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dalla pagina Facebook di Michele Ruggiero, Pubblico Ministero Trani
È davvero incredibile quanto talvolta ci si possa sentire soli nel fare il proprio dovere!
Ad un Pubblico Ministero – il magistrato promotore di giustizia nel sistema penale italiano – capita spesso di avvertire questa sensazione di solitudine nel corso di processi particolarmente delicati: delicati come le verità che in quei processi si tenta di fare emergere, dapprima durante le indagini, poi nel corso del pubblico dibattimento.
Verità che spesso restano sullo sfondo, perché lì è bene che restino…
Verità che finiscono esse stesse sotto processo rischiando la più grave tra le condanne, quella all’oblio.
Un processo decisamente “delicato” è quello celebrato a Trani e concluso ieri…in primo grado.
Un processo ormai a tutti noto, a carico di agenzie di rating accusate di avere decretato e divulgato una serie di declassamenti e giudizi negativi nei confronti della ‘nostra’ Repubblica Italiana nel secondo semestre del 2011 ‘manipolando il mercato’, così calpestando la dignità del nostro Stato sovrano: perché – sia chiaro – subire continui declassamenti e stroncature come era capitato all’Italia in quello scorcio del 2011, passando agli occhi della comunità finanziaria internazionale per un Paese che avrebbe potuto non onorare i suoi debiti, era (ed è) una questione di dignità delle sue istituzioni e, prima ancora, del suo stesso popolo.
Una questione di “dignità nazionale”, anche se quelle stroncature fossero intervenute nel più rigoroso rispetto della normativa europea; figurarsi se, invece, si fosse dimostrato in un processo che quelle stroncature – sentenziate dai supremi giudici dei mercati, quali appunto le agenzie di rating – fossero maturate in spregio ai principi di legalità e trasparenza!
Ho condotto personalmente le indagini preliminari ed ho cercato di capire il come ed il perché di quella singolare sequenza di sonore bocciature: ad un magistrato, in fondo, non si chiede solo di sapere ma anche e, direi soprattutto, di capire.
Ho, dunque, iniziato ad investigare su quei ripetuti declassamenti decretati nei confronti dell’Italia e dell’Europa, misurandomi con la difficoltà di accertare fatti transnazionali complessi e maturati al di là dei confini del nostro Paese; all’esito delle indagini sono riuscito ad ottenere il rinvio a giudizio degli imputati.
Iniziato, quindi, il processo dinanzi al Tribunale, ho seguito ogni singola udienza dibattimentale avvertendo, ogni volta, una profonda ed amara sensazione di solitudine.
Sì, ho detto solitudine: un sentimento che mi assaliva non solo durante le udienze – mentre mi scontravo contro un autentico esercito di esperti avvocati e blasonati consulenti ingaggiando una serrata battaglia tra mille eccezioni, repliche, opposizioni e discussioni – ma anche al termine di esse; ed era proprio alla fine di quelle maratone dibattimentali che quel sentimento si faceva più forte: forse perché lo Stato, tecnicamente parte lesa da quei reati e perciò legittimato a costituirsi parte civile per azionare una pretesa risarcitoria nei confronti degli imputati, non era sceso in campo a lottare a fianco del Pubblico Ministero?
Devo, comunque, ammettere che tutte le volte in cui quell’amara sensazione mi pervadeva, un pensiero in fondo assai semplice giungeva in mio soccorso facendomi compagnia: quello che, nonostante la sproporzione tra le forze in campo all’interno dell’aula d’udienza e nonostante quell’inspiegabile assenza processuale dello Stato, lì fuori c’era tutto un popolo silenzioso che sentivo straordinariamente vicino; uomini e donne che lottavano nel lavoro di ogni giorno, faticando e rischiando, soli anche loro, forse molto più di me.
Era per quella gente semplice e silenziosa, il Popolo Sovrano, che dovevo farmi coraggio, resistere ed andare avanti in quell’ardua battaglia giudiziaria.
Se è vero – come qualcuno ha detto – che è impossibile vincere contro chi non si arrende mai, è altrettanto vero che in questo processo sapevo per certo che non avrei perso mai, come non avrebbe perso mai il mio Paese silenzioso, perché non ci saremmo arresi mai.
A tutti i miei fratelli d’Italia, piccoli e grandi, dedico questo enorme sforzo, con l’amarezza di non avere raggiunto – per ora – l’obiettivo, ma con la serenità che mi deriva dall’intima consapevolezza di aver fatto il mio dovere, tutto e fino in fondo.
Quando ci si impegna tenacemente per realizzare quello in cui si crede, si intraprende un cammino ed il risultato finale non conta più, diviene solo un trascurabile dettaglio.
Tutta la vita è un cammino: dovremmo affrontarla con determinazione, entusiasmo e fiducia, animati dallo stesso spirito di chi partecipa ad una staffetta e, dopo aver percorso il proprio tratto, passa nelle mani di un altro il testimone e con esso la Speranza.
Siamo anelli di una catena, siamo parte di un Tutto.