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Sgombriamo subito il campo dai conformismi: le donne, come scriveva Oriana Fallaci in «Il sesso inutile», non sono «una fauna speciale» e la complementarità delle due voci (quella femminile e quella maschile), non sono chiodi su cui oggi, con Giorgia Meloni alla guida del governo ed Elly Schlein a capo del primo partito di opposizione, il treno del dibattito può ingenuamente deragliare. Bisogna, al contrario, allungare lo sguardo e decifrare la realtà senza paraocchi, evitando i luoghi comuni che troppo spesso vengono rispolverati e che risultano, però, poco aderenti alla contemporaneità. Determinate, capaci di intuizioni folgoranti, abili nel parlare il linguaggio della verità e squisitamente ironiche, le donne hanno attraversato secoli in cui l’unica possibilità era vivere all’ombra opaca di una figura di sesso opposto ed è questo il motivo per cui, nella Giornata internazionale della Donna, la loro storia campeggia sulle pagine di tutti i giornali. Per diverso tempo l’origine della ricorrenza, che cade l’8 Marzo, è stata attribuita a un presunto rogo a New York in cui sarebbero morte centinaia di operaie. Poi le radici della celebrazione sono state collegate al primo «Woman’s Day» organizzato dai socialisti americani. Solo nel 1977 l’Assemblea generale delle Nazioni Unite propose a ogni Paese di dichiarare un giorno all’anno «Giornata per i diritti delle Donne e per la pace internazionale». Da allora la data è stata fissata sul calendario per mettere nero su bianco il diritto delle donne a una libertà inoppugnabile. Una conquista, questa, che va continuamente riconosciuta, consolidata e interpretata perché i tempi cambiano e il mondo gira con velocità forsennata. Prova ne è la vertigine causata dall’intelligenza artificiale: se guidata male, mette in crisi il sistema; se gestita con lungimiranza, facilita. Il rischio, però, abita soprattutto dove emergono nuove resistenze o rispuntano vecchi proclami che mettono a repentaglio i progressi ottenuti finora e portano a uno scollamento tra ciò che si pensa e ciò che poi accade davvero. Parlare di «pinkwashing», «girl power» e portare in superficie un femminismo mainstream, che cavalca la cultura pop e sotterra le vere battaglie del passato inciampando in slogan fuori fuoco, fa sì che le campagne a favore delle quali l’Italia si schiera (la parità di genere o di salario, la lotta alla violenza, per esempio) diventino rumori di fondo difficili da decifrare. Un allarme che arriva non dalla politica ma dagli episodi di cronaca, di cui più volte veniamo a conoscenza senza battere ciglio. Ce lo dimostra l’antisemitismo, che dimentica l’orrore della Shoah che ha obbligato bambine, adulte o anziane a sfidare la vita con i lavori nei campi di concentramento e ad accettare l’umiliazione dei capelli rasati. Ce lo dimostrano i rigurgiti di quell’islamismo che costringe le donne a vivere nascoste dietro alla nebbia del velo o che le ingabbia in recinzioni come pollai. Voci di peso, che riecheggiano dal passato e dalla modernità, impongono un esame di maturità, un’osservazione antiretorica. Da Livia Drusilla ad Artemisia Gentileschi, da Anna Frank a Rita Levi Montalcini, da Samantha Cristoforetti a Mahsa Amini, da Cecilia Sala alle tante Siri che intasano gli smartphone: trovare il bandolo, in una matassa di storie, non è mai stato così semplice. Coerenti nella mutevolezza e custodi di valori incontrovertibili, le donne sentono le aspirazioni del mondo e conoscono la misura di tutte le cose. E i claim a favore di telecamera non possono dimenticarlo.