Il Burkina Faso è uno stato dell’Africa Occidentale sub sahariana, è una ex(?) colonia francese. I burkinabè vivono essenzialmente di agricoltura (83% del PIL) ed è una terra ricchissima di oro.
I giacimenti di oro vengono minati da grandi multinazionali (perlopiù francesi) che drenano l’oro verso la Svizzera. Le multinazionali sfruttano il lavoro locale (a bassissimo costo) e la Francia guadagna in ogni esportazione grazie alla moneta coloniale Franco CFA, una moneta controllata direttamente dalla Banque de France e garantita dal Tesoro Francese che incassa circa il 70% dei depositi nelle esportazioni.
Una forma di vero e proprio signoraggio usuraio nei confronti di un paese. Non solo: le miniere d’oro provocano la desertificazione dei terreni a discapito dell’agricoltura, unica fonte di sussistenza interna, a causa del massiccio utilizzo d’acqua. Per non parlare dei rifiuti tossici e dell’inquinamento ambientale che viene provocato dalla chimica delle tecniche estrattive.
I minatori del Burkina Faso sono spesso bambini sotto i 10 anni, abbastanza piccoli da potersi infilare nei cunicoli minerari per ‘grattare’ il metallo prezioso. I bambini fanno uso di anfetamine per non sentire dolore e anestetizzare la fame. Questo è solo uno dei tantissimi esempi di sfruttamento neocoloniale francese di una terra africana, che avviene nell’anno domini 2018, con Macron che si permette di dare lezioni umanitarie sui migranti, ovvero su quei giovani che fuggono dai lager che i francesi hanno instaurato nei loro paesi d’origine, nella speranza di raggiungere la madrepatria che però li respinge a Ventimiglia.
Il paradosso del colonialismo usuraio francese è che una terra ricca come il Burkina Faso venga impoverita a causa dei suoi giacimenti auriferi.
Hanno 15, 10 o persino sette anni. E scavano con le mani anche a venti metri di profondità, a caccia di qualche milligrammo da vendere per pochi euro
DI LISA ZANCANER
Dabal sorride mentre esce da una buca profonda 20 metri, è soddisfatto anche se oggi non ha trovato nemmeno un grammo d’oro. Dabal ha 15 anni. Puntuale alle 8 del mattino arriva alla miniera, una delle tante sparse nella savana del Burkina Faso nell’Africa subsahariana, un Paese che continua a sprofondare nella miseria tra colpi di Stato militari, corruzione e instabilità politica, terreno fertile per i terroristi di Boko Haram che negli ultimi anni hanno allargato i loro confini geografici attraversando la Nigeria e il Niger fino al Nord del Burkina al confine con il Mali. Poco distanti dalle organizzate miniere professionali, business riservato ai paesi dell’Occidente, queste miniere artigianali spuntano tra un villaggio e l’altro, non ci sono macchinari per estrarre il prezioso metallo, solo braccia che scavano, secchi e corde per farsi calare nelle buche che sembrano fosse da cimitero e a volte lo diventano, quando la stagione delle piogge li coglie all’improvviso e alcuni non ritornano in superficie.
«Siamo io, i miei genitori e 5 fratelli». racconta il giovane Dabal Moussa, «mia madre e mio padre lavorano i campi», ma in Burkina la terra da coltivare quasi non c’è. Qualche ettaro seminato a miglio e raccolti sempre più scarsi, mentre qui chi trova l’oro se lo tiene e lo può vendere. I compratori non mancano, controllano il lavoro, stabiliscono i prezzi e pagano in contanti. Uno di loro si avvicina incuriosito dalla presenza dei bianchi nella miniera di Nebià e ci mostra un sassolino d’oro che non supera i due millimetri di diametro. «Si scavano buche che arrivano anche a 30 metri di profondità e l’oro c’è» assicura. Chi lo trova si rivolge a lui per venderlo in giornata e incassare il contante, quando gli affari vanno bene. Accanto alle “fosse” già scavate Jacques, poco meno di vent’anni, si aggira sul terreno con un metal detector artigianale quanto la miniera. A pochi metri dalla porzione di terra ispezionata da Jacques da una buca emerge uno degli “specialisti”. Il tempo di vedere la luce del giorno per calarsi subito nel buio della terra rossa da cui si scorge ormai solo il suo pollice alzato, segno che un secchio è pronto per essere vuotato in superficie e ricalato con una corda sfilacciata al limite della tenuta. Come Dabal, tanti piccoli cercatori d’oro, i bambini del buio del Burkina Faso lavorano senza sosta, senza cibo né acqua.
Verso sera, quando le miniere si svuotano, Dabal trascina i piedi sporchi alla scuola coranica, magari con l’equivalente di sei euro in tasca, una piccola fortuna, una pagliuzza d’oro per sfamare una famiglia numerosa, una delle tante nel Paese degli uomini integri, ex Alto Volta che il 4 agosto 1984 cambiò nome grazie all’allora presidente rivoluzionario Thomas Sankara, assassinato tre anni dopo durante un colpo di Stato organizzato dall’ex compagno d’armi Blaise Compaoré. Chiamato il “Che Guevara nero”, Sankara fu messo a tacere dopo il suo ultimo discorso ufficiale che risvegliava la coscienza del popolo africano, sostenendo le ragioni degli ultimi. “Parlo anche in nome dei bambini. Di quel figlio di poveri che ha fame e guarda furtivo l’abbondanza accumulata in una bottega dei ricchi. Il negozio è protetto da una finestra di spesso vetro; la finestra è protetta da inferriate; queste sono custodite da una guardia con elmetto, guanti e manganello, messa là dal padre di un altro bambino che può, lui, venire a servirsi, o piuttosto, essere servito, giusto perché ha credenziali garantite dalle regole del sistema capitalistico”, diceva Sankara. Che non ebbe il tempo di migliorare la condizione dei bambini burkinabè che oggi scavano a mani nude nelle miniere della brousse, in un Paese devastato dalla corruzione e dalla fame dove il tasso di alfabetizzazione arriva al 36 per cento appena.
Poco distante da Dabal, Alice maneggia abilmente una terrina di plastica facendola roteare alla ricerca di un milligrammo d’oro, una briciola quasi invisibile. Alza lo sguardo, due occhi neri e profondi come le buche della miniera fissano i nasara – così vengono chiamati i bianchi – poi ricomincia a far roteare la terrina corrosa dal mercurio e dal cianuro, i veleni usati dai bambini per lavare l’oro, anche se i giovani minatori negano l’utilizzo di queste sostanze. Ignari, forse, di inalare un metallo pesante potenzialmente letale. Ma tutto questo Alice non lo sa: in fondo ha soltanto sette anni, non parla francese, non sa nemmeno come sia fatto un banco di scuola, non ci è mai andata. Lavora alla miniera dalla mattina alla sera, magra e sporca sembra un’orfana assoldata come manovalanza da chi controlla quel lembo di savana poco distante dal villaggio di Dassà. Ma a Nebià ci arriva con la madre che zappa la terra, dove sarà scavata una nuova buca, e due sorelle più piccole.
Alice è già stanca a metà giornata, ricoperta di polvere e affamata.
In certi momenti lancia uno sguardo alla bottiglia vuota, vorrebbe bere un sorso d’acqua, ma con i suoi sette anni sa che quell’acqua non è destinata a lei, sa che il desiderio di placare la sua sete e alleviare la gola arsa non può valere quanto i 15 mila franchi Cefa di un grammo d’oro, poco più di 20 euro, una piccola fortuna che può emergere dalla sua terrina.
Attraversando la miniera di Nebià se ne incontrano a decine di bambini e ragazzi in cerca del prezioso oro, analfabeti senza futuro né prospettive, convinti che basti tenere tra le mani qualche grammo del brillante minerale per assicurarsi una vita dignitosa, lontana dalla fame e dalla miseria, condizioni in cui la maggior parte dei bambini del buio continueranno invece a vivere ma ancora non lo sanno, i loro occhi innocenti brillano di una speranza che si riflette nella polvere dorata.
Lasciando le miniere di Nebià, ai più grandi si augura buona fortuna e ai più piccoli si allunga quasi con vergogna una manciata di caramelle in attesa che ancora qualcosa avvenga nel Paese degli uomini integri dove già qualcuno, sommessamente, sogna la rivoluzione.