Come sarà la riforma delle pensioni

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In pensione a 62 anni con quota 100, oppure con 41 anni e 6 mesi di contributi a prescindere dall’età. Proroga della pensione contributiva per le donne, con 57 anni d’età e 35 anni di contributi; possibile anche la proroga dell’Ape sociale,  e un’ulteriore proroga per gli esodati, che potranno continuare a pensionarsi alle condizioni precedenti alla Legge Fornero, con i soli adeguamenti alla speranza di vita. Diventerà finalmente operativo anche il reddito di cittadinanza, dapprima come pensione minima di cittadinanza, pari a 780 euro al mese, poi come reddito per tutti coloro che si trovano al di sotto della soglia di povertà, anche non pensionati. Sono queste le principali proposte in materia di pensioni, attese con ansia da moltissimi lavoratori che sono stati allontanati dall’uscita dal lavoro a causa delle regole vigenti dal 2012 in poi. Ma a quando la nuova riforma pensioni? Le nuove pensioni flessibili dovrebbero essere attuate con la nuova legge di bilancio, quindi dovrebbero entrare in vigore dal 2019. Il problema, perché la riforma pensionistica possa essere attuata, riguarda lo stanziamento delle risorse: i fondi che potrebbero essere stanziati per i nuovi trattamenti ammonterebbero a circa 8 miliardi di euro, e non tutti gli interventi proposti potranno essere attuati subito. Ma procediamo per ordine e cerchiamo di fare il punto della situazione: come sarà la riforma delle pensioni, che cosa cambia, chi ci guadagna.

Quota 100 e pensione di cittadinanza dal 2019

Il Governo ha deciso di fissare il rapporto deficit/Pil per il 2019 al 2,4%: saranno dunque disponibili le risorse necessarie per la riforma delle pensioni. In particolare, è sicuro che sarà realizzata la nuova pensione quota 100, anche se non si conoscono con certezza gli eventuali limiti: in base a quanto reso noto sinora, ci si potrà pensionare con quota 100 se si possiedono almeno 36 anni di contributi e sono stati compiuti 62 anni di età. Forse si eviterà il ricalcolo contributivo del trattamento: potrebbe essere applicato il ricalcolo misto, per coloro che avrebbero diritto al sistema retributivo sino al 31 dicembre 2011, oppure potrebbe essere applicata una penalizzazione percentuale, pari all’1,5% per ogni anno di anticipo nell’uscita dal lavoro rispetto all’età pensionabile (67 anni, dal 2019).

Nulla di certo, invece, sulla cosiddetta pensione quota 41 e 6 mesi, cioè sulla possibilità di raggiungere la pensione anticipata con 41 anni e 6 mesi di contributi: forse l’intervento sarà rinviato al 2020.

Via libera, invece, alla pensione minima di cittadinanza: grazie al reddito di cittadinanza, difatti, tutte le pensioni basse saranno integrate sino alla cifra di 780 euro mensili.

Pensione anticipata quota 100

La più attesa, tra le nuove pensioni, è la pensione anticipata quota 100. Questa pensione prevede la possibilità di uscire dal lavoro quando la quota, cioè la somma di età e contribuzione posseduta dal lavoratore, è pari a 100. Non tutti coloro la cui quota è pari a 100, comunque, potranno pensionarsi con la quota 100, ma potrà ottenere il trattamento, in base alle più recenti proposte sinora rese note, solo chi possiede un requisito di età minimo pari a 62 anni.

Un’ulteriore proposta prevedeva invece un requisito minimo di età pari a 64 anni e di contribuzione pari a 36 anni.

Era stata proposta anche la cosiddetta quota 100 selettiva, cioè riservata a specifiche categorie di lavoratori, come gli esuberi, ma senza limiti di età o legati agli anni di contributi posseduti.

Il ministro Salvini ha recentemente dichiarato che la quota 100, inizialmente, potrà soltanto prevedere il “paletto” dell’età minima pari a 62 anni; entro un triennio sarà estesa a tutti, senza limiti di età.

Come si calcola la quota 100?

Per quanto riguarda il calcolo della pensione quota 100, nelle più recenti proposte è stato previsto il ricalcolo contributivo, per le annualità che partono dal 1996. Non si tratta di un calcolo contributivo dell’intero trattamento, dunque, ma di un calcolo parziale, delle sole quote di pensione dal 1° gennaio 1996 in poi. Questa novità non cambierà nulla per quei contribuenti che hanno diritto al calcolo misto della pensione (retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, in quanto possiedono meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995), ma potrebbe portare delle penalizzazioni tutt’altro che irrilevanti per chi, possedendo almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995, ha diritto al calcolo retributivo della prestazione sino al 31 dicembre 2011.

Nella generalità dei casi, il calcolo contributivo della pensione risulta infatti penalizzante, rispetto al calcolo retributivo, perché, mentre quest’ultimo si basa sugli ultimi redditi, o sui redditi migliori, il calcolo contributivo si basa sui contributi effettivamente accreditati nell’arco della vita lavorativa. Nel calcolo retributivo si prendono in considerazione gli stipendi, che vengono rivalutati con appositi coefficienti, mentre col calcolo contributivo si prendono in considerazione i soli contributi, che vengono rivalutati secondo l’andamento del Pil italiano (quindi gli incrementi del capitale sono molto bassi).

Tuttavia, ci sono dei casi in cui conviene maggiormente il calcolo contributivo, rispetto al retributivo: questo accade, ad esempio, quando la gestione Inps presso cui è iscritto il lavoratore prende in considerazione non i redditi migliori, ma gli ultimi anni di reddito o retribuzione, e la media delle ultime retribuzioni crolla al termine della vita lavorativa.

Una differente proposta prevede il calcolo integralmente contributivo della pensione per chi richiederà la quota 100: in questo caso la convenienza del trattamento sarebbe effettivamente molto limitata, ma la quota 100 risulterebbe meno impattante sia come numero di domande di pensione, sia per quanto riguarda gli assegni da stanziare.

Pensione anticipata quota 41 anni e 6 mesi

Un’altra proposta prevede la possibilità di ottenere la pensione con 41 anni e 6 mesi di contributi, senza limiti di età: si tratta della cosiddetta pensione anticipata quota 41 e 6 mesi (il termine quota è utilizzato impropriamente, perchè con 41 anni e 6 mesi si indica il solo requisito contributivo).

Ad oggi, la possibilità di ottenere la pensione con 41 anni di contribuzione esiste già, ma è riservata ai lavoratori precoci appartenenti a categorie svantaggiate.

I lavoratori precoci sono coloro che possiedono almeno 12 mesi di contributi versati prima del 19° anno di età, che possono ottenere la pensione anticipata con 41 anni di contributi, se appartengono a una delle categorie salvaguardate: disoccupati, invalidi in misura almeno pari al 74%, caregiver (coloro che assistono, da almeno 6 mesi, un familiare entro il 2° grado convivente, con handicap grave) e addetti ai lavori gravosi e usuranti.

Per ciascuna di queste categorie sono previsti dei requisiti specifici, al fine di ottenere la pensione anticipata precoci. Per chi perfeziona i requisiti richiesti entro il 31 dicembre 2018, c’è tempo sino al 1° marzo 2019 per inviare la domanda, anche se potranno essere prese in considerazione domande tardive sino al 30 novembre 2019. Per chi perfeziona i requisiti richiesti entro il 31 dicembre 2019, ci sarà tempo sino al 1° marzo 2020 per inviare la domanda, e resterà aperta la valutazione delle domande tardive sino al 30 novembre 2020, e così via, di anno in anno, in quanto il beneficio è strutturale. Dal 1° gennaio 2019 i requisiti aumenteranno in misura pari a 5 mesi.

Con la nuova pensione anticipata quota 41 e 6 mesi, si punta ad estendere il trattamento a tutti i lavoratori, anche non precoci e non appartenenti alle categorie svantaggiate.

Pensione di cittadinanza

Sul reddito di cittadinanza non si torna indietro, ma l’intervento sarà attuato in due fasi: dal 2019, tutte le pensioni basse si trasformeranno in pensione di cittadinanza ed aumenteranno a 780 euro al mese; successivamente, tutti i cittadini senza redditi, o con redditi sotto la soglia di povertà, avranno diritto al reddito di cittadinanza da 780 euro al mese. L’attuazione in due fasi non è dovuta all’assenza di risorse, come chiarito dalla viceministro all’Economia Laura Castelli, ma alla necessaria riforma dei centri per l’impiego, che richiederà circa 4 mesi di tempo. Senza la riforma dei centri per l’impiego, riconoscere il reddito di cittadinanza non sarebbe possibile, in quanto il sussidio è subordinato all’adesione, da parte dei beneficiari, a misure di politica attiva del lavoro. I disoccupati, in pratica, dovranno impegnarsi, supportati dai centri per l’impiego riformati, nella ricerca attiva di lavoro, nella frequenza di corsi di formazione e dovranno lavorare per 8 ore alla settimana a favore del Comune di residenza.

Quest’impegno non è invece richiesto per la pensione di cittadinanza, in quanto la misura interessa i soli pensionati, non più in età lavorativa. La pensione di cittadinanza dovrebbe sostituire sia l’integrazione al trattamento minimo, che ad oggi ammonta a 507,42 euro al mese, che le maggiorazioni sulla pensione, come la maggiorazione sociale e l’incremento al milione: considerando che ad oggi la pensione minima, comprensiva di integrazione al trattamento minimo, maggiorazione sociale e incremento al milione, può arrivare a 643,86 euro mensili, la differenza con la pensione di cittadinanza non sarebbe enorme. La misura, in ogni caso, dovrebbe essere applicata sia alle prestazioni previdenziali, come la pensione di vecchiaia o anticipata, che alle prestazioni di assistenza, come l’assegno sociale. Per approfondire: pensione di cittadinanza 2019.

Proroga opzione Donna

Uno degli interventi che si vorrebbero attuare nel 2019 consiste nella  proroga dell’opzione donna, una speciale pensione agevolata dedicata alle sole lavoratrici, che possono anticipare notevolmente l’uscita dal lavoro in cambio del ricalcolo contributivo della prestazione.

Ad oggi, per potersi pensionare con opzione donna devono essere rispettati precisi requisiti di età:

  • per le lavoratrici dipendenti, è necessario aver raggiunto 57 anni e 7 mesi di età entro il 31 luglio 2016, e 35 anni di contributi al 31 dicembre 2015; dalla data di maturazione dell’ultimo requisito alla liquidazione della pensione è prevista l’attesa di un periodo, detto finestra, pari a 12 mesi;
  • per le lavoratrici autonome, è necessario aver raggiunto 58 anni e 7 mesi di età entro il 31 luglio 2016, e 35 anni di contributi al 31 dicembre 2015; dalla data di maturazione dell’ultimo requisito alla liquidazione della pensione è prevista l’attesa di un periodo di finestra pari a 18 mesi.

In pratica, possono ottenere la pensione le dipendenti che hanno compiuto 57 anni e le autonome che hanno compiuto 58 anni entro il 31 dicembre 2015, se possiedono 35 anni di contributi entro la stessa data.

Con la proroga dell’opzione donna si vorrebbe far diventare strutturale questo trattamento, rendendo così possibile ottenere la pensione per tutte le lavoratrici con un minimo di 57 anni e 7 mesi (o 58 anni e 7 mesi) di età, eventualmente adeguabili all’aspettativa di vita, e 35 anni di contributi.

Alcune proposte parlano invece di un’età più elevata per accedere all’opzione donna, pari a 63 anni, ma con minori penalizzazioni legate al calcolo della pensione.

Nona salvaguardia

Tra i vari interventi previsti per il 2019, volti a limitare le conseguenze negative della Legge Fornero, è stata ipotizzata anche la proroga degli interventi di salvaguardia.

In particolare, dovrebbe essere attuata una nona salvaguardia per consentire la pensione con le vecchie regole, cioè con le regole precedenti all’entrata in vigore della Legge Fornero: di anno in anno, a partire dal 2012, data di entrata in vigore della Riforma Fornero, si sono difatti succeduti otto decreti di salvaguardia.

La nona salvaguarda dovrebbe tutelare le stesse categorie beneficiarie dell’ultima salvaguardia, ossia:

  • lavoratori in mobilità;
  • lavoratori autorizzati al versamento dei contributi volontari;
  • lavoratori cessati dal servizio;
  • lavoratori in congedo per assistere figli disabili;
  • lavoratori a termine.

Ape volontario 2019

Nel 2019 potrà ancora essere richiesto, comunque, l’Ape volontario, ossia l’anticipo pensionistico che consente l’uscita dal lavoro con 3 anni e 7 mesi di anticipo rispetto alla maturazione dei requisiti per la pensione di vecchiaia.

L’Ape volontario è ottenuto grazie a un prestito bancario, il cosiddetto prestito pensionistico, un finanziamento che deve essere restituito in 20 anni, una volta perfezionati i requisiti per la pensione.

Il trattamento è esentasse: ciò significa che l’assegno ricevuto mensilmente a titolo di Ape non ha trattenute tributarie, non essendo gravato dalle imposte.

L’Ape volontario, al contrario dell’Ape sociale, cioè all’anticipo a carico dello Stato, non è uguale alla futura pensione (con il tetto massimo di 1500 euro), ma può arrivare:

  • al 75% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’Ape è superiore a 36 mesi;
  • all’80% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’Ape è superiore a 24 e pari o inferiore a 36 mesi;
  • all’85% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’Ape è compresa tra 12 e 24 mesi;
  • al 90% dell’importo mensile del trattamento pensionistico, se la durata di erogazione dell’APE è inferiore a 12 mesi.

L’Ape volontario determina un taglio della futura pensione: la penalizzazione non è soltanto dovuta ai costi di restituzione di prestito pensionistico, ma anche all’assicurazione obbligatoria per il rischio di premorienza e al contributo per il fondo di garanzia.

Proroga Ape sociale

Non si sa ancora se potrà essere prorogato l’Ape sociale, cioè l’anticipo pensionistico a carico dello Stato. L’ultima possibilità di inviare le domande per quest’agevolazione scadeva il 15 luglio 2018, ma si possono inviare domande tardive sino al 30 novembre 2018. Per sapere quali sono i requisiti necessari per accedere all’agevolazione: Ape sociale, i requisiti.

Pensione per gli addetti ai lavori usuranti e notturni

Restano infine invariati, nel 2019, i requisiti per accedere alla pensione agevolata a favore degli addetti a mansioni usuranti e turni notturni. Questa pensione di anzianità, lo ricordiamo, si può raggiungere con un minimo di 35 anni di contributi e di 61 anni e 7 mesi di età.

Nel dettaglio, per ottenere la pensione di anzianità, è necessario che il lavoratore maturi i seguenti requisiti, validi sino al 31 dicembre 2026 (non si applicano gli adeguamenti alla speranza di vita):

  • quota pari a 97,6, con:
    • almeno 61 anni e 7 mesi d’età;
    • almeno 35 anni di contributi.

Dalla maturazione dei requisiti alla liquidazione della pensione non è più necessario attendere la cosiddetta finestra, pari a 12 mesi per i dipendenti e a 18 mesi per gli autonomi, perché è stata abolita dalla Legge di bilancio 2017.

Se l’interessato possiede anche contributi da lavoro autonomo, i requisiti sono aumentati di un anno.

Hanno diritto alla pensione d’anzianità anche i lavoratori adibiti a turni notturni, ma le quote sono differenti a seconda del numero di notti lavorate nell’anno.

Per saperne di più: Pensione addetti ai lavori usuranti ed ai turni notturni.

Pensione di vecchiaia e anticipata 2019

Dovrebbero comunque restare invariate, col solo aumento di 5 mesi dei requisiti legati alla speranza di vita, le pensioni di vecchiaia ed anticipata. Per sapere, nel dettaglio, come cambieranno i requisiti nel 2019: Pensione 2019 che cosa cambia.

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Aumento pensione: a chi spetta?

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La tua pensione è d’importo piuttosto basso e non hai altri redditi, oppure possiedi dei redditi non elevati? Potresti aver diritto all’aumento della pensione. Chi rispetta determinati requisiti, difatti, può ottenere l’incremento della pensione al trattamento minimo, cioè a un importo pari a 507,42 euro mensili (per il 20189); può inoltre avere diritto, se ha più di 60 anni, alla maggiorazione sociale della pensione, cioè a un importo aggiuntivo che serve ad aumentare mensilmente l’assegno. Per chi ha almeno 70 anni, poi, oppure ha almeno 60 anni ed è invalido, può essere prevista anche una maggiorazione aggiuntiva, l’incremento al milione; inoltre, per chi ha versato un minimo di anni di contributi, l’età a partire dalla quale si ha diritto all’aumento della maggiorazione si abbassa, dai 69 sino ai 65 anni. Ma procediamo per ordine e facciamo il punto sull’aumento pensione: a chi spetta, come funzionano il trattamento minimo, la maggiorazione sociale della pensione e il suo incremento, a quanto ammontano, quali requisiti di reddito si devono possedere per ottenere le prestazioni.

Che cos’è l’integrazione al trattamento minimo?

La generalità delle pensioni Inps d’importo basso, escluse le prestazioni calcolate col sistema contributivo, deve essere integrata al trattamento minimo. L’integrazione al trattamento minimo consiste in un aumento della pensione mensile, che viene integrata sino ad arrivare a 507,42 euro mensili (per l’anno 2018).

Chi ha diritto all’aumento della pensione al trattamento minimo?

Per ottenere l’integrazione al minimo è necessario il rispetto di precisi requisiti di reddito.

In particolare, chi non è sposato, o risulta legalmente separato o divorziato, ha diritto all’integrazione al minimo:

  • piena, se possiede un reddito annuo non superiore a 6.596,46 euro (i valori si riferiscono all’anno 2018);
  • parziale, se possiede un reddito annuo superiore a 6.596,46 euro, sino a 13.192,92 euro (cioè sino a due volte il trattamento minimo annuo).

Se il reddito supera la soglia di 13.192,92 euro, non si ha diritto ad alcuna integrazione.

Facciamo un esempio per capire meglio:

  • se il pensionato ha un reddito complessivo di 5mila euro annui ed una pensione di 200 euro mensili, ha diritto all’integrazione piena della pensione, sino ad arrivare a 507,42 euro;
  • se, invece, il reddito complessivo dell’interessato è pari a 10mila euro, l’integrazione della pensione non può essere totale, ma parziale, ossia pari alla differenza tra il limite di reddito di 13.192,92 euro ed il reddito complessivo.

Per calcolare l’integrazione mensile, si deve dunque:

  • sottrarre il reddito totale del pensionato dalla soglia limite;
  • dividere la cifra per 13.

Chi risulta sposato ha dei limiti di reddito più alti, ai fini dell’integrazione al minimo, ma deve considerare anche il reddito del coniuge. Nel dettaglio, si ha diritto all’integrazione:

  • in misura piena, se il reddito annuo complessivo proprio e del coniuge non supera 19.789,38 euro ed il reddito del pensionato non supera i 6.596,46 euro;
  • in misura parziale, se il reddito annuo complessivo proprio e del coniuge supera i 19.789,38 euro, ma non supera i 26.385,84 euro (cioè sino a quattro volte il trattamento minimo annuo) ed il reddito del pensionato non supera i 13.192,92 euro (deve essere applicato un doppio confronto, tra limite di reddito personale e coniugale: l’integrazione applicata è pari all’importo minore risultante dal doppio confronto).

Se il reddito personale e del coniuge supera i 26.385,84 euro, o se il solo reddito personale supera la soglia di 13.192,92 euro, non si ha diritto ad alcuna integrazione.

In pratica, anche per chi è sposato si deve, per calcolare l’integrazione mensile, sottrarre il reddito totale dalla soglia limite e dividere la cifra per 13, ma bisogna fare attenzione alla doppia soglia: se il reddito della coppia non supera i 26.385,84, ma il reddito del pensionato supera il limite individuale di 13.192,92 euro, non si ha diritto ad alcuna integrazione.

Va in ogni caso applicata l’integrazione minore risultante dal confronto tra limite e reddito della coppia e limite e reddito personale.

Nessun limite collegato al reddito del coniuge, invece, può essere applicato alle integrazioni al minimo per le pensioni con decorrenza anteriore al 1994.

Quali redditi contano per l’aumento della pensione al trattamento minimo?

Non tutti i redditi, ad ogni modo, devono essere inclusi nella soglia limite per il diritto all’aumento della pensione al trattamento minimo, in quanto sono esclusi:

  • il reddito della casa di abitazione;
  • la pensione da integrare al minimo;
  • il Tfr ed i trattamenti assimilati (Tfs, Ips), comprese le relative anticipazioni;
  • i redditi esenti da Irpef, come le pensioni di guerra, le rendite Inail, le pensioni degli invalidi civili, i trattamenti di famiglia, etc.

Tutti gli altri redditi, invece, devono essere inclusi nel conteggio.

Che cosa sono la maggiorazione sociale e l’incremento al milione?

La maggiorazione sociale, che spetta dai 60 anni in poi, è un aumento della pensione previsto dalla nota legge del 1988 sull’elevazione dei livelli dei trattamenti sociali e miglioramenti delle pensioni [1], mentre l’incremento della maggiorazione o incremento al milione, un ulteriore aumento della pensione, è stato introdotto dalla finanziaria del 2002 a favore dei pensionati al di sopra dei 70 anni [2]. Si tratta, in parole semplici, di importi aggiuntivi sulla pensione spettanti a chi, al di sopra di una certa età, possiede un assegno mensile basso e dei redditi non elevati. Sia la maggiorazione che il suo incremento, essendo operativi da parecchio tempo, sono stati adeguati negli anni. Gli invalidi possono richiedere l’incremento già dal compimento del 60° anno di età; per chi possiede almeno 5 anni di contributi, poi, l’età a partire dalla quale chiedere l’incremento al milione scende.

Chi ha diritto all’aumento della pensione con maggiorazione sociale?

Si ha diritto alla “semplice” maggiorazione sociale, senza incremento, della pensione a partire dal compimento del 60° anno di età. La maggiorazione non spetta ai titolari di qualsiasi pensione, ma soltanto a coloro la cui prestazione è pagata da un fondo facente capo all’Inps (assicurazione generale obbligatoria, che comprende il fondo pensione lavoratori dipendenti, la gestione degli artigiani, quella dei commercianti e dei coltivatori, gestioni esclusive e sostitutive), ad esclusione degli iscritti alla gestione Separata. Sono esclusi anche gli iscritti alle casse dei liberi professionisti, che però possono aver diritto ad agevolazioni differenti, secondo il regolamento del proprio ente previdenziale. Per l’aumento della pensione con maggiorazione sociale si devono possedere precisi requisiti di reddito.

Chi ha diritto all’incremento della maggiorazione sociale?

L’incremento della maggiorazione, o incremento al milione (si chiama così perché, in origine, era finalizzato a far raggiungere al pensionato, tra integrazione al minimo, maggiorazione e incremento, un trattamento pari a un milione di lire), indipendentemente dai contributi versati, spetta ai pensionati di età pari o superiore a 70 anni (over 70). Per i pensionati di età compresa fra 65 e 70 anni, l’età anagrafica a partire dalla quale si ha diritto all’incremento è ridotta in relazione agli anni di contributi versati, sino a un minimo di 65 anni di età, come spiegato più avanti. Bisogna inoltre possedere un reddito non superiore a determinati limiti.

Nel dettaglio, l’incremento spetta:

  • agli invalidi civili totali, ai sordomuti o ai ciechi civili assoluti, titolari di pensione ordinaria o di inabilità; per i titolari di pensione di inabilità, gli invalidi civili totali, i sordomuti e i ciechi civili assoluti l’età per poter ottenere l’incremento della maggiorazione sociale si riduce a 60 anni;
  • ai titolari di assegno sociale;
  • ai titolari di pensione sociale (o della sola maggiorazione della pensione sociale);
  • ai titolari di pensione dei fondi esclusivi e sostitutivi dell’assicurazione generale obbligatoria;
  • ai titolari di pensione a carico dell’assicurazione generale obbligatoria dei lavoratori dipendenti e dei lavoratori autonomi (artigiani, commercianti, coltivatori diretti, mezzadri e coloni);
  • ai titolari di pensione della gestione speciale per i lavoratori delle miniere, cave e torbiere.

Il limite anagrafico per l’incremento, come anticipato, può essere ridotto fino a 65 anni: in pratica, il requisito di 70 anni di età si riduce nella misura di un anno ogni 5 anni di contribuzione.

A quale età si ha diritto all’aumento della pensione con incremento al milione?

Come abbiamo osservato, per l’incremento al milione è necessario un minimo di 70 anni di età, ma il requisito si riduce a seconda degli anni di contributi posseduti. In particolare, per richiedere l’incremento al milione bastano:

  • 69 anni età, se si possiedono almeno 5 anni di versamenti;
  • 68 anni età se si possiedono almeno 10 anni di versamenti;
  • 67 anni età se si possiedono almeno 15 anni di versamenti;
  • 66 anni età se si possiedono almeno 20 anni di versamenti;
  • 65 anni età se si possiedono almeno 25 anni di versamenti.

Si può ottenere la riduzione di un anno anche se si è in possesso di un periodo di contribuzione non inferiore a 2 anni e mezzo: ad esempio, se l’interessato ha almeno 2 anni e 6 mesi di contribuzione la maggiorazione può essere concessa a 69 anni, con almeno 7 anni e 6 mesi di contributi a 68 anni, con almeno 12 anni e 6 mesi a 67 anni e così via.

Qual è l’aumento della pensione per maggiorazione sociale?

La maggiorazione sociale, per l’anno 2018, è pari a:

  • 25,83 euro al mese per coloro che hanno dai 60 ai 64 anni;
  • 82,64 euro al mese per chi ha un’età tra i 65 e i 69 anni.

Qual è l’aumento della pensione per incremento al milione?

L’incremento della maggiorazione sociale, il cosiddetto incremento al milione, consente invece di arrivare a una prestazione mensile sino a 643,86 euro (per l’anno 2018).

L’incremento al milione, comprensivo della eventuale maggiorazione sociale, non può superare l’importo mensile determinato dalla differenza fra l’importo di 643,86 euro (per l’anno 2018) e l’importo del trattamento minimo, o della pensione sociale o, ancora, dell’assegno sociale.

In pratica, nel 2018 l’incremento della maggiorazione sociale è pari a:

  • 136,44 euro al mese per i titolari di pensione;
  • 190,86 euro al mese per i titolari di assegno sociale;
  • 270,53 euro al mese per i titolari della vecchia pensione sociale.

L’incremento, al pari delle altre maggiorazioni, è corrisposto per 13 mensilità.

Quali sono i limiti di reddito per la maggiorazione sociale e l’incremento?

Se il pensionato non è coniugato e il suo limite di reddito non supera il trattamento minimo, pari a 507,42 euro mensili e 6.596,46 euro annui (considerando 13 mensilità; i valori si riferiscono all’anno 2018) ha diritto alla maggiorazione sociale o (sussistendone i requisiti) all’incremento al milione in misura intera (se percepisce anche la quattordicesima, l’incremento si abbassa di conseguenza).

La maggiorazione sociale o l’incremento sono invece riconosciuti in misura parziale se il reddito annuo proprio supera il trattamento minimo, ma non supera l’importo dato dalla somma del trattamento minimo annuo con l’ammontare annuo dell’incremento o della maggiorazione.

In buona sostanza, per il 2018 l’integrazione è parziale:

  • per chi percepisce la sola maggiorazione sociale, se non supera:
    • 6932,25 euro annui di reddito, se ha da 60 a 64 anni;
    • 7670,78 euro annui di reddito, se ha da 65 a 69 anni;
  • per chi percepisce l’incremento della maggiorazione sociale, se non supera 8.370,18 euro di reddito annuo.

Quali sono i limiti di reddito per la maggiorazione sociale e l’incremento per chi è sposato

Se il pensionato è sposato (non legalmente ed effettivamente separato), ha diritto alla maggiorazione o all’incremento in misura intera se, oltre a rispettare i limiti di reddito personale, il reddito coniugale non supera l’importo dato dalla somma del trattamento minimo annuo con l’ammontare annuo dell’assegno sociale.

La maggiorazione sociale o l’incremento per i coniugati sono invece riconosciuti in misura parziale:

  • se il reddito annuo proprio supera il trattamento minimo, ma non supera l’importo dato dalla somma del trattamento minimo annuo con l’ammontare annuo dell’incremento o della maggiorazione;
  • in riferimento al reddito coniugale, questo non deve superare l’importo dato dalla somma del trattamento minimo annuo con l’ammontare annuo dell’assegno sociale e dell’incremento o della maggiorazione.

Nel dettaglio, per gli sposati, l’integrazione è totale se il reddito coniugale non supera 12.485,46 euro annui (5.889 euro, pari all’assegno sociale, 453 euro al mese, per 13 mensilità, più 13 mensilità di trattamento minimo, pari a 6.596,46 euro); l’integrazione, invece, è parziale:

  • per chi percepisce la sola maggiorazione sociale, se non supera:
    • 12821,25 euro annui di reddito coniugale, se ha da 60 a 64 anni;
    • 13559,78 euro annui di reddito coniugale, se ha da 65 a 69 anni;
  • per chi percepisce l’incremento della maggiorazione sociale, se non supera 14.259,18 euro di reddito annuo coniugale.

Devono, come già esposto, applicarsi anche i limiti di reddito personale già osservati: in pratica, opera un doppio limite, relativo al reddito personale e coniugale, oltre a un ulteriore “paletto”, che comporta, nel caso in cui non si raggiunga la soglia massima data dalla somma tra limiti minimi e incremento o maggiorazione, la corresponsione dell’integrazione per differenza, fino al raggiungimento della soglia massima.

fonte

[1] L.544/1988

[2] L.448/2001

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