Il fact-checking della conferenza stampa di fine anno di Meloni

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Giovedì 9 gennaio la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha partecipato alla tradizionale conferenza stampa di fine anno organizzata dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti e dall’Associazione stampa parlamentare. Nel corso della conferenza stampa, tenutasi come l’anno scorso a inizio gennaio invece che a fine dicembre, Meloni ha risposto a 40 domande fatte dai giornalisti.

Dalla giustizia all’economia, passando per l’immigrazione e il lavoro, abbiamo verificato 17 dichiarazioni della presidente del Consiglio per controllare quali sono supportate dai fatti e quali no.

I dati sul lavoro

«Penso che sia molto incoraggiante l’ultimo dato sulla disoccupazione, che scende ai minimi storici da quando vengono registrate le serie, 5,7 per cento. L’occupazione è ai massimi dall’unità d’Italia»

Secondo ISTAT, a novembre 2024 il tasso di disoccupazione in Italia era pari al 5,7 per cento (-0,1 per cento rispetto a ottobre): è la percentuale più bassa da gennaio 2004, ossia da quando sono disponibili i dati mensili confrontabili tra loro. Come mostra il grafico, il calo è iniziato prima dell’insediamento dell’attuale governo.

Il tasso di occupazione nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni era pari al 62,4 per cento, la percentuale più alta mai raggiunta. Sui confronti con il passato, e in particolare con la seconda metà dell’Ottocento.

L’andamento del lavoro stabile

«Sono dati incoraggianti anche per la qualità di questo lavoro, che è prevalentemente lavoro stabile. Parliamo di 883 mila nuove assunzioni in questi due anni, ma se considerassimo solo quelle a tempo indeterminato arriveremmo al milione»

È vero che, secondo ISTAT, tra ottobre 2022 – mese di insediamento del governo Meloni – e ottobre 2024 gli occupati in Italia sono aumentati di 830 mila unità, un dato in linea con quello indicato dalla presidente del Consiglio. Parlare di «nuove assunzioni», come ha fatto Meloni, è però impreciso: per essere considerati “occupati” da ISTAT non è necessario aver firmato un contratto di lavoro o essere stati assunti da qualcuno.

Nello stesso periodo di tempo gli occupati dipendenti sono aumentati di 665 mila unità. Quelli a tempo indeterminato sono cresciuti: +963 mila, una crescita vicina al «milione» citato da Meloni; gli occupati a tempo determinato, invece, sono calati: in due anni sono scesi di 338 mila unità. 

La lotta contro l’evasione fiscale

«Sotto questo governo l’Agenzia delle Entrate fa il record di lotta all’evasione fiscale, di proventi della lotta all’evasione fiscale»

Come già fatto in altre occasioni, Meloni esagera i meriti del suo governo nella lotta all’evasione fiscale.

A febbraio l’Agenzia delle Entrate ha annunciato che, grazie alle sue attività, nel 2023 sono confluiti nelle casse dello Stato 24,7 miliardi di euro, «la somma più alta di sempre». Nel 2022 era stato raggiunto il precedente record, pari a 20,2 miliardi di euro. La differenza di oltre 4 miliardi di euro, citata dalla presidente del Consiglio, è dunque corretta.

Dei soldi recuperati nel 2023, 19,6 miliardi sono frutto di attività di controllo ordinarie dell’Agenzia delle Entrate, che erano già operative prima dell’insediamento del governo Meloni. La differenza più marcata tra il 2023 e il 2022 è dovuta alle attività straordinarie di recupero. L’anno scorso lo Stato ha incassato 5,1 miliardi di euro da queste attività, quasi 4 miliardi in più rispetto all’anno precedente. Questa differenza è il risultato dei soldi incassati con la nuova “rottamazione delle cartelle” introdotta dal governo Meloni con la legge di Bilancio per il 2023. La rottamazione è un condono fiscale perché ha permesso ai contribuenti non in regola con il fisco di pagare il debito senza pagare le sanzioni.

Sul recupero dell’evasione non può aver pesato la nuova riforma del fisco. Il governo Meloni, infatti, ha presentato in Parlamento il disegno di legge delega sulla riforma fiscale a marzo 2023. Il testo è stato poi approvato definitivamente dalla Camera ad agosto, ma i primi decreti legislativi per rendere operativa la riforma sono stati approvati soltanto alla fine di dicembre 2023.

La risposta sulla “legge bavaglio”

«In attuazione di una direttiva europea che è del 2016, che riguarda il pieno rispetto della presunzione di innocenza, il Parlamento ha delegato il governo ad approvare un decreto legislativo secondo il quale non può essere pubblicata per intero o per estratto un’ordinanza di custodia cautelare in carcere. Questo significa che è comunque consentito al giornalista di avere l’ordinanza: semplicemente si chiede al giornalista di fare una sintesi. Cioè, si può continuare a dare notizia di fatti di cronaca rilevanti. Semplicemente si chiede di non fare il copia-incolla delle ordinanze perché nelle ordinanze sono contenute anche atti sensibili o stralci di intercettazione. […] Il governo nell’attuare la delega non ha ritenuto di inasprire le pene per chi dovesse violare queste prescrizioni»

La ricostruzione fatta dalla presidente del Consiglio è sostanzialmente corretta.

All’inizio del 2024 il Parlamento ha approvato la “legge di delegazione europea 2022-2023”. Quest’ultima è una legge delega: contiene una serie di principi, fissati dal Parlamento, che il governo ha dovuto rispettare per recepire alcune direttive dell’Unione europea. Una di queste direttive è del 2016 e riguarda il «rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza». 

Per attuare quanto previsto dalla legge delega, a dicembre 2024 il governo ha approvato un decreto legislativo con cui ha modificato l’articolo 114 del codice di procedura penale (il codice che regola le procedure del processo penale), dove sono stabiliti i limiti della pubblicazione degli atti processuali. Questi limiti servono a bilanciare la libertà di stampa e la protezione degli indagati e di chi conduce le indagini.

Il comma 1 dell’articolo 114 vieta ai mezzi di informazione di pubblicare integralmente o parzialmente gli atti coperti da segreto (per esempio gli atti di indagine del pubblico ministero prima che siano comunicati all’indagato), di cui non è possibile neppure riassumerne il contenuto. Il comma 2, invece, vieta la pubblicazione integrale o parziale degli atti non più coperti dal segreto «fino a che non siano concluse le indagini preliminari» o «fino al termine dell’udienza preliminare». 

Prima dell’intervento del governo, faceva eccezione l’ordinanza di custodia cautelare, che poteva essere pubblicata integralmente. Questa ordinanza è il provvedimento con cui, su richiesta del pubblico ministero, il giudice per le indagini preliminari ordina che un indagato venga privato temporaneamente della libertà personale se a suo carico si ritiene ci siano gravi indizi che abbia commesso il reato per cui è accusato, e se c’è il rischio che fugga, inquini le prove o commetta di nuovo reati della stessa specie o altri gravi delitti.

Ora «la pubblicazione, anche parziale» dei testi delle ordinanze di custodia cautelare è vietata. Secondo i critici, questa novità limiterebbe il diritto di cronaca (per questo motivo, nel dibattito politico si parla da tempo di “legge bavaglio”). In ogni caso, nulla vieta che la modifica consenta di pubblicare il contenuto delle ordinanze di custodia cautelare attraverso un riassunto o una sintesi giornalistica. Le pene per chi vìola i limiti imposti dal codice di procedura penale non sono cambiate. 

In teoria, quando i giornalisti violano le regole sulla pubblicazione di atti giudiziari, rischiano una sanzione, ma questo succede di rado, visto che di regola prevale il cosiddetto “diritto di cronaca” che, a certe condizioni, opera come causa di giustificazione (articolo 51 del codice penale) ed esclude la punibilità.

Diffamazione e giornalisti

«Sul tema della riforma della diffamazione, anche qui voi sapete che è una proposta di iniziativa parlamentare che raccoglie l’auspicio della Corte Costituzionale. Prevede che per le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa non sia più previsto il carcere, […] ma una multa. La multa, che può arrivare in alcuni casi fino a 50 mila euro, riguarda però il caso di una notizia falsa pubblicata consapevolmente con l’intento di diffamare qualcuno»

Qui Meloni ha replicato a un appello fatto nell’introduzione della conferenza stampa da Carlo Bartoli, presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. «Chiediamo di ripensare totalmente la riforma della diffamazione, in discussione al Senato», ha detto Bartoli. 

Il riferimento è a un disegno di legge presentato in Senato a gennaio 2023 da alcuni senatori di Fratelli d’Italia per modificare le norme in materia di diffamazione a mezzo stampa. L’esame di questo disegno di legge è iniziato in Commissione Giustizia del Senato insieme a quello di altre proposte sulla stessa materia, ma a ottobre 2023 il testo di Fratelli d’Italia è stato scelto come “testo base”, ossia come testo su cui è iniziata la discussione vera e propria in commissione, ormai ferma da maggio 2024.

Il disegno di legge propone di modificare l’articolo 13 della legge sulla stampa (la n. 47 del 1948), che prevede la reclusione da uno a sei anni per chi commette il reato di diffamazione a mezzo della stampa. Nel 2021 questo articolo è stato dichiarato incostituzionale dalla Corte Costituzionale nel 2021, che ha stabilito anche l’incostituzionalità dell’articolo 30, comma 4, della legge n. 223 del 1990 che disciplina il sistema radiotelevisivo pubblico e privato. Quest’ultima legge stabilisce che il reato di diffamazione stabilito dall’articolo 13 della legge sulla stampa vale anche per le trasmissioni radiofoniche e televisive.

La proposta di Fratelli d’Italia è quella di punire la diffamazione effettuata a mezzo stampa con una multa da 5 mila a 10 mila euro. «Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato falso, la cui diffusione sia avvenuta con la consapevolezza della sua falsità», la multa aumenta e può andare dai 10 mila ai 50 mila euro, la cifra citata da Meloni in conferenza stampa.

La presidente del Consiglio, però, ha omesso di dire una cosa, di cui si è discusso molto negli scorsi mesi. Da un lato, è vero che alcuni senatori di Fratelli d’Italia vogliono eliminare la disposizione che prevede il carcere per i giornalisti in caso di diffamazione. Dall’altro lato, almeno un senatore di Fratelli d’Italia, Gianni Berrino, ha provato comunque a reintrodurre la detenzione per i giornalisti, cambiando poi idea. Un emendamento presentato in commissione da Berrino chiedeva di mantenere la reclusione come pena per il reato di diffamazione, ma il senatore ha successivamente ritirato l’emendamento.

La riforma del fisco

«[Sulla riforma fiscale] abbiamo già approvato 17 tra decreti attuativi e testi unici»

Il numero indicato da Meloni è corretto. Sul sito della Camera è disponibile l’elenco completo dei provvedimenti adottati finora per attuare la riforma del fisco.

Il calo degli sbarchi

«Lo scorso anno gli sbarchi sono diminuiti del 60 per cento. Negli ultimi giorni sono quasi azzerati»

Entrambi i due numeri sono corretti. Secondo i dati del Ministero dell’Interno, nel 2024 sono sbarcati sulle coste italiane 66.317 migranti, il 58 per cento in meno rispetto ai 157.651 arrivati nel 2023, quando invece c’era stato un aumento del 50 per cento.

Nei primi nove giorni del 2025, i migranti sbarcati sono stati 120: nello stesso periodo dell’anno scorso erano stati 552.

Migranti e tribunali

«A me pare che le sentenze della Cassazione diano ragione al governo. La Cassazione dice che spetta al governo stabilire quali siano i Paesi sicuri e che conseguentemente il giudice non possa sistematicamente disapplicare il trattenimento dei migranti che arrivano da quei Paesi, ma può invece motivare il caso specifico per cui quella persona in ragione di non è sicura in quel Paese, che è una cosa completamente diversa da quella che hanno fatto i magistrati del Tribunale di Roma che non entrano nel merito del singolo caso»

Abbiamo già analizzato una dichiarazione simile della presidente del Consiglio in un altro fact-checking: rimandiamo alla sua lettura per avere maggiori dettagli. 

In breve: Meloni fa confusione sulle sentenze della Corte di Cassazione che riguardano i migranti.

Fino a oggi, nessun giudice che non ha convalidato il trattenimento dei richiedenti asilo provenienti dai Paesi considerati “sicuri” ha messo in dubbio che spettasse al governo definire la lista dei Paesi sicuri. La direttiva europea del 2013 (chiamata “direttiva Procedure”) stabilisce che gli Stati membri dell’Ue «possono mantenere in vigore o introdurre» una norma per «designare a livello nazionale Paesi di origine sicuri ai fini dell’esame delle domande di protezione internazionale». Questo punto non è stato l’oggetto della controversia davanti ai giudici.

In più, nessuna autorità giudiziaria ha mai sostenuto che i giudici dei tribunali potessero disapplicare erga omnes, ossia in modo generale, il decreto con la lista dei Paesi sicuri. Questa cosa, infatti, non è mai avvenuta: i giudici si sono limitati esclusivamente alla sua disapplicazione in merito a singoli casi concreti di richiedenti asilo, sottoposti al loro vaglio. Questo è avvenuto anche perché ai tribunali, in base al nostro ordinamento, è precluso andare al di là della specifica controversia su cui sono chiamati a esprimersi. Solo la Corte Costituzionale può invalidare erga omnes una norma.

La posizione della Cassazione

«Mi preoccupa un po’ di più se in Italia non si tenga conto di quello che ha detto la Cassazione, il che è un po’ paradossale perché è accaduto che anche dopo la sentenza della Cassazione alcuni giudici disapplicassero i trattenimenti esattamente come avevano fatto prima»

La presidente del Consiglio fa riferimento a una decisione del 4 gennaio 2025 della sezione immigrazione del Tribunale di Catania, che non ha convalidato il trattenimento di un richiedente asilo egiziano in un centro in Sicilia. Secondo Meloni, in questo caso i giudici non avrebbero rispettato un’ordinanza della Corte di Cassazione, pubblicata pochi giorni prima, il 30 dicembre 2024. 

In realtà le cose non sono andate così. Nel testo dell’ordinanza con cui il Tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento del migrante egiziano viene citata proprio la recente ordinanza della Corte di Cassazione a sostegno di questa decisione. 

Le sentenze sui mafiosi

«Mentre noi facciamo questi discorsi ci sono 11 mafiosi del clan di Messina Denaro che escono dal carcere per la fine dei termini di custodia cautelare»

La presidente del Consiglio fa riferimento a un fatto avvenuto a ottobre 2024, quando sono scaduti i termini della custodia cautelare di 11 mafiosi vicini a Matteo Messina Denaro, il boss di Cosa Nostra morto a settembre 2023. 

La Corte d’Appello di Palermo doveva pronunciarsi sulle pene di alcuni mafiosi, dopo che era venuta meno l’aggravante del reimpiego economico dei guadagni derivanti dall’attività mafiosa. La sentenza di ottobre ha confermato la caduta delle aggravanti, ridimensionando i termini della custodia cautelare, che è passata da nove a sei anni. 

Gli undici mafiosi in questione erano stati arrestati nel 2018. Di conseguenza la riduzione della custodia cautelare a sei anni ha permesso che nel 2024 fossero scarcerati per scadenza dei termini di fase, ossia la data massima entro cui si sarebbe dovuto concludere il giudizio in appello.

L’amnistia chiesta dal Papa

«Quello che [Papa Francesco] dice sull’amnistia è contenuto nella bolla di indizione del Giubileo, e quindi è rivolto ai governi di tutto il mondo, non è una questione che riguarda specificamente l’Italia»

È vero: nel documento con cui il Papa ha annunciato l’organizzazione del Giubileo nel 2025, c’è una parte dedicata ai detenuti, con un riferimento a tutti i governi, non solo quello italiano.

«Nell’anno giubilare saremo chiamati a essere segni tangibili di speranza per tanti fratelli e sorelle che vivono in condizioni di disagio. Penso ai detenuti che, privi della libertà, sperimentano ogni giorno, oltre alla durezza della reclusione, il vuoto affettivo, le restrizioni imposte e, in non pochi casi, la mancanza di rispetto», si legge nella bolla di indizione. «Propongo ai governi che nell’anno del Giubileo si assumano iniziative che restituiscano speranza; forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società; percorsi di reinserimento nella comunità a cui corrisponda un concreto impegno nell’osservanza delle leggi».

La guerra in Ucraina

«A dicembre 2022 la Russia controllava il 17,4 per cento del territorio ucraino. Dopo due anni, con perdite estremamente ingenti, la Russia controlla il 18 per cento del territorio ucraino: più 0,6 per cento»

Da quando è iniziata la guerra in Ucraina, una delle fonti più autorevoli e citate dai media internazionali e italiani sullo stato del conflitto è l’Institute of the Study of War (ISW), un centro indipendente di studi militari con sede negli Stati Uniti. L’ISW pubblica ogni giorno aggiornamenti sullo stato della guerra in Ucraina e sul suo sito ufficiale ha una mappa interattiva dell’Ucraina, con i territori controllati dai russi e dagli ucraini, e quelli su cui si stanno concentrando i combattimenti.

Secondo un’analisi dei dati dell’ISW, pubblicata dal quotidiano britannico The Guardian a un anno dall’inizio del conflitto (quindi intorno a dicembre 2022), la Russia aveva preso il controllo di circa il 17 per cento dell’Ucraina, una percentuale vicina a quella citata da Meloni. 

A quasi tre anni dall’inizio del conflitto, la situazione non è cambiata di molto. È difficile stabilire con certezza a chi appartenga il controllo di territori sui quali è in corso una guerra, ma diversi studi concordano nel dire che l’avanzata delle forze russe si è quasi arrestata negli ultimi due anni, e che quindi la percentuale di territorio ucraino controllata dalla Russia è rimasta pressoché la stessa di fine 2022.

La durata del governo

«[Il mio governo è il] settimo governo per longevità su 68 governi della storia nazionale»

È corretto. Il governo Meloni, insediatosi il 22 ottobre 2022, è in carica da 811 giorni: è la settima durata più alta tra i 68 governi italiani alternatisi dal 1948 a oggi.

L’avanzamento del “Piano Mattei”

«In tutti i primi nove Paesi del “Piano Mattei” i progetti sono tutti già avviati»

La presidente del Consiglio non la racconta giusta sull’attuazione del “Piano Mattei”, il piano che prende il nome dall’imprenditore Enrico Mattei e che ha l’obiettivo di rafforzare la cooperazione tra l’Italia e alcuni Paesi africani.

Il “Piano Mattei” ha individuato progetti pilota in nove Paesi: quattro Paesi sono nel Nord-Africa (Algeria Egitto, Tunisia e Marocco), gli altri cinque nell’Africa sub-sahariana (Costa d’Avorio, Etiopia, Kenya, Mozambico e Repubblica del Congo). 

A novembre 2024 il governo ha trasmesso al Parlamento la prima relazione sullo stato di attuazione del piano, aggiornata al 10 ottobre. Il documento indica i progressi di 21 progetti, di cui 17 riguardano i nove Paesi di cui ha parlato Meloni. Secondo la relazione, cinque progetti sono iniziati, mentre l’avvio di altri undici progetti è previsto nel 2025. Per un progetto non è stata specificata la data di avvio.

La riforma della legge sulla cittadinanza

«L’Italia è una delle nazioni d’Europa che concede il maggior numero di cittadinanze, e il maggior numero di cittadinanze, tra le nazioni che concedono il maggior numero di cittadinanze, ai minori»

In valori assoluti è vero. Secondo Eurostat, nel 2022 l’Italia ha concesso la cittadinanza italiana a quasi 214 mila stranieri che vivevano nel Paese: è il numero più alto tra tutti e 27 i Paesi membri dell’Ue. I minori stranieri di 19 anni che hanno ricevuto la cittadinanza italiana sono stati oltre 78 mila: anche questo è il numero più alto tra i Paesi Ue.

In ogni caso, questo non significa che la legge che regola la concessione della cittadinanza italiana ai minori e agli adulti stranieri sia la più generosa d’Europa. Per esempio, in Germania, Francia e Spagna per gli stranieri è più facile ottenere la cittadinanza.

La nomina dei giudici costituzionali

«Non si è arrivati al risultato all’inizio perché c’era un unico giudice della Consulta da eleggere, la maggioranza ha tentato di eleggerlo, ma l’opposizione ha fatto l’Aventino. Adesso ce ne sono altri tre che sono andati a scadenza, quindi sono complessivamente quattro e presumo che questo renderà più facile trovare una soluzione anche con le opposizioni»

La ricostruzione fatta da Meloni sull’elezione dei nuovi giudici della Corte Costituzionale è corretta. 

L’11 novembre 2023 è scaduto il mandato di nove anni della presidente della Corte Costituzionale Silvana Sciarra: da quella data il Parlamento non è mai riuscito a trovare un accordo per l’elezione del suo sostituto di Sciarra. 

Per eleggere i cinque giudici costituzionali spettanti al Parlamento, occorre la maggioranza dei due terzi dei deputati e dei senatori riuniti insieme. Questa soglia corrisponde a 403 parlamentari sul totale dei 605 tra deputati e senatori. Se per tre votazioni il Parlamento in seduta comune non riesce a eleggere nessun giudice, alla quarta votazione la soglia scende a tre quinti, ossia ad almeno 363 parlamentari. 

L’8 ottobre 2024, in occasione dell’ottavo scrutinio per trovare il sostituto di Sciarra, i partiti che sostengono il governo Meloni hanno provato a eleggere Francesco Saverio Marini, attuale consigliere giuridico di Meloni, ma i partiti di opposizioni non hanno partecipato alla votazione (il cosiddetto “Aventino” citato da Meloni). Non avendo la certezza di poter eleggere Marini, i partiti di maggioranza hanno scelto di lasciare la scheda bianca.

A dicembre 2024 è scaduto il mandato di altri tre giudici costituzionali, tra cui quello dell’ex presidente Augusto Barbera: sui sostituti di questi tre giudici il Parlamento non ha ancora trovato un accordo. Secondo fonti stampa, i partiti hanno allungato i tempi per fare in modo di uniformare la soglia di voti richiesta per l’elezione dei tre nuovi giudici costituzionali con quella necessaria per eleggere il sostituto di Sciarra. 

Lo scorso 10 dicembre si è tenuto il dodicesimo scrutinio per l’elezione del sostituto di Sciarra, per cui era necessaria la maggioranza dei tre quinti dei deputati e dei senatori, e il terzo scrutinio per l’elezione degli altri tre giudici, per cui era necessaria invece la maggioranza dei due terzi. Dal prossimo scrutinio, in programma il 14 gennaio, la maggioranza necessaria per eleggere tutti e quattro i giudici sarà dei tre quinti: in questo modo sarà più facile per i partiti mettersi d’accordo per eleggere i quattro giudici.

Il commercio internazionale

«Siamo per la prima volta quest’anno quarto Paese esportatore al mondo»

Già in altri comizi Meloni ha fatto questa dichiarazione, che è fuorviante per vari motivi.

La fonte è un articolo di Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison ed ex consigliere economico di Matteo Renzi quando era presidente del Consiglio, pubblicato il 25 agosto dal Sole 24 Ore. Secondo i calcoli di Fortis, tra gennaio e giugno 2024 le esportazioni italiane hanno raggiunto un valore di 316 miliardi di euro: in quel periodo limitato di tempo questo valore è stato il quarto più alto al mondo, dietro a Cina, Stati Uniti e Germania, e davanti al Giappone, fermo a 312 miliardi di euro.

Questi numeri vanno letti però con attenzione, per almeno due motivi. In primo luogo, quando si confrontano i dati delle esportazioni tra Paesi diversi, per poter fare paragoni diretti spesso si convertono i valori nella stessa valuta. In questo caso i valori in yen (la valuta giapponese) sono stati convertiti in euro. Ma se il tasso di cambio tra yen ed euro è cambiato negli ultimi mesi, questo può avere avuto un effetto sul confronto tra i due Paesi. E in effetti è quello che è avvenuto, con lo yen che ha perso valore nei confronti dell’euro. 

In secondo luogo, i numeri che abbiamo appena visto non ci dicono qual è stato l’andamento delle esportazioni italiane. Come ha sottolineato lo stesso Fortis nel suo articolo, nei primi sei mesi di quest’anno il valore delle esportazioni italiane è calato rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso. Secondo ISTAT, nella prima metà del 2024 c’è stato anche un calo in volumi delle esportazioni dell’Italia. Di questo calo Meloni non ne ha parlato durante il suo intervento ad Atreju. Il calo in volumi è confermato anche dai dati più recenti di ISTAT sul commercio internazionale, che arrivano fino al mese di settembre.

La condanna di Trump per il caso “Stormy Daniels” non sarà posticipata

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La Corte Suprema degli Stati Uniti ha respinto l’ultimo tentativo di Donald Trump di ritardare la condanna per i pagamenti all’attrice di film porno Stormy Daniels: la sentenza resta quindi in programma per venerdì 10 gennaio ed è attesa nel pomeriggio (ora italiana). Gli avvocati di Trump avevano sostenuto che una condanna pochi giorni prima del suo insediamento avrebbe minacciato la sicurezza nazionale: Trump giurerà infatti come nuovo presidente degli Stati Uniti, insediandosi ufficialmente, il prossimo 20 gennaio.

Il giudice di New York che sta seguendo il caso ha già escluso una pena che preveda il carcere, la libertà vigilata o una multa (ci sono altri tipi di pene, come i servizi sociali). È anche per questo che la Corte Suprema ha deciso che Trump poteva subire la condanna, ritenendo che una sentenza di questo tipo non avrebbe ostacolato il suo insediamento. La maggioranza comunque è stata minima: dei 9 membri della Corte, 5 hanno votato a favore dell’emissione della condanna e 4 contro. La pena massima per i reati di cui è accusato Trump sarebbe stata di 4 anni di carcere.

A maggio del 2024 la giuria popolare aveva dichiarato Trump colpevole per tutti i 34 capi di accusa a suo carico: in sostanza di aver falsificato documenti contabili della campagna elettorale del 2016 per nascondere l’esistenza dei pagamenti a Daniels, usati per comprare il suo silenzio su una relazione sessuale avvenuta dieci anni prima. Negli Stati Uniti prima si decide la colpevolezza, e poi l’eventuale condanna in un’udienza successiva: Trump deve ancora ricevere la condanna.

Questo era uno dei quattro processi penali in cui era coinvolto Donald Trump e l’unico in cui è stato giudicato colpevole. C’erano poi quello per l’assalto al Congresso del gennaio del 2021, in cui è accusato di aver provato a sovvertire il risultato delle elezioni in cui aveva perso contro Joe Biden; quello relativo alla sottrazione di documenti riservati, conservati nella sua villa di Mar-a-Lago, in Florida; quello per aver tentato di cambiare i risultati ufficiali delle presidenziali del 2020 nello stato della Georgia. Per i primi due è stata decisa l’archiviazione, nel terzo è stata rimossa la procuratrice che se ne occupava.

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