Marco Mancini, ex agente dei servizi segreti italiani,

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Le dichiarazioni di Marco Mancini, ex agente dei servizi segreti italiani, riguardanti l’arresto di Cecilia Sala mettono in evidenza delle gravi falle nel sistema di prevenzione e nella comunicazione tra le istituzioni italiane, come la Farnesina e Palazzo Chigi, nonché una possibile inefficienza nei tempi di risposta durante una situazione di emergenza. Secondo Mancini, la mancata evacuazione tempestiva di Cecilia Sala – giornalista italiana arrestata in Iran – dimostra un fallimento nell’identificare e gestire il rischio che stava correndo.

L’ex 007 sottolinea come, tra il 16 e il 19 gennaio 2024, i giorni cruciali in cui Abedini venne arrestato e Sala divenneva un obiettivo sempre più probabile, nessuna azione efficace sia stata intrapresa per metterla al sicuro. Mancini si chiede come mai, in un intervallo di tempo relativamente breve, non sia stata presa in considerazione una soluzione rapida, come un volo privato, per farla arrivare in sicurezza in un aeroporto sicuro, come quello di Baghdad o della Turchia. In altre parole, secondo Mancini, ci sarebbero state tutte le condizioni per riuscire a evacuare Cecilia Sala in un arco di tempo molto ridotto, di poche ore.

Una delle preoccupazioni sollevate da Mancini riguarda anche la possibilità che i servizi segreti americani, sebbene possedessero informazioni rilevanti, non hanno comunicato tempestivamente ai servizi italiani il pericolo imminente per Sala, limitandosi ad avvisare solo la polizia. Questo aspetto potrebbe indicare una frattura nella fiducia tra i Paesi, soprattutto in seguito a situazioni passate come quella di Artem Uss, un caso che aveva messo in luce delle critiche nelle relazioni tra i servizi di intelligence.

Mancini critica non solo l’incapacità di evacuare rapidamente Cecilia Sala, ma anche il potenziale allarme rosso che potrebbe derivare dalla mancanza di cooperazione tra i servizi segreti italiani e quelli di altre nazioni, come gli Stati Uniti. L’ex 007 evidenzia come questi fallimenti possano compromettere la fiducia internazionale e mettere a rischio la sicurezza dei cittadini italiani all’estero.

Italiani i conti vanno bene…..per me.

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Giorgia Meloni ha recentemente acquistato una villa a Roma Sud per la considerevole cifra di 1 milione e 254 mila euro, una notizia che ha generato un acceso dibattito. L’immobile, nel quale la premier vive già da giugno 2024, è stato acquistato senza ricorrere a un mutuo, come riportato dal giornalista Marco Lillo su Il Fatto Quotidiano .

I dettagli della transazione

  • Acconto versato a marzo 2024: La presidente del Consiglio aveva sottoscritto un preliminare d’acquisto in primavera, anticipando 300 mila euro.
  • Contratto definitivo: La transazione è stata completata con la firma ufficiale del contratto, registrata la vigilia di Natale 2024.

L’acquisto di una villa di questo valore senza acquisire un mutuo ha sollevato interrogativi sulla capacità economica della Meloni e sulla provenienza dei fondi utilizzati. Sebbene il suo stipendio come Presidente del Consiglio sia noto (circa 80-100 mila euro netti l’anno ), molti hanno ipotizzato che il capitale necessario possa derivare da risparmi accumulati negli anni, da eventuali redditi aggiuntivi legittimi o da patrimonio personale.

Un aspetto altrettanto discusso è stato il trattamento riservato alla notizia da Il Fatto Quotidiano . Nonostante il rilievo potenziale della vicenda, l’articolo è stato relegato in un piccolo spazio a pagina 5, lontano dalla prima pagina che tradizionalmente raccoglie le notizie più incisive. Questa scelta editoriale ha destato curiosità, soprattutto considerando il rapporto critico di Marco Travaglio, direttore del quotidiano, con la Meloni.

Reazioni e polemiche

  • Trasparenza e politica: L’acquisto di un immobile di lusso da parte di un leader politico attira inevitabilmente l’attenzione pubblica, soprattutto in un contesto di difficoltà economiche per molti cittadini italiani.
  • Critiche e difese: Da un lato, alcuni hanno messo in discussione l’etica di tale investimento, soprattutto per una leader che si propone come “vicina al popolo”. Dall’altro, i sostenitori della Meloni sottolineano che si tratta di una transazione privata legittima e in regola, senza alcuna violazione di legge.

L’acquisto della villa da parte di Giorgia Meloni rappresenta un episodio che mescola questioni personali e politiche, evidenziando ancora una volta come le scelte di vita dei leader politici siano sempre sottoposte a scrutinio pubblico. Resta da vedere se questa vicenda avrà ulteriori sviluppi o se sarà rapidamente archiviata come una curiosità.

Il messaggio di Daniela Santanchè per l’anno nuovo

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Il messaggio di Daniela Santanchè per l’anno nuovo è diventato un vero e proprio oggetto di discussione, sollevando un mare di critiche. La politica, attualmente ministra del Turismo, ha infatti scelto di fare gli auguri per il 2025 con un video pubblicato dalla sua residenza a Cortina, vestita con una minigonna e stivali pelosi, accompagnata da un commento decisamente polemico e provocatorio. La scena, ripresa in un angolo della sua villa-chalet, si svolge nella tromba delle scale, un dettaglio che ha suscitato ulteriori osservazioni sul tono e sul contesto del video.

Nel suo intervento, Santanchè ha invocato il rispetto verso chi, a suo avviso, è oggetto di attacchi online, rivolgendo un messaggio di condanna verso gli “odiatori di tastiera”, termine che ha usato per riferirsi a chi commenta in modo negativo sui social media. Questo appello al rispetto ha però suscitato una serie di reazioni contrastanti, non solo per il contenuto del video, ma anche per il tono e il momento scelto.

Il video ha suscitato diverse critiche, che hanno travolto la politica in un turbinio di commenti negativi, soprattutto riguardo alla percezione di incoerenza tra il messaggio di rispetto e le sue azioni precedenti. In molti hanno sottolineato che Santanchè dovrebbe chiedersi se i dipendenti delle sue società hanno ricevuto il rispetto che lei stessa invoca, sollevando dubbi sulle condizioni lavorative e sull’approccio della politica verso i suoi collaboratori.

Inoltre, alcuni commenti ironici hanno messo in luce l’apparente contraddizione di un video di auguri natalizi con una Befana fuori stagione, suggerendo che l’augurio fosse più un’auto-celebrazione che un vero e proprio messaggio di buon auspicio. Non sono mancati anche gli apprezzamenti sulla moda della Santanchè, con battute sulle sue scelte estetiche: uno dei commenti ha notato ironicamente che “usi più filtri del Dyson di mia madre”, un chiaro riferimento ai presunti effetti di filtri o modifiche applicate al video, suggerendo una cura eccessiva nell’immagine che veniva proposta.

Anche se il video potrebbe sembrare un tentativo di creare un’immagine di sé più “approssimativa” e “popolare”, il risultato è stato una valanga di commenti critici. Molti utenti hanno infatti ironizzato sulla sua figura e sui messaggi che lei lanciava, dicendo che l’unica certezza del nuovo anno sarebbe continuare a chiedere le sue dimissioni.

Santanchè sembra aver avuto una sorta di “effetto boomerang” con il suo video messaggio: anziché ottenere il consenso sperato, ha alimentato una discussione che ha messo in luce le incoerenze tra la sua posizione politica e la sua immagine pubblica. Il contrasto tra il tono del video e le polemiche politiche e sociali in cui è coinvolta ha alimentato una reazione negativa diffusa, segnalando come anche le comunicazioni più semplici possono trasformarsi in occasioni di critiche se non gestite con attenzione.

Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, “superflui della politica”

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Nella recente puntata di Accordi&Disaccordi su Nove, il direttore de Il Fatto Quotidiano , Marco Travaglio, ha espresso parole taglienti su Matteo Renzi e Maria Elena Boschi, definendoli “superflui della politica” e attaccando le loro mosse tattiche recenti. Travaglio non si è risparmiato nel commentare l’apparente tentativo di rientro di Renzi e Boschi nel Partito Democratico (PD), sostenendo che si tratterebbe di una manovra strategica finalizzata solo a mantenere posizioni di potere, più che a solida un progetto politico condiviso o coerente .

Secondo Travaglio, Renzi e Boschi sembrerebbero più interessati a garantirsi un seggio che a costruire una solida proposta politica. “Sono ansiosi di fare un’alleanza con i 5 Stelle”, ha dichiarato Travaglio, aggiungendo però che “disprezzano con tutte le loro forze” il Movimento, evidenziando quella che ritiene una profonda incoerenza nelle scelte politiche dei due esponenti di Italia Viva. Secondo il direttore, l’atteggiamento ambiguo verso i 5 Stelle è sintomatico di un’opportunità politica slegata da un effettivo impegno per un programma comune o per un rapporto sincero con gli alleati.

Il rientro di Renzi e Boschi nel PD viene percepito da molti come un tentativo di riposizionamento dopo il fallimento elettorale di Italia Viva e un calo di consensi. Da qui, l’interrogativo sull’efficacia di tale strategia: il pubblico potrebbe davvero prendere sul serio un eventuale ritorno al PD? Travaglio ha infatti sottolineato il rischio di una disaffezione degli elettori di fronte a cambi repentini di alleanze, evidenziando come i cittadini possano facilmente percepire tali cambiamenti come manovre di convenienza piuttosto che come scelte dettate da un reale orientamento ideologico.

Le dichiarazioni di Travaglio rivelano una critica più ampia nei confronti di una politica che spesso, a suo avviso, sembra rincorrere il potere senza tenere conto della coerenza. La figura di Renzi è da tempo al centro di dibattiti per le sue scelte politiche, che hanno spesso portato a rotture e controversie all’interno della sinistra italiana. L’ex Premier, dopo la fondazione di Italia Viva, ha continuato a destreggiarsi tra alleanze trasversali e approcci pragmatici che hanno generato reazioni contrastanti.

Travaglio ha voluto mettere in guardia contro una politica fatta di cambiamenti di alleanze che rischiano di allontanare i cittadini e ridurre la credibilità dei politici stessi.

Tensione istituzionale tra Giorgia Meloni e il Quirinale

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Un nuovo episodio di tensione istituzionale si è verificato tra il governo di Giorgia Meloni e il Quirinale. La presidente del Consiglio, infatti, ha convocato il vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM), Fabio Pinelli, senza informare il presidente della Repubblica e capo del CSM, Sergio Mattarella. Questo gesto, interpretato come un atto di irritualità politica, ha sorpreso il capo dello Stato, che ha accolto la notizia con “stupore”. L’incontro non precedentemente condiviso con il Quirinale viene letto come una mancanza di riguardo verso le consuetudini istituzionali, accentuando una frattura già aperta tra l’esecutivo e la magistratura.

Da tempo il governo Meloni è in aperto conflitto con il sistema giudiziario, accusato da alcuni esponenti della maggioranza di interferire con l’azione politica e di ostacolare le riforme in agenda. L’episodio con Pinelli appare come l’ultimo tassello di una “guerra” totale tra l’esecutivo e le toghe, che ha assunto toni sempre più aspri negli ultimi mesi. Nonostante il tentativo di Mattarella di mantenere l’equilibrio istituzionale – come dimostrato dal recente via libera al decreto sui “Paesi sicuri” – la maggioranza sembra determinata a portare avanti una critica serrata alla magistratura.

Non ha aiutato a distendere gli animi il commento di Matteo Salvini, leader della Lega e vicepremier, che ha definito alcuni giudici “comunisti”, riaccendendo le polemiche con un attacco frontale. Parole forti, quelle di Salvini, che rimarcano la linea dura adottata da parte della maggioranza, che vede nella magistratura un ostacolo al cambiamento e un retaggio di una sinistra giudiziaria che, secondo questa narrazione, condiziona le istituzioni. Tuttavia, il Quirinale sembra intenzionato a mantenere la calma, cercando di mediare, pur in un quadro che diventa sempre più difficile da gestire.

L’atteggiamento del governo verso la magistratura, però, rischia di minare la fiducia reciproca tra le istituzioni, creando un clima di sospetto e conflitto che può avere ripercussioni anche sull’ordinamento giuridico e sulle riforme annunciate. Questo ultimo episodio, con il “mancato avviso” a Mattarella, è emblematico di una strategia politica che non sembra intenzionata a fare concessioni e che mira a ridisegnare i rapporti di forza tra politica e giustizia.

A UN PASSO DALL’IRRILEVANZA POLITICA:

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VI RICORDATE QUANDO, UN ANNO E MEZZO FA, IN CAMPAGNA ELETTORALE, PARLANDO DI EUROPA, GIORGIA DUE-MELONI AVEVA DETTO, TRA SBARRAMENTI OCULARI E DIGRIGNAR DI DENTI, CHE CON LEI AL GOVERNO LA PACCHIA A BRUXELLES SAREBBE SICURAMENTE FINITA?

OGGI “LA PACCHIA È FINITA”, MA PER L’ITALIA

MESSA IN UN ANGOLO DAL QUINTETTO MACRON-SCHOLZ-SANCHEZ-TUSK-MITSOTAKIS, ABBANDONATA PURE NEL SUO GRUPPO ECR, IERI SI È CONSUMATO IL FALLIMENTO EUROPEO DEL CAMALEONTE MELONI …UNO PSICO-DRAMMA CHE SI TRASFORMA IN UNA FARSA DEMENZIALE CON SALVINI CHE BERCIA AL “COLPO DI STATO EUROPEO”

Che cosa si prova a diventare una gallina lessa, una lingua in salmì, uno zampetto con mostarda, e finire sbattuta in un “carrello di bolliti misti”, a un passo dall’irrilevanza politica?

Vi ricordate quando, un anno e mezzo fa, in campagna elettorale, parlando di Europa, Giorgia Due-Meloni aveva detto, tra sbarramenti oculari e digrignar di denti, che con lei al Governo la pacchia a Bruxelles sarebbe sicuramente finita? Come no, oggi “La pacchia è finita”, ma per l’Italia.

Messa in un angolo dal quintetto Macron-Scholz-Sanchez-Tusk-Mitsotakis, ieri si è consumato il fallimento europeo di Giorgia Meloni. Grazie alla sua arroganza coatta, isto che le vice presidenze esecutive in dote alla Commissione sono tre e sono appannaggio ovviamente di Germania, Francia e Polonia, alla fine Meloni si porterà a casa quel merluzzone di Fitto come commissario di seconda fascia con una vicepresidenza altrettanto di “bandiera”, cioè priva di deleghe operative. (Deleghe che sarebbero cruciali per poter sostenere nel 2025 una situazione economica disastrosa. Il nuovo Patto di stabilità si traduce in oltre 12 miliardi di tagli l’anno per l’Italia. Tagli che ricadranno, è facile prevederlo, su sanità, scuola, lavoro e che comporteranno nuove tasse)

La più bruciante stronzata meloniana è stata sicuramente quella di aver votato no al socialista portoghese Costa come presidente del Consiglio Europeo, uno che viene eletto dai presidenti e premier dei 27 paesi dell’Unione e che ha ricevuto addirittura il voto favorevole pure del sovranista Orban.

Ma la Poverina, per tenere a bada le sparate del mal-destro Matteo Salvini, aveva tuonato pubblicamente: “Mai con i socialisti” (come dice James Bond, in politica “Never say never!”). Come per “salvaguardare le sensibilità del governo”, si è astenuta poi su Ursula von der Leyen, cara al Ppe Tajani, con la speranza di un do-ut-des (voti FdI in cambio di un posto di primo piano in Commissione). Come finirà lo sapremo il 18 luglio con il voto in plenaria al Parlamento Europeo.

Altro capolavoro politico è stato poi il no all’invito del polacco Tusk che, su spinta di Tajani, l’aveva convocata a un pre-vertice del Consiglio ma doveva presentarsi unicamente in qualità di premier italiana, anziché di presidente dei Conservatori (i socialisti di Scholz e i liberali di Macron avevano posto un veto assoluto verso i sovranisti estremisti di Vox, Pis e compagnia cantante)

“Se qualcosa può andar male, lo farà”, prevede la Legge di Murphy. E così è stato. La presidentessa dei Conservatori si è pure ritrovata abbandonata come una orfanella sui gradini della chiesa dall’altro premier di Ecr nel Consiglio Europeo, il ceco Petr Fiala, che ha dato il suo assenso a tutti e tre i top jobs: Von der Leyen, Costa, Kallas.

E la “psiconana” (copy Grillo) lo sapeva benissimo, in quanto Fiala lo aveva prima del voto in Consiglio: “Per la Repubblica Ceca è fondamentale che la distribuzione rispetti non solo l’equilibrio politico, ma anche quello geografico. I nomi proposti soddisfano questi criteri. Inoltre li conosco tutti personalmente, hanno un rapporto positivo con la Repubblica Ceca e ho un’ottima esperienza di lavoro con loro”.

Il capitombolo di “Meloni, detta Giorgia” si è poi trasformato in un sadico “calci in culo” azionato dal giostraio ungherese Viktor Orban che ha pensato bene di sparigliare il “pacchetto top jobs”, infiocchettato da Macron-Sholz, votando contro Ursula, per astenersi poi sulla bella Kallas e infine votando addirittura a favore del socialista portoghese Costa.

Ma questo è niente: fallita a Roma l’intesa per entrare in Ecr, l’impresentabile Orban ha subito ingranato la quinta annunciando di aver i numeri (23 eurodeputati) per dar vita al quarto gruppo sovranista europeo. Olè!

Ma il peggio per la Sora Giorgia doveva ancora arrivare: Mateusz Morawiecki, che guida i polacchi del Pis, ha definito “non scontata” la permanenza all’interno dei Conservatori. Tentato di sbarcare nel nuovo gruppo di Orban, ha dichiarato: “La darei al 50%, siamo tentati da tutte e due le direzioni”. Un casino tale che è stato rinviata la nomina dei capogruppo di Ecr nella nuova Commissione

Particolare importante: il Pis rappresenta nei gruppo dei Conservatori la seconda delegazione (20 eurodeputati), dopo FdI con 24. In caso di trasloco, sarebbe una brutta botta per la Melona che aveva recentemente annunciato trionfate di essere il terzo gruppo europeo, sorpassando i liberali di Renew Europe di Macron.

Lo psico-dramma dell’Evita Peron del Colle Oppio diventa una farsa demenziale se si pensa che I tre partiti che compongono il governo Meloni viaggiano in Europa ognuno per i cazzi loro.

Se Fratelli d’Italia sceglie la via dell’astensione su von der Leyen, Forza Italia di Antonio Tajani conferma il suo sì convinto al bis della presidente di Commissione mentre Matteo Salvini alza le barricate: “Quello che sta accadendo sulle nomine Ue puzza di colpo di Stato“, ha tuonato il leader della Lega, al fine di costringere la premier della Garbatella a mantenere la sua sconsiderata posizione anti Consiglio Europeo.

Una dichiarazione talmente folle, quella del leader della Lega, che ha fatto rizzare i peli e capelli a tutta Bruxelles, compresi i più moderati: fino a prova contraria, Salvini è vicepremier del governo italiano. Se Tajani ha infatti subito precisato alle agenzie che “quel linguaggio non appartiene al Forza Italia”, la Melona non ha aperto la boccuccia.

‘’La Meloni ha preferito restare nel ghetto degli anti-europei e ha trascinato nella quarantena politica anche il Paese che rappresenta”, sottolinea l’editorialista di “Repubblica”, Andrea Bonanni. ‘Messa in un angolo dai governi europeisti, la premier rischia di essere rinnegata anche dai suoi camerati nazionalisti e anti-Ue. Un bel risultato, per chi voleva “andare in Europa a testa alta”, ma non sa che cappello mettersi”.

(da Dagoreport)