parla l’ex moglie di Antonio Bardellino

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SAN CIPRIANO DI AVERSA – “Mi sono sposata con Antonio Bardellino nel 1973. L’ultima volta che l’ho visto?  Nel 1987.  Avevo appena vent’anni quando l’ho conosciuto. Avrebbe compiuto 72 anni a maggio…se fosse ancora vivo! Non mi sono più risposata. Ho fatto delle scelte difficili per il bene di mio figlio perché un’alternativa, se si vuole, in questa terra esiste.  Credo che nella vita, quando devi scegliere tra il bene o il male, la strada che ti porta al bene di sicuro è quella più tortuosa. Ho sofferto ma ne è valsa la pena. Le donne in questo territorio portano sulle spalle grandi responsabilità da cui dipende il futuro dei figli”.  A parlare è Immacolata Bretto,

la prima moglie di Antonio Bardellino considerato fondatore del clan dei Casalesi.

Oggi ha poco più di 63 anni, ben portati. Mi ricorda la bella Endora della serie televisiva americana “Vita da strega”. Oggi vive in una piccola e modesta villetta di San Cipriano, la prima vera patria del primo capoclan.  Non è stato facile trovarla, ma dopo vari tentativi e frammentarie indicazioni dei residenti che rispondevano persino a bassa voce, appena sentivano il cognome Bardellino, l’abbiamo rintracciata.

La incontriamo in una casa del centro storico. Al portone nessun cognome…solo un campanello. La signora Bretto ci accoglie in un piccolo cortile circondato da fiori dove troneggia una magnifica pianta di mandarino cinese. Mai vista così bella. Alta più di due metri, traboccante di frutti, con una grande ombra che si allunga nella corte. La donna indossa un camicione verde ed un foulard tra i capelli …non ci aspettava. “Scusate ma non sapevo del vostro arrivo”, ci dice con un sorriso appena entriamo. Subito le chiediamo del suo passato con Bardellino. La donna cambia espressione e comincia a raccontare: “Non mi piace parlare del passato. Ma preciso sono la signora Bretto non Bardellino”.  Ci incuriosisce il fatto che è proprio lei a chiederci: “Ma i giornali dicono che potrebbe essere vivo. È possibile?”

La donna parla lentamente, si ferma spesso come persa tra i ricordi dolci e amari della sua vita. Capelli castani, i lineamenti molto marcati. Da giovane è stata sicuramente una donna bellissima.

Intanto, con non poche perplessità, la Bretto risponde a quasi tutte le nostre domande dividendo la sua vita in “prima e dopo” la scomparsa del marito da San Cipriano.

Ci può raccontare quando e come ha conosciuto Antonio Bardellino?

“Nel 1969 mi fu presentato nel corso di una promessa di matrimonio.  Lo conobbi a casa di sua cugina. Mi corteggiò, fu amore a prima vista.  Ci innamorammo e dopo quattro anni ci siamo sposati. Naturalmente in quel periodo non si parlava di clan e camorra”

Lei non è mai stata coinvolta in fatti di camorra e non sapeva delle attività di suo marito?

“No assolutamente”

Ci può indicare un momento bello e un momento brutto nei suoi ricordi quando era la moglie di Bardellino?

“I momenti belli, che non dimentico mai ancora oggi, è quando arrivava a casa e mi chiamava sottovoce ‘Imma…Imma dove sei?’. Ecco… questo mi piaceva molto, come pure la sua galanteria di cui tanto si parla. Era vera, soprattutto verso le donne.

I momenti brutti, invece, sono cominciati quando si è aperta la guerra fratricida tra i clan. Antonio è andato via. È cominciata la sua latitanza. Io non ho condiviso le sue scelte. Poi ho scoperto che mi ha tradito, che aveva un’altra famiglia…un’altra donna, altri tre figli. Ho saputo, poi, della sua morte, è stato terribile!”

Lei accennava che ha fatto in questa terra delle scelte, e al ruolo delle donne. A che cosa si riferisce? Una madre può in questa terra di camorra cambiare il futuro del proprio figlio?

“Si, ho seguito mio figlio adottivo in tutto e per tutto per farlo studiare e per fargli intraprendere la strada giusta. È vero che spesso non si riescono a controllare i propri figli ma ci si deve impegnare al massimo. Volere è potere insomma… Lui lavora onestamente e ne sono orgogliosa.

Credo che le donne, la chiesa sono in questa terra un punto di forza. Più sono forti più combattono il malaffare. Mi spiego meglio: anch’io, quando ero la moglie di Bardellino, avevo paura, perché capivo da come mi guardava la gente che ero in pericolo, ma il destino e la mia forza mi hanno aiutato a stare dall’altra parte, dalla parte della normalità, come tutte quelle persone che hanno tirato su i figli di questa terra e hanno condiviso la cultura della legalità e che lavorano onestamente. Questo voglio dire. Un ruolo forte oggi lo riveste la scuola, lo studio infatti è importantissimo per i giovani”.

Quando è stata l’ultima volta che ha visto suo marito?

“Nel ’87. Vent’anni fa” – la donna in silenzio e con emozione si sofferma su questo ricordo che la trascina del passato… nella memoria della sua “prima vita” con il marito. E poi dopo una lunga pausa aggiunge “Ci siamo visti di nascosto perché era già in atto la guerra tra clan. Fu quella…sì fu quella l’ultima volta che l’ho visto!”.  Da alcune testimonianze investigative, infatti, risulta che ad ottobre di quell’anno, il 1987, Bardellino fu visto per l’ultima volta proprio a San Cipriano.

Che cosa ne pensa della notizia che vorrebbe suo marito ancora vivo? O forse non è stata detta tutta la verità sulla sua morte? Ad esempio, ha mai sentito parlare di altre persone che sarebbero state coinvolte nel delitto?

“No, assolutamente non so nulla. Ma non penso che sia vivo.”

Suo figlio non porta il cognome del padre?

“No anche questa è stata una scelta per tenerlo in tutto per tutto fuori da certe allusioni e collegamenti che si sarebbero potuti fare”.

“Ora devo lasciarla” – ci sorprende congedandoci all’improvviso – “mi devo preparare…mi aspetta una mia amica”

La signora Bretto, dice un secco “no” quando le chiediamo, al termine dell’intervista, prima di salutarla, di farci vedere una sua foto con Bardellino il giorno del matrimonio. Forse per lei è un ricordo troppo intimo che non deve essere violato da estranei …uno dei pochi momenti felici della sua vita con il marito, quando ancora non sapeva che il boss che stava spostando aveva stretto dei patti di morte con la malavita. Non sapeva ancora che quell’uomo di cui era innamorata, dopo qualche anno avrebbe avuto un’altra vita, un’altra moglie, un’altra famiglia dall’altro lato del mondo.

Intanto da fonti della Dda di Napoli, il pubblico ministero Catello Maresca, dopo alcune rivelazioni di nuovi collaboratori di giustizia, sta ricostruendo alcuni dettagli sulla morte di Bardellino perché prove che sia ancora vivo non ce ne sono, ma tanti i dubbi di come e dove sia stato ucciso. La seconda moglie del boss, Rita De Vita, di origine napoletana si sarebbe risposata in Brasile altre due volte dopo la morte di Antonio Bardellino a Buzios. Da alcune indiscrezioni si apprende che l’unico testimone oculare ancora in vita del presunto delitto del boss non sia mai stato ascoltato e ci si chiede perché. Si tratta del taxista Gennaro Esposito di Napoli, oggi 77enne, che secondo la ricostruzione giudiziaria, avvenuta all’interno del maxi processo Spartacus I, avrebbe aiutato Mario Iovine a seppellire Bardellino. Inoltre sembrerebbe, secondo indiscrezioni raccolte da Luigi Basile – autista del boss che si costituì a Napoli alla caserma Pastrengo dal comandante Tommasone, appena saputo dell’uccisione del suo capo e del nipote – che in realtà all’esecuzione di “Tonino Bardellino” fosse presente la compagna brasiliana di Iovine, Rosangela Mendozvga e la madre. Una trappola studiata a tavolino

Antonio BardellinoParide Salzillo, zio e nipote segnati da uno stesso destino: muoiono lo stesso giorno il 26 maggio del ’88 ed i corpi di entrambi non sono stati mai ritrovati.  La sentenza Spartacus I ha visto condannare solo Sandokan come l’istigatore morale del delitto di Antonio Bardellino ed esecutore dell’omicidio di Paride insieme a Francesco Schiavone Cicciariello, Giuseppe Caterino, Peppinotto, Raffaele Diana Rafilotto Ciglione, Antonio Iovine o’ Ninno, Walterino Schiavone e Vincenzo Zagaria.

A proposito degli omicidi di Antonio Bardellino e di Paride Salzillo, ecco quanto si legge nella motivazione: “Si tratta degli omicidi, strategici che costituiscono la linea di confine tra il periodo dominato dal Bardellino e quello successivo del gruppo dei casalesi.”

Tina Palomba

fonte

I messaggi WhatsApp hanno valore legale di prova?

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Come fare entrare in un processo civile o penale una chat di WhatsApp o altra messaggistica registrata sullo smartphone. 

Hai intrattenuto una chiacchierata su WhatsApp con una persona che, al termine di una lunga serie di messaggi, ti ha minacciato e ha usato espressioni oltraggiose nei tuoi riguardi. Intendi agire per le vie legali: vuoi denunciarlo e, se possibile, ottenere anche un risarcimento. Ti chiedi tuttavia se i messaggi WhatsApp hanno valore legale di provaed, eventualmente, in che modo vanno portati al giudice per poter “testimoniare” a tuo favore: se cioè è sufficiente stamparli, se bisogna creare un file con tutte le conversazioni oppure bisogna consegnare materialmente lo smartphone al magistrato affinché possa leggere la conversazione. Su questo delicato tema e sulla validità delle chat come prova in un processo civile o penale si sta iniziando a pronunciare la giurisprudenza. Poiché non sempre le sentenze usano un linguaggio semplice e adatto all’uomo non esperto di legge, in questo articolo ti spiegheremo come stanno le cose e come difenderti nel caso in cui tu voglia utilizzare un messaggio WhatsApp come prova in una causa.

In teoria il messaggio di WhatsApp può essere considerato come una valida prova in processo, a condizione che sia stato effettivamente spedito e ricevuto. La vera difficoltà sta, quindi, nel verificare se il testo esibito al giudice è davvero quello presente sul cellulare.

Si potrebbe risolvere la questione in quattro modi diversi. Analizziamoli qui di seguito.

Io screenshot dei messaggi WhatsApp

Il primo, e sicuramente meno conveniente, modo per far entrare un messaggio WhatsApp come prova in un processo è di memorizzare la chat incriminata mediante uno o più screenshot del display del cellulare (si tratta cioè di fare delle fotografie della videata che compare sullo smartphone quando si apre la finestra di WhatsApp con la conversazione). Ogni cellulare ha un sistema diverso per eseguire lo screenshot. Di solito si tratta di premere una combinazione di tasti. Una volta realizzato lo screenshot, il relativo file può essere stampato su carta oppure allegato con una pennetta usb al fascicolo.

Senonché questo sistema presta il fianco a una facile critica. La legge infatti considera la copia cartacea o digitale di un documento informatico come una “riproduzione meccanica” al pari di una fotocopia. Come tale, essa può essere considerata prova solo a condizione che non venga contestata dalla controparte, cosa che, invece, molto probabilmente, farà se non vuole perdere la causa. Solo nel caso in cui l’avversario riconosca la genuinità dei testi dei messaggi per come allegati dalla controparte (cosa che può scaturire anche tacitamente, da una mancata contestazione), allora il giudice potrà tenerne conto come prova documentale. Ma se li contesta, quel materiale non potrà più essere utilizzato.

A mitigare il rigore di tale regola, la Cassazione ha precisato che non basta una semplice e generica contestazione, ma è necessario spiegarne le ragioni e insinuare il dubbio sull’autenticità della prova. Bisogna cioè motivare al giudice la ragione per cui la stampa o il file allegato dall’avversario potrebbe non corrispondere all’originale (ad esempio manca l’indicazione della data).

La testimonianza dei messaggi WhatsApp

Un metodo più sicuro del precedente (ma che ad esso si può aggiungere) per dimostrare il contenuto dei messaggi WhatsApp è quello di farli leggere a una persona che poi sia disposta a testimoniare davanti al giudice e a dichiarare ciò che ha letto. Si tratterà cioè di far entrare nel processo la chat tramite una testimonianza. Il teste sarà sentito dal giudice che lo interrogherà su ciò che ha visto con i propri occhi. A tal fine non basta che questi dichiari di aver saputo della chat in modo indiretto, ossia per confessione di una delle parti che gliene abbia parlato. Il testimone è tale solo se “oculare”.

Anche questo sistema però può avere dei punti deboli. Con un buon controinterrogatorio, l’avvocato di controparte potrebbe far cadere il testimone, facendogli delle domande a trabocchetto. Come ad esempio:

«Lei ha detto di aver letto, sull’intestazione della chat, il nome del mittente del messaggio. Ma è sicuro che a quel nome corrisponda davvero l’utenza telefonica del mio assistito? Lo ha controllato personalmente? Ha fatto una ricerca sulla rubrica del telefono per vedere se il nome non era stato creato ad arte?»;

«Lei ha detto che la chat riportava la data del 23 febbraio. Ma come può affermare con certezza questo dato? Cosa le fa pensare che il titolare dello smartphone non abbia cambiato la data sul proprio dispositivo, falsando così anche la chat?»;

«Lei ha detto di aver letto una chat di WhatsApp. Ma è sicuro che non si sia trattato magari di una immagine creata appositamente da un software e quindi di un fake? Quali elementi ha per poter dire il contrario?».

Insomma, i mezzi per far cadere in trappola l’avversario sono numerosi.

La trascrizione dei messaggi WhatsApp

Una sentenza del tribunale di Milano [1] ha ammesso la cosiddetta trascrizione dei messaggi. In buona sostanza, se vi è una contestazione sull’autenticità del messaggio, la parte può chiedere al giudice di disporre una consulenza tecnica d’ufficio (cosiddetta CTU). Il giudice nominerà un perito al quale andrà consegnato lo smartphone. Dopo un esame del supporto e della chat, questi provvederà a riportarne il testo su un “documento ufficiale” (cartaceo) che diventa una prova vera e propria nel processo.

L’acquisizione dello smartphone al processo

Di recente la Cassazione [2] ha fornito l’ultimo suggerimento per poter dimostrare, in un processo, il contenuto di una chat su WhatsApp e, quindi, darle il valore di prova. Secondo la Corte, a tal fine è necessaria l’acquisizione dello smartphone. La rappresentazione fotografica infatti non ha alcun valore senza il supporto materiale che contiene l’originale. È solo con quest’ultimo che si può avere la certezza della effettiva genuinità della stampa.

Nel caso di specie, il giudice del merito, in assenza del supporto, aveva deciso di non acquisire in giudizio la trascrizione della chat WhatsApp intercorsa tra l’imputato del reato di stalking e la parte offesa, che la difesa dell’imputato voleva versare agli atti del processo per provare l’inattendibilità della persona offesa.

Quando la chat su WhatsApp diventa prova

Sono ormai numerose le sentenze che riconoscono al messaggio di WhatsApp il valore di prova. In alcuni casi, peraltro, non è stato neanche necessario acquisire la riproduzione o lo smartphone non essendo contestato l’invio o il ricevimento del messaggio. Uno di questi casi è quello del licenziamento [3]. Se, ad esempio, un’azienda invia un licenziamento a un proprio dipendente tramite sms o WhatsApp e quest’ultimo, nei 60 giorni successivi, invia la lettera di contestazione non fa altro che ammettere il ricevimento del messaggio che, in definitiva, non potrà più essere contestato. Insomma il comportamento tenuto dalle parti dopo la conversazione può servire a confermare il testo della chat.

FONTE

[1] Trib. Milano, sent. del 24.10.2017.

[2] Cass. sent. n. 49016/2017.

[3] Trib. Catania, ord. del 27.06.2017.

Pensione riforma quota 100 e 41, come funziona

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Controriforma Stop Fornero: requisiti per la pensione anticipata quota 100 e quota 41, come si calcola il trattamento.

Inizia a delinearsi la controriforma Stop Fornero: così è stata ribattezzata la nuova normativa finalizzata ad abolire la legge Fornero [1], che prevede l’introduzione di due nuove tipologie di pensione, la pensione anticipata quota 100 e quota 41. Più passa il tempo, però, più le novità si fanno meno incisive, soprattutto perché ci si è resi conto che le risorse a disposizione per anticipare l’uscita dal lavoro sono piuttosto esigue. Così, la pensione anticipata quota 100 si potrà ottenere solo con un minimo di 64 anni di età e 36 anni di contributi, previo ricalcolo contributivo dei periodi dal 1996 in poi; la pensione anticipata quota 41, invece, potrà essere ottenuta soltanto con 41 anni e 6 mesi di contributi. Ma facciamo subito il punto della situazione e vediamo in merito alla pensione riforma quota 100 e 41, come funziona, quali sono i requisiti previsti per ottenerla e come si calcola il trattamento.

Che cos’è la quota?

Prima di illustrare i requisiti necessari ad ottenere la pensione anticipata con quota 100 e quota 41, dobbiamo capire che cos’è la quota. Per quota si intende la somma dell’età pensionabile e degli anni di contributi: ad esempio, se il lavoratore ha 60 anni di età e 35 anni di contributi, la sua quota è 95.

E se il lavoratore ha, poniamo, 60 anni e 6 mesi di età e 35 anni e 3 mesi di contributi? In questo caso, bisogna trasformare i mesi in decimali, o meglio i dodicesimi in decimi. Ecco che, allora, 60 anni e 6 mesi diventano 60,5 (perché 6 dodicesimi sono uguali a 5 decimi), e 35 anni e 3 mesi di contributi diventano, ai fini della quota, 35,25. Quindi il lavoratore con 60 anni e 6 mesi di età e 35 anni e 3 mesi di contributi possiede la quota 95,75, arrotondando 95,8.

Quali sono i requisiti per la pensione quota 100?

In base a quanto osservato in merito al calcolo della quota, raggiungere la quota 100 sembrerebbe abbastanza semplice: se il lavoratore ha 60 anni di età può pensionarsi con 40 anni di contributi, se ne ha 61 con 39 anni, se ne ha 62 con 38 e così via…E invece no. Secondo le più recenti proposte, per raggiungere la pensione anticipata quota 100 non basterà la quota 100, ma saranno necessari anche un’età minima pari a 64 anni e un minimo di 36 anni di contributi.

Come si calcola la pensione quota 100?

Il limite relativo all’età ed il tetto minimo di anni di contributi, ad ogni modo, non sono sufficienti per rendere sostenibili le nuove pensioni rispetto alle risorse disponibili. Per questo motivo, nelle più recenti proposte è stato previsto il ricalcolo contributivo della pensione quota 100, per le annualità che partono dal 1996.

Non un calcolo contributivo dell’intero trattamento, dunque, ma un calcolo parziale, delle sole quote di pensione dal 1° gennaio 1996 in poi. Questa novità non cambierà nulla per quei contribuenti che hanno diritto al calcolo misto della pensione (retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, in quanto possiedono meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), ma potrebbe portare delle penalizzazioni tutt’altro che irrilevanti per chi, possedendo almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, ha diritto al calcolo retributivo della prestazione sino al 31 dicembre 2011.

Perché il calcolo contributivo è penalizzante?

Nella generalità dei casi, il calcolo contributivo della pensione risulta penalizzante, rispetto al calcolo retributivo, perché, mentre quest’ultimo si basa sugli ultimi redditi, o sui redditi migliori, il caloclo contributivo si basa sui contributi effettivamente accreditati nell’arco della vita lavorativa. Nel calcolo retributivo si prendono in considerazione gli stipendi, che vengono rivalutati con appositi coefficienti, mentre col calcolo contributivo si prendono in considerazione i soli contributi, che vengono rivalutati secondo l’andamento del Pil italiano (quindi gli incrementi del capitale sono molto bassi).

Tuttavia, ci sono dei casi in cui conviene maggiormente il calcolo contributivo, rispetto al retributivo: questo accade, ad esempio, quando la gestione Inps presso cui è iscritto il lavoratore prende in considerazione non i redditi migliori, ma gli ultimi anni di reddito o retribuzione, e la media delle ultime retribuzioni crolla al termine della vita lavorativa.

Quali sono i requisiti per la pensione quota 41?

La pensione quota 41, ad oggi, esiste già, ma è riservata ai lavoratori precoci, cioè a coloro che possiedono almeno 12 mesi di contributi da effettivo lavoro versati prima del compimento del 19° anno di età. Inoltre, per ottenere la pensione anticipata quota 41 bisogna appartenere a una delle seguenti categorie tutelate: disoccupati di lungo corso, caregiver (che curano un familiare convivente disabile sino al 2° grado), invalidi dal 74%, addetti ai lavori gravosi, addetti ai lavori usuranti.

Questa pensione anticipata è chiamata quota 41 impropriamente: 41, difatti, sono gli anni di contributi richiesti per pensionarsi, non si tratta della somma di età e contribuzione (altrimenti si potrebbe, ad esempio, andare in pensione a 30 anni con 11 anni di contributi!).

Secondo la normativa attuale, questa pensione potrà essere ottenuta anche nel 2019 e negli anni a venire, previa disponibilità delle risorse: tuttavia, dal 1° gennaio 2019 il requisito previsto salirà a 41 anni e 5 mesi di contributi.

Il nuovo governo vorrebbe estendere la pensione anticipata quota 41 dapprima agli appartenenti alle categorie tutelate che non sono lavoratori precoci, poi a tutti i lavoratori. Si vorrebbe però innalzare il requisito a 41 anni e 6 mesi di contributi.

Non sarebbe previsto alcun ricalcolo contributivo per ottenere la pensione anticipata quota 41, come avviene oggi.

FONTE

[1] Dl 201/2011.

Cartelle sotto 100mila euro cancellate?

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Condono per chi ha debiti non superiori a centomila euro con l’ex Agente della riscossione Equitalia.

È l’idea di Matteo Salvini: chiudere subito tutte le cartelle esattoriali di Equitalia per cifre inferiori ai 100 mila euro, per liberare milioni di italiani incolpevoli ostaggi e farli tornare a lavorare, sorridere e pagare le tasse». Il riferimento è quindi a chi ha già contratto debiti con l’ex Agente della Riscossione e ancora non è riuscito a pagarli, nonostante le due rottamazioni. Un condono insomma, ribatte la sinistra. Salvini ama invece chiamarla «pace fiscale». Di coperture però non è stato parlato.

Di Maio ribatte «Bisogna abolire il sistema Equitalia di nome e di fatto» forse dimenticando che Equitalia non esiste più già da circa un anno. 

Il Ministro ha poi aggiunto «Dodicimila evasori totali sconosciuti al fisco e grandi evasori che hanno rubato una media di 2 milioni di euro a testa – ha detto – onore alla Guardia di Finanza che li ha scovati, ora tocca al governo ridurre le tasse e semplificare il sistema fiscale».

Chi sono gli italiani graziati dalla sanatoria?

La platea interessata dalla proposta del ministro degli interni è enorme: ben il 94% dei crediti fiscali dello Stato, notificati già ai contribuenti, è al di sotto di centomila euro. Il che significa che quasi tutti i contribuenti che hanno ancora un debito aperto con l’erario saranno graziati. 

«Chiudere da subito tutte le cartelle esattoriali di Equitalia per cifre inferiori ai 100 mila euro»

I crediti di Equitalia, lo ricordiamo, sono ormai passati ad Agenzia Entrate Riscossione che – bisogna ammetterlo – non ha dimostrato tentennamenti nel riprendere le azioni che aveva già intrapreso il suo predecessore nella riscossione. La proposta di Salvini ha quindi destato il massimo interesse in molti contribuenti che, in passato, non hanno pagato le cartelle esattoriali. 

Cosa comporta la nuova pace fiscale?

Per il momento si tratta di una semplice affermazione. Sembrerebbe tuttavia che il Governo voglia aprire le porte non a una nuova rottamazione, ma a una vera e propria sanatoria, un’abolizione del debito o qualcosa di molto simile. Bisognerà vedere i successivi sviluppi per comprendere cosa intende Salvini. E soprattutto comprendere che impatto avrà questa affermazione sulle rottamazioni in corso che potrebbero a questo punto essere ritenute non più convenienti e abbandonate dai contribuenti.

D’accordo con Salvini sulla necessità di «un approccio fondato sulla semplificazione fiscale, sulla buona fede e sulla cooperazione tra le parti» è il Comandante generale della Guardia di Finanza, Giorgio Toschi, che ieri nel corso dei festeggiamenti del Corpo ha rimarcato l’impegno della Gdf nel «sostenere convintamente il cambiamento nei rapporti tra amministrazione finanziaria e contribuente». In sostanza occorre intervenire per «favorire l’adeguamento spontaneo e ridurre al minimo, dove possibile, l’invasività dei controlli».

FONTE

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