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Il processo a Salvini non fa scuola né sotto l’aspetto politico, né sotto l’aspetto giudiziario. Salvini è stato ministro dell’interno fino a settembre 2019 nel primo governo Conte (cd governo giallo-verde) durante il quale si è verificato il caso Open Arms. Successivamente, dopo settembre 2019, è intervenuto il rimpasto dal quale è entrato in carica il secondo governo Conte (cd governo giallo-rosso, con l’ingresso del PD). Durante quest’ultimo governo il Parlamento ha votato per l’autorizzazione a procedere sul caso Open Arms e, pertanto, ora la sinistra viene considerata da questo attuale governo la causa politica che ha dato il peso politico sul processo. Tuttavia, all’epoca anche la Lega aveva dato l’autorizzazione a procedere facendo leva sul fatto che l’azione di Salvini, quale ministro dell’interno, era basata sul dovere di difendere il confine dello Stato e il rispetto per il mandato elettorale. I social sono stracolmi delle autodifese di Salvini. Nella realtà ora la destra cavalca questa tesi (la responsabilità del PD nel processo) poiché il Parlamento, all’epoca dell’autorizzazione aveva una maggioranza diversa da quella del primo governo Conte, disponendo della componente di sinistra. Politica per politica, la chiacchiere stanno a zero, poiché la magistratura, che costituisce uno dei tre poteri dello Stato e come tale gode di autonomia di giudizio e di decisione (che piaccia o no!) – come gode della stessa autonomia il Parlamento (potere legislativo) e il Governo (potere esecutivo) – sta svolgendo il processo a Salvini rispondendo alla prassi legislativa consolidata e allo stato di diritto, a cui sono sottoposti in egual misura tutti i cittadini, sia che si chiamino Salvini sia che si chiamino Pinco Palla. Il problema è un altro: fare il ministro della repubblica italiana è un mestiere difficilissimo, in cui non basta avere cinque smartphone o l’auto blu, o l’elicottero. E’ un mestiere che va fatto con la testa libera, con il cervello pulito da ogni pregiudizio e con un grado di istruzione che consentono di lavorare e decidere nel “vero” interesse collettivo.