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Da un anno e mezzo sconta il 41 bis all’ospedale di Parma per i suoi problemi di salute, in condizioni simili a quelle del carcere
Da lunedì in Italia si parla molto della sentenza della Corte di Cassazione sulla detenzione di Salvatore “Totò” Riina, capo dell’organizzazione mafiosa “Cosa nostra” tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, condannato a diversi ergastoli per omicidi e stragi, compresa quella in cui furono uccisi il giudice Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, nel 1992. Riina, che fu arrestato nel 1993 dopo una lunga latitanza, ha 86 anni ed è molto malato: ha gravi problemi cardiaci, renali e soffre di parkinsonismo vascolare.
Attualmente Riina è ospitato presso la clinica universitaria di Parma, la città nel cui carcere sta scontando la pena: la sentenza della Cassazione si riferisce a una decisione del 2016 del tribunale di sorveglianza di Bologna, che decide sulle richieste di pene alternative alla detenzione in carcere presentate dai condannati. Il tribunale aveva negato il differimento della pena per Riina (cioè la sua sospensione o la sua trasformazione in arresti domiciliari) richiesto dal suo avvocato per gravi problemi di salute. Il tribunale di sorveglianza aveva quindi stabilito la compatibilità delle condizioni di salute di Riina con il regime carcerario a cui è sottoposto: la Cassazione ha però annullato la sentenza di Bologna, perché le sue motivazioni sono «carenti» e «contraddittorie» in alcuni punti. La Cassazione ha quindi deciso semplicemente che deve essere emessa una nuova sentenza, con motivazioni diverse.
Riina, a partire dalla metà degli anni Novanta, ha cambiato diverse volte carcere: prima era all’Asinara, in Sardegna, poi è stato ad Ascoli Piceno e dal 2013 è a Parma. È sottoposto – come la maggior parte dei boss mafiosi – al 41 bis, il regime di carcere duro inserito nell’ordinamento penitenziario italiano nel 1975, e che dagli anni Novanta è stato applicato soprattutto ai condannati per mafia (ma che può anche essere deciso per reati di terrorismo). In tutto, le persone che stanno scontando la propria pena con il regime di carcere duro in Italia sono oltre 700. La principale caratteristica del 41 bis è l’isolamento, che può essere di livelli diversi: nei casi più gravi, prevede che il condannato non interagisca con gli altri detenuti durante le cosiddette “ore d’aria”, e che abbia un numero molto limitato di telefonate e di incontri con i familiari e gli avvocati, uno o due al mese.
La cella di chi è condannato al 41 bis è singola, costantemente sorvegliata e i contatti con gli agenti penitenziari sono ridotti al minimo. È proibito tenere moltissimi tipi di oggetti personali, che devono essere approvati con procedure lente e macchinose. Il 41 bis non può essere assegnato senza limiti temporali ai detenuti, ma deve essere periodicamente rinnovato: questo perché è una misura legata alla pericolosità del detenuto, e non alla gravità dei suoi crimini. I rischi legati alle sue interazioni con le altre persone devono quindi essere valutati regolarmente, per verificare se sia necessario il carcere duro. Molte organizzazioni che si occupano dei diritti dei carcerati si oppongono al 41 bis, o almeno ad alcune sue applicazioni, sostenendo che violi i diritti umani. La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo è stata invocata in diverse occasioni, perché si esprimesse su questo tipo di pena. Per ora ha sempre stabilito la legalità del 41 bis, nonostante abbia dato precise raccomandazioni riguardo alla sua applicazione.
Il 41 bis di Riina fu in parte “ammorbidito” nel 2001, quando era ad Ascoli Piceno, e gli fu permesso di vedere alcuni detenuti selezionati durante il giorno. Dal novembre del 2015, Riina non si trova più nel carcere di Parma, ma è stato trasferito all’ospedale Maggiore per i suoi problemi di salute, dopo che a lungo varie sentenze avevano stabilito che dovesse rimanere in prigione. Come ha raccontato Salvo Palazzolo su Repubblica, nella sua stanza sono ammesse in tutto una ventina di persone, tra il personale medico e gli agenti di polizia. Le sue condizioni di salute lo costringono a stare costantemente sdraiato, e a ogni pasto viene aiutato a sedersi sul letto dagli infermieri. Riina, racconta Palazzolo, vuole assistere a tutte le udienze del processo sulla presunta “trattativa Stato-mafia”: le vede da una stanza speciale nel carcere di Parma, dove viene scortato ogni volta in ambulanza.
La stanza di Riina è piccola, di cinque metri per cinque, abbastanza nascosta e con una finestra, Riina non può tenere niente: ha fatto richiesta per un calendario, ma non l’ha ottenuto; una richiesta per una radio è invece stata approvata, ma dopo un anno Riina non l’ha ancora ricevuta. Ha anche chiesto di poter vedere la televisione durante i pasti, ricevendo risposta negativa, e non può leggere i giornali. Nel 2015 i giornali italiani dedicarono molta attenzione a una sua lamentela sul fatto che il giorno di Natale non gli era stato servito il panettone, raccontando l’episodio con toni molto coinvolti e manifestando un’indignazione evidentemente poco proporzionata al fatto in sé. L’avvocato di Riina, Luca Cianferoni, commentando la sentenza della Cassazione, ha detto: «Riina è lucidissimo, ma la situazione è ormai gravissima, finalmente è stata presa in considerazione dalla Cassazione con una sentenza che definirei storica, perché apre un varco per l’intero sistema»