Views: 2
La contestazione della richiesta di pagamento avanzata dall’Agenzia Entrate Riscossione, dalla banca o da qualsiasi altro creditore: come si difende il debitore?
Quando si parla di intimazione di pagamento ci si riferisce, in generale, a una richiesta inoltrata dal creditore al debitore con cui il primo dà al secondo un termine ultimo entro cui adempiere, riservandosi all’esito di procedere per le vie legali. È una sorta di avvertimento, di ultima diffida (anche se nulla toglie che ad essa ne possano seguire di altre). Il concetto è molto generico e si può riferire sia a rapporti tra privati che a rapporti tra privati e soggetti pubblici (ad esempio una pubblica amministrazione titolare di un credito). Quando invece si verte nell’ambito delle tasse e tributi, l’intimazione di pagamento è l’atto di sollecito inviato dall’Agente della Riscossione prima dell’avvio del pignoramento nei confronti del contribuente. In questo articolo spiegheremo come impugnare una intimazione di pagamento e quali sono le possibilità, per il debitore, di contestare il credito fatto valere nei propri confronti.
Come impugnare una intimazione di pagamento di Agenzia Entrate Riscossione
Partiamo proprio dall’ultimo dei due casi analizzati: l’atto spedito dall’Agente della riscossione (che, per le imposte erariali, è l’Agenzia Entrate Riscossione mentre per quelle locali possono essere società private con cui Comuni e Regioni hanno stretto apposite convenzioni).
Come noto, quando l’Esattore deve intimare il pagamento al contribuente gli invia una cartella esattoriale. Il destinatario ha 60 giorni di tempo per adempiere altrimenti la cartella diventa definitiva e non più impugnabile. Dopo di ché, l’esattore può procedere al pignoramento, al fermo o all’ipoteca. Ma lo può fare solo entro 1 anno dal ricevimento della cartella stessa. Se decorre tale termine, prima di avviare l’esecuzione forzata deve notificare un nuovo sollecito che, in questo caso, si chiama intimazione di pagamento. L’intimazione di pagamento è quindi una sorta di “seconda cartella esattoriale”, che richiama la prima e, pertanto, è più sintetica.
Oltre che sul contenuto, ci sono delle importanti differenze tra la cartella di pagamento e l’intimazione di pagamento:
- termine per pagare: la cartella, come abbiamo detto, dà 60 giorni di tempo per pagare. L’intimazione di pagamento invece solo 5. Dopo tale termine si può avviare l’esecuzione forzata;
- termine di efficacia: la cartella di pagamento scade dopo 1 anno mentre l’intimazione di pagamento dopo 180 giorni. Alla scadenza, è necessario notificare una nuova intimazione di pagamento per poter agire, iscrivere un fermo o un’ipoteca (diversamente qualsiasi atto è nullo). Anche le successive intimazioni di pagamento hanno un’efficacia di 180 giorni.
Purtroppo, quando arriva una intimazione di pagamento non è più possibile contestare il merito della pretesa esattoriale, ossia i conteggi fatti dall’ente titolare del credito, l’esistenza del debito (a meno che lo stesso sia stato nel frattempo annullato da un giudice o sgravato dall’ente titolare) o il presupposto dell’imposta. Queste censure, infatti, dovevano essere sollevate ben prima, quando il contribuente ha ricevuto il cosiddetto “atto prodromico” ossia l’avviso di accertamento. Già con la cartella di pagamento è possibile sollevare contestazioni solo in merito a vizi formali dell’atto di riscossione. Lo stesso dicasi quindi per l’intimazione di pagamento che può esse impugnata solo per “vizi propri”. Ad esempio si può impugnare l’intimazione di pagamento se:
- manca l’indicazione del responsabile del procedimento;
- non contiene gli estremi della cartella di pagamento a cui si riferisce;
- non è mai stata notificata, in presenza alcuna cartella di pagamento;
- è stato emesso da un agente della riscossione di una zona territoriale differente dalla residenza fiscale del contribuente.
L’impugnazione contro l’intimazione si pagamento si deve esercitare entro 60 giorni dalla sua notifica e va presentata al giudice competente che:
- per le tasse è la Commissione Tributaria Provinciale;
- per le contravvenzioni stradali è il giudice di pace;
- per i contributi Inps e Inail è il tribunale sezione lavoro.
Qualora l’intimazione abbia ad oggetto somme già pagate, visti i tempi brevi concessi prima dell’avvio dell’esecuzione forzata (5 giorni), è consigliabile presentare subito ad Agenzia Entrate Riscossione la prova del pagamento.
Fino a tremila euro (per le tasse) il contribuente può anche difendersi da solo. Per le multe stradali lo può fare fino a 1.100 euro. Diversamente deve ricorrere a un legale (davanti alla commissione tributaria anche con un commercialista o un ragioniere). Dovrà in tutti i casi pagare prima il contributo unificato che è calcolato sulla sommatoria delle singole cartelle impugnate e in contestazione.
Come impugnare una intimazione di pagamento di altro tipo
Di norma, quando un creditore deve riscuotere una somma dal debitore gli invia prima una diffida, assegnandogli un termine entro cui adempiere. Questa diffida viene chiamata in svariati modi: messa in mora, sollecito di pagamento, intimazione di pagamento, ecc.
L’intimazione di pagamento viene inviata, di solito, quando il debito è già certo nel suo ammontare ed esigibile. Lo può fare, ad esempio, la banca quando il cliente non paga una rata o ha sforato il fido che gli è stato concesso; un privato quando ha prestato una somma a un amico e questi, alla scadenza, non l’ha restituita; un fornitore, dopo aver emesso la fattura, se il versamento non è avvenuto nei termini concordati; il danneggiato da un incidente stradale che non sia stato risarcito dall’assicurazione, ecc.
In caso di mancato adempimento alla richiesta di pagamento, il creditore potrà ricorrere al giudice. Se però egli è in possesso di una sentenza, un decreto ingiuntivo definitivo, un assegno emesso da non più di 6 mesi o una cambiale firmata da non più di 3 anni, egli potrebbe agire direttamente con un pignoramento. In tutti questi tre casi casi, l’intimazione di pagamento ha un nome ben preciso: si chiama atto di precetto ed assegna al debitore 10 giorni di tempo per corrispondere il dovuto.
La mancata risposta a una intimazione di pagamento non può considerarsi una tacita ammissione del debito; tuttavia è sempre bene contestare l’intimazione di pagamento in modo formale. Invece se si tratta di precetto, il debitore deve sapere che, non avviando un ricorso, potrà subire l’esecuzione forzata.
In generale, quando si usa il termine impugnazione si intende la contestazione di una pretesa davanti al tribunale anche se, impropriamente, tale parola viene usata per qualsiasi tipo di contestazione, anche quella stragiudiziale, fatta cioè con una semplice lettera di risposta.
In generale, come anticipato, è sempre meglio replicare a una intimazione di pagamento con un atto scritto (che non deve necessariamente essere scritto dall’avvocato, ben potendo essere compilato anche dallo stesso debitore). Servirà a chiarire le ragioni del debitore e a manifestare la sua buona fede.
Il debitore potrebbe anche ricorrere egli stesso al giudice, prima che lo faccia il creditore, per mettere a tacere le pretese di quest’ultimo. È quella che tecnicamente viene chiamata «azione di accertamento negativo del debito». In verità è più comodo, facile e meno costoso che l’azione giudiziaria sia intrapresa dal creditore perché in tal modo:
- spetta al creditore (ossia a chi agisce) l’onere di dimostrare il proprio credito: il debitore dovrà solo provare che il debito non esiste o che è stato già pagato o che esiste ma in misura inferiore (come nel caso in cui si contesti la qualità di lavori eseguiti);
- spetta al creditore (ossia a chi agisce per primo) anticipare le spese del giudizio, sia esso un decreto ingiuntivo o una causa ordinaria;
- non è detto che il creditore agisca; questi potrebbe fermarsi alla semplice diffida, ritenendo non conveniente dal punto di vista economico l’azione giudiziaria.