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Valutare le ragioni dei vinti
La rilettura più che necessaria di un periodo di storia meridionale
Un’intera settimana di studi sul fenomeno del brigantaggio è una novità assoluta non solo in Puglia ma forse in tutto il Meridione d’Italia. L’iniziativa, nata dall’intuizione del prof. Biondi e dell’avv. Nigro, entrambi di Villa Castelli, trova la sua collocazione nella cittadina brindisina in una sapiente miscela di promozione culturale e turistica.
I temi proposti vanno dall’analisi generale del fenomeno alla trattazione di singoli momenti e aspetti particolari: rivivranno quindi pagine dimenticate o misconosciute della storia del Sud, dal brigantaggio del decennio francese al ribellismo postunitario; si parlerà di capi famosi, come Ciro Annicchiarico, il prete brigante e del sergente Romano, ma anche della massa anonima di sbandati borbonici che presero la strada della macchia e della violenza, non avendo altra via di fuga dalla miseria e dalla disperazione.
La colpa principale di questi uomini è forse quella di essere vissuti in un periodo di rivolgimenti epocali, senza avere la certezza, non dico del futuro, ma neanche del presente.
La paura del nuovo – rappresentato dai Savoia – che avanzava colse impreparati i contadini meridionali che ancora non avevano coscienza di essere classe sociale: a loro anche il poco o il nulla che possedevano sotto i Borboni sembrò in pericolo. La loro centenaria aspirazione, il possesso della terra che lavoravano, per un momento sembrò realizzarsi: così, ad esempio, Garibaldi apparve subito ai loro occhi il messia venuto ad affrancarli e a liberarli. E non tardarono a ricredersi quando il nuovo Stato, invece delle terre promesse, impose nuove tasse e nuove coscrizioni obbligatorie: quanto grande fu l’illusione di un momento, tanto maggiore e immediata fu la delusione; le terre cambiarono proprietà ma i contadini continuarono a rimanerne esclusi e – in aggiunta – i loro figli dovettero andare a servire il nuovo sovrano in un esercito che ancora non considerarono come il proprio.
E fu la macchia, furono le ruberie e le grassazioni di un popolo che non intravedeva futuro, furono le illusioni di un ritorno al potere del Borbone, fu il brigantaggio.
Lo stato unitario rispose alla violenza con la repressione, spesso crudele e quasi sempre indiscriminata, in una lotta impari tra un esercito organizzato e preponderante per numero e i manipoli di uomini alla macchia; una lotta che – come in tutte quelle definite di guerriglia – segnò parziali ed iniziali successi per i secondi. Allora si volle colpire ancora più duramente e lo Stato emanò la prima di una lunga serie di leggi speciali che lo hanno caratterizzato fino ad oggi: la legge Pica. Soppresse le fondamentali libertà, bastò il sospetto per arrestare, fu sufficiente essere catturato con le armi in mano per essere fucilato sul posto, il solo sospetto fu elevato a rango di prova, la parentela diventò crimine e intere famiglie – colpevoli di avere un congiunto alla macchia – furono poste in stato di detenzione e giudicate dai tribunali militari straordinari di guerra.
Fu, insomma, quella che gli storiografi ufficiali – la storia è scritta sempre dal vincitore – definirono con disprezzo e faciloneria lotta alla delinquenza comune meridionale, “il brigantaggio”.
Ora sono passati quasi centocinquanta anni, il revisionismo di quel periodo storico è avviato, i tempi sono maturi per riflettere obiettivamente su quel periodo, per capire, senza giustificare le violenze di entrambe le parti, anche le ragioni di chi perse, per analizzare la portata popolare e la diffusione del brigantaggio meridionale, per inquadrarla in un contesto più aderente alla realtà di confusa rivolta anarcoide della classe contadina del Sud.
Per questo e per tante altre ragioni una settimana di studi può non essere sufficiente, ma è un passo importante per analizzare gli errori di allora traendone gli elementi per superare quelle occasioni di conflittualità ancora oggi esistenti.
Il Brigantaggio: non delinquenti, ma partigiani
Domenico Bolledi 17 marzo 2015 Storie
Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo.
(Marco Monnier, Notizie e documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero, Firenze, 1862, pp. 73-74)
Secondo l’enciclopedia Treccani, il brigantaggio altro non è che un “fenomeno, diffuso soprattutto in fasi di squilibrio sociale e politico, per il quale bande di malfattori, riunite e disciplinate sotto l’autorità di un capo, attentano a mano armata a persone e proprietà. Il nome proviene dai briganti, in età medievale soldati avventurieri a piedi, che facevano parte di piccole compagnie mercenarie”.
Se questo articolo seguisse i canoni ordinari della storiografia nazionale, poco altro ci sarebbe da dire. I briganti furono dei delinquenti e la loro distruzione, per opera delle forze sabaude, permise la nascita dell’Italia come noi la conosciamo. Tuttavia la storia dell’Unità d’Italia studiata nei libri di scuola, come purtroppo anche all’università è incompleta o per meglio dire errata. Questo lo si sa da tempo eppure tutto tace, nascosto da una secolare coltre di connivenza tra storici e politici. E nell’abissale silenzio di ciò che avvenne in quella fase da tutti osannata come “Risorgimento”, è necessario fare luce su quello che sono stati i briganti, partigiani ottocenteschi che combatterono per la libertà contro il dispotismo sabaudo, e quello che è il Brigantaggio, un fenomeno che si interseca con la storia del mezzogiorno contemporaneo e con la questione meridionale tutt’ora drammaticamente attuale.
Il Brigantaggio si sviluppa storicamente come fenomeno politico in appoggio ai Borboni, per poi trasformarsi nei primissimi anni post-unitari come forma di protesta sociale nei confronti di quell’unificazione nazionale, contemplata da Cavour e Garibaldi, che viene vista dalle popolazioni meridionali come l’ennesimo atto di forza di una potenza straniera nei loro confronti. Se al momento del voto plebiscitario che segnava l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla monarchia piemontese, in tanti erano a favore, convinti che ciò segnasse l’inizio di una nuova epoca di libertà, pronti ad affrancarsi dalle catene di un sistema sociale ed economico ancorato a modelli feudali da tempo obsoleti, il voltafaccia della classe dirigente, schieratasi in massa a favore dei Savoia con l’obiettivo evidente di mantenere i propri averi e consolidare le proprie posizioni di potere, spinse la popolazione a mobilitarsi.
Quando il 13 febbraio 1861, re Francesco II parte per l’esilio, si registrano immediatamente i primi disordini. Se all’inizio questi sono condotti solo da nostalgici fedelissimi dei Borboni, successivamente si registra l’ingresso sulla scena dei contadini, che ribellandosi al nuovo dominio, si ritirano sui monti dando vita a squadre di briganti. L’obiettivo del brigantaggio è duplice: da un lato colpire i ricchi proprietari terrieri conniventi con il nuovo regime, dall’altro attaccare l’esercito piemontese. La risposta sabauda è violenta ma al contempo inefficace: violenta perché sin da subito le perdite tra le fila dei briganti sono innumerevoli (si parla di oltre mille morti nel solo 1861), inefficace perché la rivolta sarà tutto fuorché effimera.
Nel 1863, su iniziativa del governo italiano, viene istituita una Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta dal deputato Giuseppe Massari. Nella relazione finale viene indicata come causa prima e unica del brigantaggio, la miseria delle popolazioni dovuta all’oppressione borbonica. La rivolta dei briganti secondo lo Stato era quindi dovuta alle condizioni di povertà in cui il popolo era stato ridotto dai Borbone e non per colpa dalla repressione piemontese. La relazione porta alla promulgazione della “Legge Pica” che autorizza lo stato d’assedio nei paesi in cui si registra l’attività dei briganti. Il risultato è catastrofico: negli anni della rivolta oltre cinquanta tra villaggi e paesi vengono rasi al suolo, innumerevoli sono gli stupri e le violenze sulla popolazione quanto i processi farsa e le esecuzioni sommarie. Tra le fila dei borbonici si registreranno oltre 250 mila morti, mentre per i piemontesi saranno più di 20 mila i caduti sul campo di battaglia, dal cui computo vengono esclusi tutti coloro che vennero fucilati per diserzione o tradimento. Uno dei pochi meriti della storiografia nazionale è il riconoscimento che questa guerra civile costò più vite di tutte le guerre risorgimentali messe assieme.
Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie. Nel 1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero; nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone. – L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria, ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione.
(Giovanni Turco, Brigantaggio, legittima difesa del sud. Gli articoli della “Civiltà Cattolica” (1861-1870), Il Giglio, Napoli, 2000, p. 187)