“Odio Napoli”

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“Odio Napoli” è un pensiero comune nella testa di molti.
In taluni però c’è il bisogno di ostentarlo questo pensiero, fino a stamparselo sulla maglietta.
Perché quel pensiero lo rivendica con fierezza, con orgoglio.
E uno di questi, accompagnato da 2 bambini, è andato oggi in edicola nella stazione della metropolitana di Milano, e ha trovato dall’altro lato del bancone Carlo, un ragazzo napoletano.

Carlo non ce l’ha fatta e, con educazione, gli ha detto: “non ti servo con questa maglietta addosso, non ce la faccio. Non ti giudico ma non ti servo”.

L’intelligente asintomatico ha risposto: “io da qui non mi muovo”; e allora Carlo, cordialmente, ha detto: “va bene, cambio io cassa”.

Lui, destabilizzato e ferito, ha lanciato alcuni snack dal banco all’indirizzo di Carlo, per poi allontanarsi di fretta, raggiunto dagli incolpevoli ragazzini che erano con lui.

Di quel tipo non mi interessa particolarmente; il suo odio è un suo problema. Mi dispiace solo per i 2 bambini che lo accompagnavano, ai quali non so che spiegazioni avrà mai potuto dare, e che insegnamenti stia praticando.

Sono però fiero del comportamento di Carlo; che è riuscito con eleganza ed educazione a dare una lezione di vita ad un personaggio che difficilmente la comprenderà.

Non pubblico il video che ho ricevuto perché uno dei due bambini ha la mascherina abbassata e si vede un po’ il volto. E nemmeno mi interessa sapere chi è l’intelligente asintomatico che ha collezionato questa straordinaria figura di merda.

Riporto però le parole di Carlo che, pur volendo denunciare l’ignoranza di certe persone, mi sottolinea un passaggio importante:
“con la speranza che questa cosa non generi altro odio ma faccia capire che i pregiudizi stanno rovinando il mondo. Deve passare un concetto, io ho tanti amici milanesi che voglio bene e che stimo, non bisogna fare nemmeno noi di un’erba un fascio, altrimenti restiamo piccoli come questo individuo”.

Sono d’accordo con lui. Le generalizzazioni sono sempre un problema; le subiamo noi e non è giusto farlo con altri. Registrare però un sentimento diffuso di intolleranza, stimolato artatamente da anni dai media e da una certa classe politica, fortemente responsabili, è però doveroso.
Perché questi geni sono anche il loro risultato.

Ed operare i necessari distinguo risulta tra l’altro incredibilmente facile; i novelli Feltrini e Salvini hanno una spiccata verve esibizionistica da farsi riconoscere da soli.
E se non hanno un microfono o una telecamera si stampano i loro piccoli pensieri sul petto.
Poi però incontri i Carlo che ti fanno sentire quello che sei: un essere piccolo piccolo.

Fonte

“Odio Napoli”

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“Odio Napoli” è un pensiero comune nella testa di molti.
In taluni però c’è il bisogno di ostentarlo questo pensiero, fino a stamparselo sulla maglietta.
Perché quel pensiero lo rivendica con fierezza, con orgoglio.
E uno di questi, accompagnato da 2 bambini, è andato oggi in edicola nella stazione della metropolitana di Milano, e ha trovato dall’altro lato del bancone Carlo, un ragazzo napoletano.

Carlo non ce l’ha fatta e, con educazione, gli ha detto: “non ti servo con questa maglietta addosso, non ce la faccio. Non ti giudico ma non ti servo”.

L’intelligente asintomatico ha risposto: “io da qui non mi muovo”; e allora Carlo, cordialmente, ha detto: “va bene, cambio io cassa”.

Lui, destabilizzato e ferito, ha lanciato alcuni snack dal banco all’indirizzo di Carlo, per poi allontanarsi di fretta, raggiunto dagli incolpevoli ragazzini che erano con lui.

Di quel tipo non mi interessa particolarmente; il suo odio è un suo problema. Mi dispiace solo per i 2 bambini che lo accompagnavano, ai quali non so che spiegazioni avrà mai potuto dare, e che insegnamenti stia praticando.

Sono però fiero del comportamento di Carlo; che è riuscito con eleganza ed educazione a dare una lezione di vita ad un personaggio che difficilmente la comprenderà.

Non pubblico il video che ho ricevuto perché uno dei due bambini ha la mascherina abbassata e si vede un po’ il volto. E nemmeno mi interessa sapere chi è l’intelligente asintomatico che ha collezionato questa straordinaria figura di merda.

Riporto però le parole di Carlo che, pur volendo denunciare l’ignoranza di certe persone, mi sottolinea un passaggio importante:
“con la speranza che questa cosa non generi altro odio ma faccia capire che i pregiudizi stanno rovinando il mondo. Deve passare un concetto, io ho tanti amici milanesi che voglio bene e che stimo, non bisogna fare nemmeno noi di un’erba un fascio, altrimenti restiamo piccoli come questo individuo”.

Sono d’accordo con lui. Le generalizzazioni sono sempre un problema; le subiamo noi e non è giusto farlo con altri. Registrare però un sentimento diffuso di intolleranza, stimolato artatamente da anni dai media e da una certa classe politica, fortemente responsabili, è però doveroso.
Perché questi geni sono anche il loro risultato.

Ed operare i necessari distinguo risulta tra l’altro incredibilmente facile; i novelli Feltrini e Salvini hanno una spiccata verve esibizionistica da farsi riconoscere da soli.
E se non hanno un microfono o una telecamera si stampano i loro piccoli pensieri sul petto.
Poi però incontri i Carlo che ti fanno sentire quello che sei: un essere piccolo piccolo.

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30 AGOSTO 1868. UN COLPO ALLE SPALLE

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(di Nadia Verdile)

Michelina Di Cesare, uccisa nello scontro a fuoco, venne denudata insieme ai compagni uccisi con lei e fotografata. Vollero immortalarla come monito al presente ma la consegnarono all’eternità. I corpi esposti nudi al pubblico ludibrio nella piazza principale di Mignano. Sfigurata, tumefatta, forse violentata mentre moriva o subito dopo morta, fu consegnata alla storia con i denti digrignati, in una smorfia di dolore che raccontava tutto della sua vita.
Finiva così, in una notte di tempesta, alla fine di agosto, la vicenda umana, pubblica e privata, di Michelina Di Cesare, nata povera, vissuta povera, usata perché povera.
Finiva così, con una fucilata alla schiena la lotta armata di una donna che aveva sepolto i genitori, il marito, la sorella, che aveva abbandonato il figlio, che aveva ucciso, rapito, rubato, sparato.
Amato.
Finiva così il sogno di giustizia e libertà di una donna nata per caso, in un paese abusato, in un Regno rubato.

Quando ho iniziato a studiare Michelina conoscevo di lei quello che avevo letto in rete. Dunque poco. Ho studiato moltissimi libri sul brigantaggio, su Michelina sempre e solo le stesse informazioni riportate nella cronaca dei documenti della polizia: scorribande, rapimenti, furti. In pratica non avevo niente, ma veramente niente, per scrivere la sua biografia, per raccontare la sua storia. Per qualche giorno ho pensato di desistere. Poi ho preso d’assalto i documenti d’archivio. Non quelli dei processi, quelli giudiziari che sono più o meno citati da tutti, ma quelli dello Stato Civile. È stato così che Michelina è venuta fuori con la sua storia familiare, quella vera che ha fatto cadere i copia e incolla che da anni si ripetono in tutte le narrazioni che la riguardano. Sbagliate le date, i dati sulla famiglia, quelli sul suo matrimonio, sbagliati i nomi. Sbagliato il rapporto di parentela con chi la tradì. L’hanno addirittura raccontata come una donna che leggeva Ivanhoe di Walter Scott mentre lei non sapeva né leggere né scrivere. Insomma, tutti hanno scritto senza mai aver letto le carte d’archivio.
Chi erano le brigantesse? Sui monti, nei boschi, alla macchia, decine e decine di giovani donne combatterono una guerra nella guerra. Alcune scelsero, altre furono costrette, altre ancora capitarono in quelle scelte senza averne consapevolezza, per mera necessità. In questo contesto si inserisce la vicenda personale e poi pubblica di Michelina Di Cesare. Ricostruire la sua vita prima del suo ingresso nella banda di Francesco Guerra sembrava quasi impossibile. Finora non si era cimentato nessuno. Le notizie pervenute raccolte in molti testi, cartacei e on line, sono spesso imprecise, errate e a volte molto fantasiose. Ho cercato di restituire verità su di lei e sulla sua famiglia, sulla sua vicenda matrimoniale e sui tempi effettivi del suo “battesimo” nel mondo dei briganti. Michelina scelse per necessità, per bisogno di libertà, per sete di giustizia e per solitudine.
Poi si innamorò, ma quella fu un’altra storia.

Fonte

30 AGOSTO 1868. UN COLPO ALLE SPALLE

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(di Nadia Verdile)

Michelina Di Cesare, uccisa nello scontro a fuoco, venne denudata insieme ai compagni uccisi con lei e fotografata. Vollero immortalarla come monito al presente ma la consegnarono all’eternità. I corpi esposti nudi al pubblico ludibrio nella piazza principale di Mignano. Sfigurata, tumefatta, forse violentata mentre moriva o subito dopo morta, fu consegnata alla storia con i denti digrignati, in una smorfia di dolore che raccontava tutto della sua vita.
Finiva così, in una notte di tempesta, alla fine di agosto, la vicenda umana, pubblica e privata, di Michelina Di Cesare, nata povera, vissuta povera, usata perché povera.
Finiva così, con una fucilata alla schiena la lotta armata di una donna che aveva sepolto i genitori, il marito, la sorella, che aveva abbandonato il figlio, che aveva ucciso, rapito, rubato, sparato.
Amato.
Finiva così il sogno di giustizia e libertà di una donna nata per caso, in un paese abusato, in un Regno rubato.

Quando ho iniziato a studiare Michelina conoscevo di lei quello che avevo letto in rete. Dunque poco. Ho studiato moltissimi libri sul brigantaggio, su Michelina sempre e solo le stesse informazioni riportate nella cronaca dei documenti della polizia: scorribande, rapimenti, furti. In pratica non avevo niente, ma veramente niente, per scrivere la sua biografia, per raccontare la sua storia. Per qualche giorno ho pensato di desistere. Poi ho preso d’assalto i documenti d’archivio. Non quelli dei processi, quelli giudiziari che sono più o meno citati da tutti, ma quelli dello Stato Civile. È stato così che Michelina è venuta fuori con la sua storia familiare, quella vera che ha fatto cadere i copia e incolla che da anni si ripetono in tutte le narrazioni che la riguardano. Sbagliate le date, i dati sulla famiglia, quelli sul suo matrimonio, sbagliati i nomi. Sbagliato il rapporto di parentela con chi la tradì. L’hanno addirittura raccontata come una donna che leggeva Ivanhoe di Walter Scott mentre lei non sapeva né leggere né scrivere. Insomma, tutti hanno scritto senza mai aver letto le carte d’archivio.
Chi erano le brigantesse? Sui monti, nei boschi, alla macchia, decine e decine di giovani donne combatterono una guerra nella guerra. Alcune scelsero, altre furono costrette, altre ancora capitarono in quelle scelte senza averne consapevolezza, per mera necessità. In questo contesto si inserisce la vicenda personale e poi pubblica di Michelina Di Cesare. Ricostruire la sua vita prima del suo ingresso nella banda di Francesco Guerra sembrava quasi impossibile. Finora non si era cimentato nessuno. Le notizie pervenute raccolte in molti testi, cartacei e on line, sono spesso imprecise, errate e a volte molto fantasiose. Ho cercato di restituire verità su di lei e sulla sua famiglia, sulla sua vicenda matrimoniale e sui tempi effettivi del suo “battesimo” nel mondo dei briganti. Michelina scelse per necessità, per bisogno di libertà, per sete di giustizia e per solitudine.
Poi si innamorò, ma quella fu un’altra storia.

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Michelina Di Cesare, uccisa nello scontro a fuoco, venne denudata insieme ai compagni uccisi con lei e fotografata. Vollero immortalarla come monito al presente ma la consegnarono all’eternità. I corpi esposti nudi al pubblico ludibrio nella piazza principale di Mignano. Sfigurata, tumefatta, forse violentata mentre moriva o subito dopo morta, fu consegnata alla storia con i denti digrignati, in una smorfia di dolore che raccontava tutto della sua vita.
Finiva così, in una notte di tempesta, alla fine di agosto, la vicenda umana, pubblica e privata, di Michelina Di Cesare, nata povera, vissuta povera, usata perché povera.
Finiva così, con una fucilata alla schiena la lotta armata di una donna che aveva sepolto i genitori, il marito, la sorella, che aveva abbandonato il figlio, che aveva ucciso, rapito, rubato, sparato.
Amato.
Finiva così il sogno di giustizia e libertà di una donna nata per caso, in un paese abusato, in un Regno rubato.

Quando ho iniziato a studiare Michelina conoscevo di lei quello che avevo letto in rete. Dunque poco. Ho studiato moltissimi libri sul brigantaggio, su Michelina sempre e solo le stesse informazioni riportate nella cronaca dei documenti della polizia: scorribande, rapimenti, furti. In pratica non avevo niente, ma veramente niente, per scrivere la sua biografia, per raccontare la sua storia. Per qualche giorno ho pensato di desistere. Poi ho preso d’assalto i documenti d’archivio. Non quelli dei processi, quelli giudiziari che sono più o meno citati da tutti, ma quelli dello Stato Civile. È stato così che Michelina è venuta fuori con la sua storia familiare, quella vera che ha fatto cadere i copia e incolla che da anni si ripetono in tutte le narrazioni che la riguardano. Sbagliate le date, i dati sulla famiglia, quelli sul suo matrimonio, sbagliati i nomi. Sbagliato il rapporto di parentela con chi la tradì. L’hanno addirittura raccontata come una donna che leggeva Ivanhoe di Walter Scott mentre lei non sapeva né leggere né scrivere. Insomma, tutti hanno scritto senza mai aver letto le carte d’archivio.
Chi erano le brigantesse? Sui monti, nei boschi, alla macchia, decine e decine di giovani donne combatterono una guerra nella guerra. Alcune scelsero, altre furono costrette, altre ancora capitarono in quelle scelte senza averne consapevolezza, per mera necessità. In questo contesto si inserisce la vicenda personale e poi pubblica di Michelina Di Cesare. Ricostruire la sua vita prima del suo ingresso nella banda di Francesco Guerra sembrava quasi impossibile. Finora non si era cimentato nessuno. Le notizie pervenute raccolte in molti testi, cartacei e on line, sono spesso imprecise, errate e a volte molto fantasiose. Ho cercato di restituire verità su di lei e sulla sua famiglia, sulla sua vicenda matrimoniale e sui tempi effettivi del suo “battesimo” nel mondo dei briganti. Michelina scelse per necessità, per bisogno di libertà, per sete di giustizia e per solitudine.
Poi si innamorò, ma quella fu un’altra storia.

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