allergeni. Lotto n. L35761. Presenza di tracce di glutine.

25 maggio 2018 – Moserhof Valle Aurina /BZ – caciotta di pecora – rettifica

Richiamo per rischio microbiologico. Lotto del 3.05.2018 con. 07.05.2018. Rischio presenza salmonella.

25 maggio 2018 – Ciauscolo di Visso – Ciauscolo di Visso Igp

Richiamo per rischio microbiologico

25 maggio 2018 – Moserhof – caciotta formaggio fresco di pecora

Richiamo per rischio microbiologico

25 maggio 2018 – IT S2X49CE – TARTARE DI BOVINO ADULTO SCOTTONA

Richiamo per rischio microbiologico

11 maggio 2018 – Carrefour VEG – Cous cous aromatico con verdure e bacche di goji

Richiamo per rischio presenza di allergeni.

Lotto di produzione JD15, marchio di identificazione IT678/L CE – Presenza di sosia, allergene non indicata in etichetta. Richiamo rivolto solo alle persone allergiche alla soia

7 maggio 2018 – BACCHE DI GOJI TIBETANO – BACCHE DI GOJI ESSIC. 24X250GR

Richiamo per rischio chimico

2 maggio 2018 – Natural Salumi S.r.l. – Salame romagnolo senza lardello

Richiamo per rischio microbiologico

27 aprile 2018 – Sarnerspeck des Stauder Johann Stofnerhof – Kaminwurzen insaccato crudo affumicato

Richiamo per rischio chimico

23 aprile 2018 – Molini Spigadoro SpA – Mix Farina Dolce Soffice da Kg 1

Richiamo per rischio presenza di allergeni

20 aprile 2018 – Stella 81 – SPIANATA ROMANA

Richiamo per rischio microbiologico

13 aprile 2018 – Nuova Terra – Semi di cumino biologici

Richiamo per rischio microbiologico

13 aprile 2018 – Consorzio Agroalimentare T. M. T. sca – Farina di grano tenero di tipo “0”

Richiamo per rischio presenza di allergeni

13 aprile 2018 – GISA SRL – OSTRICHE CONCAVE ALLEVATE FRANCIA (CRASSOSTREA GIGAS)

Richiamo per rischio microbiologico

12 aprile 2018 – JOCCA; JOCCA Senza Lattosio – Latticino in fiocchi e Latticino in fiocchi senza lattosio, a base di formaggio fresco magro

Richiamo per rischio fisico

Se ho un prodotto alimentare ritirato dal mercato cosa devo fare?

A dover comunicare ai consumatori eventuali ritiri dal commercio di prodotti pericolosi (cosiddetti “richiami”) sono gli stessi venditori che dovranno farlo attraverso avvisi e cartellonistica posta nei punti vendita. Ciò nonostante il consumatore potrà anche informarsi su internet, sul sito del Ministero della Salute, o su questa stessa pagina che verrà aggiornata non appena saranno comunicati nuovi ritiri.

Dopo che l’operatore alimentare avrà fornito la comunicazione, il cliente potrà portare il prodotto acquistato in precedenza presso quello stesso esercizio commerciale e chiederne la sostituzione o la restituzione del prezzo. Il venditore non potrà esigere, come unica e prova d’acquisto valida, lo scontrino; la dimostrazione della spesa effettuata può essere fornita con qualsiasi mezzo (ad esempio la prova testimoniale, l’estratto conto della carta di credito o del bancomat per chi ha pagato con pos, ecc.). In ogni caso, i nuovi codici a barre riescono a rintracciare l’origine di un prodotto e se questo è stato acquistato effettivamente presso un rivenditore o un altro.

Sono autentici e assolvono agli obblighi di informazione ai consumatori soltanto i richiami e loro revoche pubblicati nel portale del Ministero della Salute. Per cui, se ricevi un messaggio sul telefonino che ti avverte di non acquistare un determinato alimento, verifica sempre se questa informazione è pubblicata anche sul sito del Ministero della Salute; se così non fosse si tratterebbe, quasi di certo, di una falsa notizia di cui non dovrai tenere conto.

Il Ministero della salute non è responsabile di avvisi non pubblicati nel portale e di eventuali manipolazioni o falsi diffusi on line, per i quali si riserva denuncia all’autorità giudiziaria.

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Cartelle di pagamento di 100mila euro: che rischia chi non ha nulla?

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Il pignoramento dello stipendio si ferma a un decimo per il 90% degli italiani mentre quello della casa può scattare solo per cartelle sopra 120mila euro e comunque per chi ha almeno due immobili.

La recente proposta di uno dei rappresentanti del Governo di cancellare tutte le vecchie cartelle esattoriali al di sotto di 100mila euro (circa il 90% di quelle attualmente in circolazione), oltre a destare l’interesse di chi non ha pagato il fisco e l’indignazione in chi, invece, ha già subìto un pignoramento o sta facendo salti mortali per stare dietro a una rateizzazione, ha posto un quesito vecchio quanto i debiti: in caso di pignoramento, cosa rischia chi non ha possibilità di pagare? La domanda si può porre anche nei seguenti termini: cosa ci guadagna un nullatenente dalla sanatoria? Se è vero che chi non ha beni intestati non può subire alcuna esecuzione forzata, a beneficio di chi andrà il “condono” promesso dal Governo? A leggere bene le attuali regole sulla riscossione esattoriale si comprende come la “sanatoria” può favorire non tanto i nullatenenti ma proprio chi i beni li ha e anche di un certo valore. Ma procediamo con ordine e vediamo, in caso di cartelle di pagamento di 100mila euro, che rischia chi non ha nulla.

Le cose che l’Agenzia delle Entrate non ti pignorerà mai. È proprio da questo punto che vogliamo partire. Già con le attuali regole, il pignoramento esattoriale non può sfiorare non solo l’indigente – colui cioè che non ha redditi o beni intestati – ma anche chi ne ha e questi gli servono giusto per la sopravvivenza. Più in particolare, ad oggi un pignoramento da parte dell’Agente della Riscossione non può rivolgersi nei confronti dei seguenti soggetti:

  • chi ha una pensione inferiore a 672,76 euro, pari al minimo vitale;
  • chi ha una sola casa, purché non di lusso, a prescindere da quanto grande sia e sempre a condizione che sia adibita a civile abitazione ed a luogo di residenza;
  • chi ha meno di 1340 euro circa sul conto ove viene accreditato lo stipendio (è pignorabile solo l’eccedenza di tale tetto).

In più non può essere sottoposta a fermo l’auto di lavoro dell’imprenditore, della partita Iva e del professionista; non si possono pignorare i beni strumentali all’esercizio dell’impresa (salvo che non vi siano altri beni pignorabili e, in tal caso, non oltre un quinto).

Non dimentichiamo che, con le nuove regole, lo stipendio dell’80% degli italiani può essere pignorato solo per un decimo. Difatti, ad oggi:

  • per stipendi o pensioni fino a 2.500 euro, il pignoramento può essere solo del 10%;
  • per stipendi o pensioni fino a 5.000 euro il pignoramento può essere solo di un settimo;
  • per stipendi o pensioni oltre 5.000 euro (si tratta di casi rarissimi) il pignoramento è di massimo un quinto (il 20%).

Dunque, in caso di notifica di una cartella di pagamento non rischia alcunché sia il nullatenente, sia chi ha uno stipendio minimo, una pensione sotto il minimo e una casa.

Ma allora chi è che rischia il pignoramento se non paga le cartelle esattoriali? Di sicuro chi ha una casa di lusso: una villa o un castello. Oppure chi ha almeno due case, ma sempre che la somma del loro valore sia superiore a 120mila euro. E non basta neanche questo: il pignoramento immobiliare scatta solo per debiti sopra 120mila euro. Quindi, la cartella inferiore a 100mila euro non può mai comportare un pignoramento della casa! In altre parole, con o senza una sanatoria delle cartelle fino a 100mila euro, nessun contribuente avrebbe mai rischiato la casa.

Tra i graziati dall’annullamento delle cartelle esattoriali sotto 100mila euro troviamo chi ha un reddito superiore a 5mila euro al mese, perché eviterà una trattenuta superiore rispetto a chi ne guadagna meno di 2.500. Ma anche chi ha tanti immobili o un castello.

Tornando al punto da cui siamo partiti: chi non ha nulla cosa rischia in caso di notifica di una cartella esattoriale? La risposta è banale e semplice. Non rischia nulla. Non rischia perché non ha beni da perdere. E siccome, nel nostro Paese, i debiti non pagati non si trasformano in sanzioni, nella peggiore delle ipotesi possono solo passare agli eredi. Ma l’esperienza insegna che cadono in prescrizione molto prima.

Reddito di cittadinanza: come funziona

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Che cos’è il nuovo sussidio contro la povertà, a quanto ammonta, a chi spetta, quali requisiti e adempimenti per ottenerlo?

Un reddito mensile pari a 780 euro, in cambio della ricerca assidua di lavoro, della frequenza di corsi di formazione e di 8 ore di lavoro a favore del proprio Comune di residenza: è questo, in parole semplici, il funzionamento del reddito di cittadinanza, il nuovo sussidio contro la povertà proposto dal Movimento 5 Stelle. Un sussidio sicuramente più incisivo rispetto all’attuale reddito d’inclusione Rei, dato che quest’ultima misura, attualmente vigente, offre un reddito massimo di quasi 540 euro mensili, per una famiglia di 5 e più persone (gli importi sono inferiori per i nuclei familiari di meno componenti, si parte da un minimo di circa 190 euro al mese): le risorse necessarie per attuale il reddito di cittadinanza, stimate in 19 miliardi, non sono certamente facili da reperire. D’altra parte, però, i sussidi attualmente esistenti si sono dimostrati poco efficaci, soprattutto per quanto riguarda la reintroduzione delle persone svantaggiate nel mercato del lavoro (solo una ristretta percentuale di disoccupati riesce a trovare lavoro grazie ai centri per l’impiego): a questo proposito, di pari passo con l’introduzione del reddito di cittadinanza dovrebbe essere realizzata la riforma dei centri per l’impiego, una riforma finalizzata a farli diventare degli strumenti che assicurino realmente il collocamento dei lavoratori. In molti, comunque, contestano la misura, sia in quanto favorirebbe l’inerzia dei beneficiari del reddito, sia perché richiede l’impiego eccessivo di risorse pubbliche. Chi ha ragione? Per capirlo, facciamo il punto della situazione sul reddito di cittadinanza: come funziona, chi sono i beneficiari, a quanto ammonta, quali sono i requisiti e gli adempimenti richiesti, come ottenerlo.

Che cos’è il reddito di cittadinanza

Cerchiamo innanzitutto di capire le caratteristiche fondamentali del nuovo reddito di cittadinanza: questo sussidio consiste in una prestazione economica mensile, esentasse, accreditata a favore di coloro che possiedono un reddito sotto la soglia di povertà.

È considerato al di sotto della soglia di povertà ai fini del reddito di cittadinanza chi possiede un reddito inferiore ai 780 euro mensili, in caso di nucleo familiare con un solo componente: questa è la soglia di povertà come definita da Eurostat nel 2014. Bisogna però osservare che con i dati 2016 la soglia di povertà è passata a 812 euro.

A quanto ammonta il reddito di cittadinanza?

Il reddito di cittadinanza dovrebbe ammontare a 780 euro per ogni persona adulta e disoccupata; per chi ha un reddito sotto soglia, il reddito di cittadinanza integrerà gli importi percepiti sino ad arrivare a 780 euro al mese.

Per una famiglia di tre persone, con genitori disoccupati a reddito zero e figlio maggiorenne a carico, il reddito di cittadinanza del nucleo, in base a quanto annunciato dal Movimento 5 stelle, dovrebbe essere pari a 1560 euro al mese. Sempre in base a quanto annunciato dal Movimento, una famiglia di 4 persone potrebbe arrivare a percepire 1950 euro. Per una coppia di pensionati con pensioni minime da 400 euro ciascuno, il reddito di cittadinanza sarà pari ad altri 370 euro per la coppia, come integrazione al reddito.

Il reddito di cittadinanza, che dovrebbe interessare una platea di 9 milioni di italiani, sarà esentasse e non pignorabile.

Chi ha diritto al reddito di cittadinanza?

Potranno chiedere il reddito di cittadinanza i cittadini maggiorenni che soddisfano una delle seguenti condizioni:

  • si trovano in stato di disoccupazione o risultano inoccupati (cioè hanno perso il posto o non hanno mai lavorato);
  • percepiscono un reddito di lavoro inferiore alla soglia di povertà, cioè sotto i 780 euro mensili;
  • percepiscono una pensione inferiore alla soglia di povertà, pari, come abbiamo detto, a 780 euro mensili.

Ad oggi, non sono stati menzionati ulteriori requisiti, oltre quelli reddituali, per ottenere il reddito di cittadinanza. Alcune proposte, però, hanno ipotizzato una misura meno incisiva, chiamata reddito di autonomia: queste proposte prevedono, tra i requisiti, un Isee inferiore a 20mila euro.

Chi lavora o percepisce la disoccupazione ha diritto al reddito di cittadinanza?

Il reddito di cittadinanza, come abbiamo osservato, sarà compatibile con l’attività lavorativa: nello specifico, se il lavoratore ha un contratto part time, il suo salario sarà integrato, attraverso il reddito di cittadinanza, fino ad arrivare a 780 euro al mese.

Naspi e altre prestazioni collegate allo stato di disoccupazione saranno compatibili col reddito di cittadinanza sino al limite di 780 euro mensili.

Chi percepisce prestazioni di assistenza avrà diritto al reddito di cittadinanza?

L’importo mensile del reddito di cittadinanza, come avviene ora per il Rei, sarà ridotto in corrispondenza al valore mensile di eventuali prestazioni di assistenza di cui fruiscono uno o più componenti del nucleo familiare. In particolare, le prestazioni saranno compatibili col reddito di cittadinanza sino al limite di 780 euro mensili per ogni familiare del nucleo.

Per ottenere il reddito di cittadinanza devo lavorare?

In base a quanto recentemente annunciato da Luigi Di Maio, il reddito di cittadinanza obbligherà il beneficiario non solo a cercare assiduamente un lavoro ed a riqualificarsi, ma anche ad offrire 8 ore alla settimana di lavoro gratuito per il proprio Comune di residenza.

Chi si rifiuterà di lavorare perderà il sussidio.

Per quanto riguarda, poi, la partecipazione alle iniziative di politica attiva del lavoro previste per il beneficiario del reddito, sarà obbligatorio (a meno che l’interessato non sia pensionato):

  • iscriversi presso i centri per l’impiego e offrire subito la disponibilità al lavoro;
  • iniziare un percorso per essere accompagnati nella ricerca del lavoro dimostrando la reale volontà di trovare un impiego;
  • offrire la propria disponibilità per progetti comunali utili alla collettività (come abbiamo osservato, l’impegno lavorativo richiesto è di 8 ore settimanali);
  • frequentare percorsi per la qualifica o la riqualificazione professionale;
  • effettuare ricerca attiva del lavoro per almeno 2 ore al giorno;
  • comunicare tempestivamente qualsiasi variazione del reddito;
  • accettare uno dei primi tre lavori che verranno offerti.

Chi ha un lavoro a tempo pieno, ma è sottopagato, avrà comunque diritto all’integrazione del reddito, senza bisogno di partecipare alle iniziative di politica attiva del lavoro.

Che cosa succede al reddito di cittadinanza se rifiuto un lavoro?

L’interessato che percepisce il reddito di cittadinanza può rifiutare al massimo tre proposte lavorative nell’arco di due anni. Ha anche la possibilità di recedere dall’impiego per due volte nell’arco dell’anno solare. Superati questi limiti, perde la somma.

Come si chiede il reddito di cittadinanza?

Ad oggi si sa ancora quando verrà riconosciuto il reddito di cittadinanza, in quanto si tratta soltanto di una proposta, le cui tempistiche di attuazione non sono state rese note.

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Raccolta differenziata: ecco come farla in maniera giusta

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Come fare la raccolta differenziata di Redazione Donna

Sapete come fare la raccolta differenziata? Ci sono una serie di errori che tutti abbiamo commesso e che possono compromettere l’intero processo di riciclo. Ecco una piccola guida per non sbagliare!

I rifiuti domestici sono composti dai più svariati materiali e molto spesso si crea confusione, anche perché In Italia ci sono regole che cambiano di città in città.

Ma quali sono i dubbi più comuni sulla raccolta differenziata? E quali le soluzioni da adottare? Ecco alcune regole generali molto utili per gestire al meglio la raccolta differenziata: dove buttare scontrini, bicchieri rotti e cartone della pizza sporco?

Sono questi alcuni dei rifiuti che spesso non sappiamo come smaltire. Ma scopriamo di più per evitare errori!

Raccolta differenziata: vademecum per i dubbi più comuni e le soluzioni. Sapere dove gettare i rifiuti è importante per fare al meglio la raccolta differenziata, ed evitare di invalidare il processo di riciclo. Ecco un piccolo decalogo per sapere come e dove vanno buttati i vostri rifiuti.

Indifferenziata: dalla ceramica al cartone della pizza sporco.  Nei cassonetti dell’indifferenziata potete buttare: plastica non riciclabile, piatti e bicchieri di plastica sporchi, piccoli giocattoli, pennarelli, penne, gomma, stracci.

E ancora cartone della pizza sporco, scontrini fiscali, ceramica, porcellana, bicchieri e tazzine rotte, assorbenti igienici e pannolini, cristallo, pyrex, carta oleata o plastificata, confezioni e involucri di biscotti e caffè.

Errori più comuni. Spesso capita di buttare gli scontrini nella carta, in questo caso il rischio è quello di compromettere l’intero processo di riciclo in quanto gli scontrini fiscali sono realizzati con carta termica, le cui componenti reagiscono al calore.

Lo stesso discorso vale per la carta dei fax e quella carbone. Andranno tutte nell’indifferenziata. Un altro errore che facciamo spesso è quello di buttare nel vetro la ceramica oppure tazze e bicchieri di vetro rotti.

Si tratta in realtà di materiali che non si possono riciclare per questo devono essere buttati nell’indifferenziata.

È un errore anche mettere i cartoni della pizza sporchi nella carta: i contenitori sporchi vanificano la raccolta della carta abbassandone la qualità, per questo vanno buttati nell’indifferenziata, facilitando anche il lavoro degli addetti ai lavori che devono separare i rifiuti cartacei per il riciclo.

Spesso poi buttiamo involucri di biscotti e caffè nella plastica: di solito si tratta di materiali non riciclabili che si devono gettare tra i rifiuti indifferenziati.

La presenza di un triangolo con codice 07 indica che si tratta di materiali misti, che quindi non possono essere riciclati.

Tovaglioli sporchi di cibo nell’umido. Nei cassonetti dell’umido o dell’organico si possono buttare: avanzi di cibo e pane, scarti di frutta e verdura, fondi di caffè, gusci di uova, pesce, ossa, filtri di camomilla, tè, tisane.

E ancora fazzoletti e tovaglioli non stampati, tovaglioli di carta unti, cenere spenta del caminetto, cibi avariati o scaduti, piante, erba, potatura delle piante, capelli, peli di animali e lettiere per gatti.

Errori più comuni. Uno degli errori che si commette più spesso è quello di buttare i tovaglioli sporchi nell’indifferenziata.

In questo modo si spreca la possibilità di riciclarli, per questo vanno gettati nell’umido: in questo modo si decompongono e possono diventare concime.

Piatti e bicchieri di plastica ripuliti nel contenitore della plastica e dell’alluminio.  Nei cassonetti di plastica e alluminio potete buttare barattoli, flaconi di plastica, alluminio, poliestere, tubetti di dentifricio, di maionese, pomodoro ecc…, carta stagnola, piatti e bicchieri di plastica ripuliti, bombolette spray (solo quelle che non hanno il simbolo Tossico” o “Infiammabile”).

Errori più comuni. Succede spesso di buttare i contenitori dello yogurt sporchi nella plastica: è un errore da non fare.

Ogni contenitore in plastica va sempre lavato prima di essere buttato altrimenti nel momento del riciclo verrà scartato.

Lo stesso vale ovviamente per l’alluminio con il quale si incartano gli alimenti: devono essere puliti dai residui di cibo prima di essere buttati.

Altro errore che si commette è quello di schiacciare le bottiglie di plastica prima di buttarle nell’apposito contenitore, in questo modo la macchina selezionatrice potrebbe non riconoscerle.

Le bottiglie di plastica vuote vanno solo appiattite e non schiacciate. Inoltre non è necessario togliere l’etichetta: è un’operazione che verrà effettuata in discarica.

Bottiglie e barattoli nel contenitore del vetro. La raccolta del vetro è destinata solo a bottiglie e barattoli, si tratta di vetro riciclabile sul quale è impressa la sigla VE. Di solito si buttano in campane apposite presenti in diversi punti della città.

Errore più comune. Buttare cristallo, ceramica, specchi rotti e lampadine nel vetro: si tratta infatti di materiali non riciclabili che vanno nel cassonetto dell’indifferenziata.

Tetrapack nella carta o nella plastica?  Uno dei materiali sul quale sorgono i maggiori dubbi è il Tetrapack che non è né carta né plastica.

La sua raccolta varia da città in città, bisogna quindi conoscere il regolamento del proprio comune, inoltre bisogna rimuovere tutti i residui alimentari prima di buttare i contenitori.

Errore più comune. Buttare il Tetrapack nell’indifferenziata: è l’errore che si fa più spesso in quanto si tratta di involucri particolari, quelli del latte o dei succhi di frutta, per esempio. L’unica cosa da fare è quindi informasi, leggendo il regolamento del proprio comune.

E per tutto il resto? Nell’isola ecologica o negli appositi punti di raccolta ci sono poi dei rifiuti che devono essere smaltiti in modo diverso: nell’isola ecologica più vicina o negli appositi punti di raccolta.

Ecco quali sono: rifiuti ingombranti (televisori, vecchi pc, cellulari, mobili, materassi ecc…), sostanze liquide, materiali pericolosi, pile e batterie scariche, anche quelle delle auto, pneumatici, toner, cartucce, inchiostri ink jet, materiali elettrici, elettrodomestici, solventi, olio esausto. Ci sono poi i farmaci scaduti che vanno portati in farmacia, dove troverete degli appositi contenitori.

Per gli indumenti, invece, quelli in buone condizioni possono essere messi nei raccoglitori per indumenti che sono presenti in tutte le città in diversi punti, mentre quelli vecchi e rotti possono andare nell’indifferenziata.

Errori più comuni. Buttare questi rifiuti semplicemente nell’indifferenziata è un errore, si tratta infatti di materiali inquinanti e pericolosi come ad esempio le pile scariche che contengono sostanze tossiche che finirebbero nel terreno, inquinando anche le falde acquifere.

Buttare l’olio di frittura nel lavandino: l’olio di frittura o comunque l’olio esausto non deve essere buttato nel lavandino, ma va messo in contenitori chiusi e portato in discarica: 1 litro di olio infatti, rende non potabile 1 milione di litri di acqua. Fonte 

parla l’ex moglie di Antonio Bardellino

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SAN CIPRIANO DI AVERSA – “Mi sono sposata con Antonio Bardellino nel 1973. L’ultima volta che l’ho visto?  Nel 1987.  Avevo appena vent’anni quando l’ho conosciuto. Avrebbe compiuto 72 anni a maggio…se fosse ancora vivo! Non mi sono più risposata. Ho fatto delle scelte difficili per il bene di mio figlio perché un’alternativa, se si vuole, in questa terra esiste.  Credo che nella vita, quando devi scegliere tra il bene o il male, la strada che ti porta al bene di sicuro è quella più tortuosa. Ho sofferto ma ne è valsa la pena. Le donne in questo territorio portano sulle spalle grandi responsabilità da cui dipende il futuro dei figli”.  A parlare è Immacolata Bretto,

la prima moglie di Antonio Bardellino considerato fondatore del clan dei Casalesi.

Oggi ha poco più di 63 anni, ben portati. Mi ricorda la bella Endora della serie televisiva americana “Vita da strega”. Oggi vive in una piccola e modesta villetta di San Cipriano, la prima vera patria del primo capoclan.  Non è stato facile trovarla, ma dopo vari tentativi e frammentarie indicazioni dei residenti che rispondevano persino a bassa voce, appena sentivano il cognome Bardellino, l’abbiamo rintracciata.

La incontriamo in una casa del centro storico. Al portone nessun cognome…solo un campanello. La signora Bretto ci accoglie in un piccolo cortile circondato da fiori dove troneggia una magnifica pianta di mandarino cinese. Mai vista così bella. Alta più di due metri, traboccante di frutti, con una grande ombra che si allunga nella corte. La donna indossa un camicione verde ed un foulard tra i capelli …non ci aspettava. “Scusate ma non sapevo del vostro arrivo”, ci dice con un sorriso appena entriamo. Subito le chiediamo del suo passato con Bardellino. La donna cambia espressione e comincia a raccontare: “Non mi piace parlare del passato. Ma preciso sono la signora Bretto non Bardellino”.  Ci incuriosisce il fatto che è proprio lei a chiederci: “Ma i giornali dicono che potrebbe essere vivo. È possibile?”

La donna parla lentamente, si ferma spesso come persa tra i ricordi dolci e amari della sua vita. Capelli castani, i lineamenti molto marcati. Da giovane è stata sicuramente una donna bellissima.

Intanto, con non poche perplessità, la Bretto risponde a quasi tutte le nostre domande dividendo la sua vita in “prima e dopo” la scomparsa del marito da San Cipriano.

Ci può raccontare quando e come ha conosciuto Antonio Bardellino?

“Nel 1969 mi fu presentato nel corso di una promessa di matrimonio.  Lo conobbi a casa di sua cugina. Mi corteggiò, fu amore a prima vista.  Ci innamorammo e dopo quattro anni ci siamo sposati. Naturalmente in quel periodo non si parlava di clan e camorra”

Lei non è mai stata coinvolta in fatti di camorra e non sapeva delle attività di suo marito?

“No assolutamente”

Ci può indicare un momento bello e un momento brutto nei suoi ricordi quando era la moglie di Bardellino?

“I momenti belli, che non dimentico mai ancora oggi, è quando arrivava a casa e mi chiamava sottovoce ‘Imma…Imma dove sei?’. Ecco… questo mi piaceva molto, come pure la sua galanteria di cui tanto si parla. Era vera, soprattutto verso le donne.

I momenti brutti, invece, sono cominciati quando si è aperta la guerra fratricida tra i clan. Antonio è andato via. È cominciata la sua latitanza. Io non ho condiviso le sue scelte. Poi ho scoperto che mi ha tradito, che aveva un’altra famiglia…un’altra donna, altri tre figli. Ho saputo, poi, della sua morte, è stato terribile!”

Lei accennava che ha fatto in questa terra delle scelte, e al ruolo delle donne. A che cosa si riferisce? Una madre può in questa terra di camorra cambiare il futuro del proprio figlio?

“Si, ho seguito mio figlio adottivo in tutto e per tutto per farlo studiare e per fargli intraprendere la strada giusta. È vero che spesso non si riescono a controllare i propri figli ma ci si deve impegnare al massimo. Volere è potere insomma… Lui lavora onestamente e ne sono orgogliosa.

Credo che le donne, la chiesa sono in questa terra un punto di forza. Più sono forti più combattono il malaffare. Mi spiego meglio: anch’io, quando ero la moglie di Bardellino, avevo paura, perché capivo da come mi guardava la gente che ero in pericolo, ma il destino e la mia forza mi hanno aiutato a stare dall’altra parte, dalla parte della normalità, come tutte quelle persone che hanno tirato su i figli di questa terra e hanno condiviso la cultura della legalità e che lavorano onestamente. Questo voglio dire. Un ruolo forte oggi lo riveste la scuola, lo studio infatti è importantissimo per i giovani”.

Quando è stata l’ultima volta che ha visto suo marito?

“Nel ’87. Vent’anni fa” – la donna in silenzio e con emozione si sofferma su questo ricordo che la trascina del passato… nella memoria della sua “prima vita” con il marito. E poi dopo una lunga pausa aggiunge “Ci siamo visti di nascosto perché era già in atto la guerra tra clan. Fu quella…sì fu quella l’ultima volta che l’ho visto!”.  Da alcune testimonianze investigative, infatti, risulta che ad ottobre di quell’anno, il 1987, Bardellino fu visto per l’ultima volta proprio a San Cipriano.

Che cosa ne pensa della notizia che vorrebbe suo marito ancora vivo? O forse non è stata detta tutta la verità sulla sua morte? Ad esempio, ha mai sentito parlare di altre persone che sarebbero state coinvolte nel delitto?

“No, assolutamente non so nulla. Ma non penso che sia vivo.”

Suo figlio non porta il cognome del padre?

“No anche questa è stata una scelta per tenerlo in tutto per tutto fuori da certe allusioni e collegamenti che si sarebbero potuti fare”.

“Ora devo lasciarla” – ci sorprende congedandoci all’improvviso – “mi devo preparare…mi aspetta una mia amica”

La signora Bretto, dice un secco “no” quando le chiediamo, al termine dell’intervista, prima di salutarla, di farci vedere una sua foto con Bardellino il giorno del matrimonio. Forse per lei è un ricordo troppo intimo che non deve essere violato da estranei …uno dei pochi momenti felici della sua vita con il marito, quando ancora non sapeva che il boss che stava spostando aveva stretto dei patti di morte con la malavita. Non sapeva ancora che quell’uomo di cui era innamorata, dopo qualche anno avrebbe avuto un’altra vita, un’altra moglie, un’altra famiglia dall’altro lato del mondo.

Intanto da fonti della Dda di Napoli, il pubblico ministero Catello Maresca, dopo alcune rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia, sta ricostruendo alcuni dettagli sulla morte di Bardellino perché prove che sia ancora vivo non ce ne sono, ma tanti i dubbi di come e dove sia stato ucciso. La seconda moglie del boss, Rita De Vita, di origine napoletana si sarebbe risposata in Brasile altre due volte dopo la morte di Antonio Bardellino a Buzios. Da alcune indiscrezioni si apprende che l’unico testimone oculare ancora in vita del presunto delitto del boss non sia mai stato ascoltato e ci si chiede perché. Si tratta del taxista Gennaro Esposito di Napoli, oggi 77enne, che secondo la ricostruzione giudiziaria, avvenuta all’interno del maxi processo Spartacus I, avrebbe aiutato Mario Iovine a seppellire Bardellino. Inoltre sembrerebbe, secondo indiscrezioni raccolte da Luigi Basile – autista del boss che si costituì a Napoli alla caserma Pastrengo dal comandante Tommasone, appena saputo dell’uccisione del suo capo e del nipote – che in realtà all’esecuzione di “Tonino Bardellino” fosse presente la compagna brasiliana di Iovine, Rosangela Mendozvga e la madre. Una trappola studiata a tavolino

Antonio BardellinoParide Salzillo, zio e nipote segnati da uno stesso destino: muoiono lo stesso giorno il 26 maggio del ’88 ed i corpi di entrambi non sono stati mai ritrovati.  La sentenza Spartacus I ha visto condannare solo Sandokan come l’istigatore morale del delitto di Antonio Bardellino ed esecutore dell’omicidio di Paride insieme a Francesco Schiavone Cicciariello, Giuseppe Caterino, Peppinotto, Raffaele Diana Rafilotto Ciglione, Antonio Iovine o’ Ninno, Walterino Schiavone e Vincenzo Zagaria.

A proposito degli omicidi di Antonio Bardellino e di Paride Salzillo, ecco quanto si legge nella motivazione: “Si tratta degli omicidi, strategici che costituiscono la linea di confine tra il periodo dominato dal Bardellino e quello successivo del gruppo dei casalesi.”

Tina Palomba

fonte

I messaggi WhatsApp hanno valore legale di prova?

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Come fare entrare in un processo civile o penale una chat di WhatsApp o altra messaggistica registrata sullo smartphone. 

Hai intrattenuto una chiacchierata su WhatsApp con una persona che, al termine di una lunga serie di messaggi, ti ha minacciato e ha usato espressioni oltraggiose nei tuoi riguardi. Intendi agire per le vie legali: vuoi denunciarlo e, se possibile, ottenere anche un risarcimento. Ti chiedi tuttavia se i messaggi WhatsApp hanno valore legale di provaed, eventualmente, in che modo vanno portati al giudice per poter “testimoniare” a tuo favore: se cioè è sufficiente stamparli, se bisogna creare un file con tutte le conversazioni oppure bisogna consegnare materialmente lo smartphone al magistrato affinché possa leggere la conversazione. Su questo delicato tema e sulla validità delle chat come prova in un processo civile o penale si sta iniziando a pronunciare la giurisprudenza. Poiché non sempre le sentenze usano un linguaggio semplice e adatto all’uomo non esperto di legge, in questo articolo ti spiegheremo come stanno le cose e come difenderti nel caso in cui tu voglia utilizzare un messaggio WhatsApp come prova in una causa.

In teoria il messaggio di WhatsApp può essere considerato come una valida prova in processo, a condizione che sia stato effettivamente spedito e ricevuto. La vera difficoltà sta, quindi, nel verificare se il testo esibito al giudice è davvero quello presente sul cellulare.

Si potrebbe risolvere la questione in quattro modi diversi. Analizziamoli qui di seguito.

Io screenshot dei messaggi WhatsApp

Il primo, e sicuramente meno conveniente, modo per far entrare un messaggio WhatsApp come prova in un processo è di memorizzare la chat incriminata mediante uno o più screenshot del display del cellulare (si tratta cioè di fare delle fotografie della videata che compare sullo smartphone quando si apre la finestra di WhatsApp con la conversazione). Ogni cellulare ha un sistema diverso per eseguire lo screenshot. Di solito si tratta di premere una combinazione di tasti. Una volta realizzato lo screenshot, il relativo file può essere stampato su carta oppure allegato con una pennetta usb al fascicolo.

Senonché questo sistema presta il fianco a una facile critica. La legge infatti considera la copia cartacea o digitale di un documento informatico come una “riproduzione meccanica” al pari di una fotocopia. Come tale, essa può essere considerata prova solo a condizione che non venga contestata dalla controparte, cosa che, invece, molto probabilmente, farà se non vuole perdere la causa. Solo nel caso in cui l’avversario riconosca la genuinità dei testi dei messaggi per come allegati dalla controparte (cosa che può scaturire anche tacitamente, da una mancata contestazione), allora il giudice potrà tenerne conto come prova documentale. Ma se li contesta, quel materiale non potrà più essere utilizzato.

A mitigare il rigore di tale regola, la Cassazione ha precisato che non basta una semplice e generica contestazione, ma è necessario spiegarne le ragioni e insinuare il dubbio sull’autenticità della prova. Bisogna cioè motivare al giudice la ragione per cui la stampa o il file allegato dall’avversario potrebbe non corrispondere all’originale (ad esempio manca l’indicazione della data).

La testimonianza dei messaggi WhatsApp

Un metodo più sicuro del precedente (ma che ad esso si può aggiungere) per dimostrare il contenuto dei messaggi WhatsApp è quello di farli leggere a una persona che poi sia disposta a testimoniare davanti al giudice e a dichiarare ciò che ha letto. Si tratterà cioè di far entrare nel processo la chat tramite una testimonianza. Il teste sarà sentito dal giudice che lo interrogherà su ciò che ha visto con i propri occhi. A tal fine non basta che questi dichiari di aver saputo della chat in modo indiretto, ossia per confessione di una delle parti che gliene abbia parlato. Il testimone è tale solo se “oculare”.

Anche questo sistema però può avere dei punti deboli. Con un buon controinterrogatorio, l’avvocato di controparte potrebbe far cadere il testimone, facendogli delle domande a trabocchetto. Come ad esempio:

«Lei ha detto di aver letto, sull’intestazione della chat, il nome del mittente del messaggio. Ma è sicuro che a quel nome corrisponda davvero l’utenza telefonica del mio assistito? Lo ha controllato personalmente? Ha fatto una ricerca sulla rubrica del telefono per vedere se il nome non era stato creato ad arte?»;

«Lei ha detto che la chat riportava la data del 23 febbraio. Ma come può affermare con certezza questo dato? Cosa le fa pensare che il titolare dello smartphone non abbia cambiato la data sul proprio dispositivo, falsando così anche la chat?»;

«Lei ha detto di aver letto una chat di WhatsApp. Ma è sicuro che non si sia trattato magari di una immagine creata appositamente da un software e quindi di un fake? Quali elementi ha per poter dire il contrario?».

Insomma, i mezzi per far cadere in trappola l’avversario sono numerosi.

La trascrizione dei messaggi WhatsApp

Una sentenza del tribunale di Milano [1] ha ammesso la cosiddetta trascrizione dei messaggi. In buona sostanza, se vi è una contestazione sull’autenticità del messaggio, la parte può chiedere al giudice di disporre una consulenza tecnica d’ufficio (cosiddetta CTU). Il giudice nominerà un perito al quale andrà consegnato lo smartphone. Dopo un esame del supporto e della chat, questi provvederà a riportarne il testo su un “documento ufficiale” (cartaceo) che diventa una prova vera e propria nel processo.

L’acquisizione dello smartphone al processo

Di recente la Cassazione [2] ha fornito l’ultimo suggerimento per poter dimostrare, in un processo, il contenuto di una chat su WhatsApp e, quindi, darle il valore di prova. Secondo la Corte, a tal fine è necessaria l’acquisizione dello smartphone. La rappresentazione fotografica infatti non ha alcun valore senza il supporto materiale che contiene l’originale. È solo con quest’ultimo che si può avere la certezza della effettiva genuinità della stampa.

Nel caso di specie, il giudice del merito, in assenza del supporto, aveva deciso di non acquisire in giudizio la trascrizione della chat WhatsApp intercorsa tra l’imputato del reato di stalking e la parte offesa, che la difesa dell’imputato voleva versare agli atti del processo per provare l’inattendibilità della persona offesa.

Quando la chat su WhatsApp diventa prova

Sono ormai numerose le sentenze che riconoscono al messaggio di WhatsApp il valore di prova. In alcuni casi, peraltro, non è stato neanche necessario acquisire la riproduzione o lo smartphone non essendo contestato l’invio o il ricevimento del messaggio. Uno di questi casi è quello del licenziamento [3]. Se, ad esempio, un’azienda invia un licenziamento a un proprio dipendente tramite sms o WhatsApp e quest’ultimo, nei 60 giorni successivi, invia la lettera di contestazione non fa altro che ammettere il ricevimento del messaggio che, in definitiva, non potrà più essere contestato. Insomma il comportamento tenuto dalle parti dopo la conversazione può servire a confermare il testo della chat.

FONTE

[1] Trib. Milano, sent. del 24.10.2017.

[2] Cass. sent. n. 49016/2017.

[3] Trib. Catania, ord. del 27.06.2017.

Pensione riforma quota 100 e 41, come funziona

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Controriforma Stop Fornero: requisiti per la pensione anticipata quota 100 e quota 41, come si calcola il trattamento.

Inizia a delinearsi la controriforma Stop Fornero: così è stata ribattezzata la nuova normativa finalizzata ad abolire la legge Fornero [1], che prevede l’introduzione di due nuove tipologie di pensione, la pensione anticipata quota 100 e quota 41. Più passa il tempo, però, più le novità si fanno meno incisive, soprattutto perché ci si è resi conto che le risorse a disposizione per anticipare l’uscita dal lavoro sono piuttosto esigue. Così, la pensione anticipata quota 100 si potrà ottenere solo con un minimo di 64 anni di età e 36 anni di contributi, previo ricalcolo contributivo dei periodi dal 1996 in poi; la pensione anticipata quota 41, invece, potrà essere ottenuta soltanto con 41 anni e 6 mesi di contributi. Ma facciamo subito il punto della situazione e vediamo in merito alla pensione riforma quota 100 e 41, come funziona, quali sono i requisiti previsti per ottenerla e come si calcola il trattamento.

Che cos’è la quota?

Prima di illustrare i requisiti necessari ad ottenere la pensione anticipata con quota 100 e quota 41, dobbiamo capire che cos’è la quota. Per quota si intende la somma dell’età pensionabile e degli anni di contributi: ad esempio, se il lavoratore ha 60 anni di età e 35 anni di contributi, la sua quota è 95.

E se il lavoratore ha, poniamo, 60 anni e 6 mesi di età e 35 anni e 3 mesi di contributi? In questo caso, bisogna trasformare i mesi in decimali, o meglio i dodicesimi in decimi. Ecco che, allora, 60 anni e 6 mesi diventano 60,5 (perché 6 dodicesimi sono uguali a 5 decimi), e 35 anni e 3 mesi di contributi diventano, ai fini della quota, 35,25. Quindi il lavoratore con 60 anni e 6 mesi di età e 35 anni e 3 mesi di contributi possiede la quota 95,75, arrotondando 95,8.

Quali sono i requisiti per la pensione quota 100?

In base a quanto osservato in merito al calcolo della quota, raggiungere la quota 100 sembrerebbe abbastanza semplice: se il lavoratore ha 60 anni di età può pensionarsi con 40 anni di contributi, se ne ha 61 con 39 anni, se ne ha 62 con 38 e così via…E invece no. Secondo le più recenti proposte, per raggiungere la pensione anticipata quota 100 non basterà la quota 100, ma saranno necessari anche un’età minima pari a 64 anni e un minimo di 36 anni di contributi.

Come si calcola la pensione quota 100?

Il limite relativo all’età ed il tetto minimo di anni di contributi, ad ogni modo, non sono sufficienti per rendere sostenibili le nuove pensioni rispetto alle risorse disponibili. Per questo motivo, nelle più recenti proposte è stato previsto il ricalcolo contributivo della pensione quota 100, per le annualità che partono dal 1996.

Non un calcolo contributivo dell’intero trattamento, dunque, ma un calcolo parziale, delle sole quote di pensione dal 1° gennaio 1996 in poi. Questa novità non cambierà nulla per quei contribuenti che hanno diritto al calcolo misto della pensione (retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, in quanto possiedono meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), ma potrebbe portare delle penalizzazioni tutt’altro che irrilevanti per chi, possedendo almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, ha diritto al calcolo retributivo della prestazione sino al 31 dicembre 2011.

Perché il calcolo contributivo è penalizzante?

Nella generalità dei casi, il calcolo contributivo della pensione risulta penalizzante, rispetto al calcolo retributivo, perché, mentre quest’ultimo si basa sugli ultimi redditi, o sui redditi migliori, il caloclo contributivo si basa sui contributi effettivamente accreditati nell’arco della vita lavorativa. Nel calcolo retributivo si prendono in considerazione gli stipendi, che vengono rivalutati con appositi coefficienti, mentre col calcolo contributivo si prendono in considerazione i soli contributi, che vengono rivalutati secondo l’andamento del Pil italiano (quindi gli incrementi del capitale sono molto bassi).

Tuttavia, ci sono dei casi in cui conviene maggiormente il calcolo contributivo, rispetto al retributivo: questo accade, ad esempio, quando la gestione Inps presso cui è iscritto il lavoratore prende in considerazione non i redditi migliori, ma gli ultimi anni di reddito o retribuzione, e la media delle ultime retribuzioni crolla al termine della vita lavorativa.

Quali sono i requisiti per la pensione quota 41?

La pensione quota 41, ad oggi, esiste già, ma è riservata ai lavoratori precoci, cioè a coloro che possiedono almeno 12 mesi di contributi da effettivo lavoro versati prima del compimento del 19° anno di età. Inoltre, per ottenere la pensione anticipata quota 41 bisogna appartenere a una delle seguenti categorie tutelate: disoccupati di lungo corso, caregiver (che curano un familiare convivente disabile sino al 2° grado), invalidi dal 74%, addetti ai lavori gravosi, addetti ai lavori usuranti.

Questa pensione anticipata è chiamata quota 41 impropriamente: 41, difatti, sono gli anni di contributi richiesti per pensionarsi, non si tratta della somma di età e contribuzione (altrimenti si potrebbe, ad esempio, andare in pensione a 30 anni con 11 anni di contributi!).

Secondo la normativa attuale, questa pensione potrà essere ottenuta anche nel 2019 e negli anni a venire, previa disponibilità delle risorse: tuttavia, dal 1° gennaio 2019 il requisito previsto salirà a 41 anni e 5 mesi di contributi.

Il nuovo governo vorrebbe estendere la pensione anticipata quota 41 dapprima agli appartenenti alle categorie tutelate che non sono lavoratori precoci, poi a tutti i lavoratori. Si vorrebbe però innalzare il requisito a 41 anni e 6 mesi di contributi.

Non sarebbe previsto alcun ricalcolo contributivo per ottenere la pensione anticipata quota 41, come avviene oggi.

FONTE

[1] Dl 201/2011.

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