Migrazioni : alle radici del male

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Questa settimana desidero fare un passo ulteriore. Questo blog si occupa di cultura internazionale, perciò non si limiterà a trattare solo questioni che coinvolgono in primo piano l’Italia, bensì anche quelle che apparentemente non c’entrano nulla con noi.

 Sottolineo l’”apparentemente”, dal momento che qualunque cosa succede in questo mondo si riverbera su di noi anche se non ce ne accorgiamo o, pur accorgendocene, poi ce ne dimentichiamo. D’altronde, nell’immaginario collettivo, la guerra dello Yom Kippur nel 1973 fra Egitto, Siria e Israele riguardava solo quegli Stati e le loro ataviche (per noi) questioni da risolvere!  Anche la rivoluzione khomeinista, del 1979, la prima cosa cui fa pensare è l’assalto all’ambasciata americana a Teheran con il sequestro dei suoi dipendenti per ben 15 mesi (il film “Argo” ce lo ha recentemente ricordato). Uno scontro tra titani, tra due Stati, entità comunque estranee alla nostra realtà.

Ma non è così. Non siamo una monade. Tutto ci riguarda. Anche l’Italia ne risentì!

Rileggete le date: 1973 e 1979. Ricordate le targhe alterne? La crisi, anzi le crisi petrolifere degli anni ’70? Bene, da dove sono nate? E chi ne ha pagato gli effetti?

 Siamo in un mondo in cui davvero “il minimo battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”. Se poi al posto del battito di una farfalla abbiamo eventi più cruenti, cosa dobbiamo aspettarci al posto dell’uragano?

 Quello di cui voglio parlarvi oggi è il genocidio. Ce n’è uno in corso e nessuno, o quasi, ne parla. Non perché non sia noto a chi di dovere, anzi. Prendete nota di una cosa: raramente un evento “internazionale” è imprevedibile. In genere esso si costruisce nel tempo, in anni, neppure in mesi. I segnali e le avvisaglie ci sono sempre, sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono coglierli. L’intervento russo in Siria sembra un evento spiazzante, ma lo ritroviamo annunciato nei verbali degli ultimi due anni del Consiglio di sicurezza. Quando la Russia ha iniziato i bombardamenti, qualcuno mi ha scritto “Irene, tu lo avevi detto!”. Ma io non sono una veggente, né tantomeno Putin mi aveva fatto una soffiata. Era più o meno tutto scritto: andava solo individuato il “quando” ma tutto il resto era pressoché ineludibile.

 Stessa cosa per quello di cui vi sto per parlare: più giù vi segnalerò un articolo di un anno fa, che riporta la notizia del fatto che le Nazioni Unite avvisavano della preparazione del genocidio in corso. Della preparazione! Cosa abbiamo fatto in quest’anno? Cosa abbiamo fatto per evitarlo?

A parte lo stigma per l’atrocità della cosa e lo sdegno che può suscitare in noi, quali ne possono essere gli effetti?

 Per farvi capire meglio dove voglio andare a parare vi ho preparato una cartina: in rosso, tra Ruanda, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo, trovate il Burundi, sì, quel puntino! In azzurro vi ho segnalato i paesi africani da cui provengono la maggior parte dei migranti che arrivano in Italia. Abbiamo sempre sulla bocca il nord Africa, ma esso costituisce perlopiù solo il luogo di transito. I posti da dove è iniziata e continua la spinta sono più a sud, al di sotto del Sahel, quella fascia opacizzata che vi ho segnalato in cartina. E quei posti, piano piano, li esamineremo uno per uno.

Con le stelline ho indicato i principali conflitti in corso, i principali non tutti!

E con quel rombo verde, tra Eritrea, Etiopia e Somalia, vi ho voluto indicare uno staterello, di cui nessuno parla ma dove l’Italia ha parecchi interessi oltre che una bella postazione militare: Gibuti.

 Vi ho segnalato il Mare Arabico, che è quello dove si svolgono le più grosse azioni antipirateria e dove, per intenderci, l’India ha illegalmente inseguito l’Enrica Lexie e arrestato i nostri Marò.

 Non che i pirati stiano solo lì, ma è lì che gli Stati hanno il maggior interesse a tutelare le rotte: quello è uno snodo di traffici di impareggiabile valore. A tal proposito vi ho segnalato lo stretto di Hormuz, tanto citato perché se l’Iran lo chiude ci blocca il grosso dei rifornimenti di petrolio.

E solo un po’ più su, ecco l’Afghanistan! Il “cuore del mondo”, secondo le tradizionali teorie geopolitiche.

 Vedete, questa (l’intera area che vi ho descritto) è una zona di cui nessuno di noi può ignorare l’esistenza e, possibilmente, le dinamiche principali. Lì si decidono la maggior parte delle cose di questo mondo – non tutte, ma moltissime! -; mentre ce le fanno passare per luoghi esotici e lontani, gli Stati fanno i loro giochi. Dobbiamo imparare a sentirli posti vicini, più vicini che mai.

Io cercherò di accompagnare il più possibile chi di voi abbia voglia di fare anche questo percorso.

 Dopo questa lunghissima premessa, a mio parere necessaria, partiamo.

Perché vi riporto la notizia del Burundi e del genocidio in corso? Perché rischia di coinvolgere, se non fermato in tempo, i vicini Congo, Tanzania, Ruanda e Uganda.

Guardate nella cartina quale sarebbe l’estensione del conflitto. Noi già abbiamo militari italiani in Repubblica Centrafricana oltre che tra Kenya e Somalia, perché le situazioni di quei Paesi son già di per sé molto preoccupanti. Di quanto si aggreverebbe la cosa con un’ulteriore ed esplosivo conflitto regionale?

 Da osservatrice esterna, l’impressione che ho avuto io è che un conflitto etnico sia di gran lunga peggiore di quello religioso. Ha radici ancora più profonde ed effetti più devastanti.

 Alcuni ci vedono lo zampino francese, perché facendo scoppiare un conflitto allargato, tornerebbe ad essere l’attore europeo principale nella zona. Certo, sarebbe un ossimoro, visto che la Francia è uno dei pochi Stati a condannare, anche con legislazione interna, il crimine di genocidio; è quella che intervenne per prima con un’operazione (la mission Turquoise) in Ruanda dopo il genocidio; e via dicendo. Tuttavia, la cosa non mi sorprenderebbe, se consideriamo come si comportò la Francia proprio nel genocidio ruandese.

 Innanzitutto, cos’è un genocidio?

Vi riporto la definizione della Convenzione ONU del 1948 che è più che esaustiva (art. 2):

per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

a) uccisione di membri del gruppo;

b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;

d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;

e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Quindi, le condotte che integrano il genocidio sono solo quelle in elenco.

 Ad esempio, si è cercato di far passare il concetto di “genocidio culturale” perpetrato dalla Cina nei confronti del Tibet, ma è difficile far combaciare le condotte. In più, come vi ho evidenziato, l’atto deve essere contro un gruppo, non un individuo. E soprattutto solo nei confronti di un certo tipo di gruppi: o nazionale o etnico o razziale o religioso. Non anche nei confronti di un gruppo “culturale”.

Inoltre, è necessario che la condotta contro questo gruppo sia posta in essere con la lucida e perfetta intenzione di distruggerlo, in tutto o in parte. Altrimenti avremo “semplice” sterminio, non genocidio.

Vi faccio queste distinzioni perché per ognuna di queste definizioni c’è una normativa, quindi tutto cambia. La definizione è importante.

 Fatta la premessa giuridica, andiamo ai fatti.

 In questo post, pur agganciandomi al Burundi, non vi parlerò della situazione in corso lì (però, per averne un’idea vi rinvio alla lettura di questo articolo: Burundi. Le Nazioni Unite informano della preparazione di un genocidio. E’ un articolo dello scorso anno, che però descrive abbastanza fedelmente la situazione in quel Paese, che non è cambiata di molto. Si è solo più radicata. Tant’è che quattro giorni fa ha avuto inizio il genocidio).

Io invece voglio parlarvi delle radici profonde che stanno alla base di quanto avviene ora in Burundi (quindi l’articolo sul Burundi vi consiglio di leggerlo dopo questo post).

 1994: Ruanda. Il Paese più densamente popolato dell’Africa, fino a quell’anno. La dinamica che si ripropone in Burundi è la stessa del genocidio ruandese: Hutu contro Tutsi. È la stessa per il semplice fatto che Ruanda e Burundi facevano parte dello stesso territorio coloniale, sotto dominio belga, che prendeva il nome di Ruanda-Urundi.

La percezione di questa divisione etnica è stata in gran parte effetto del dominio coloniale europeo, prima tedesco (dal 1897) e poi belga (1917, su mandato della Società delle Nazioni). L’antropologia razzista teorizzò che i Tutsi appartenevano a una razza diversa dagli Hutu (i termini esistevano già prima, ma si riferivano agli individui e non ai gruppi!) e questa distinzione doveva essere indicata nelle carte d’identità che i coloni introdussero. I Tutsi erano considerati intrinsecamente superiori in quanto più simili agli europei, infatti erano più alti e più chiari di pelle, quindi più intelligenti e più adatti al governo. Fu così che, sebbene gli Hutu fossero oltre l’80% della popolazione, i rappresentanti del governo coloniale erano i Tutsi.

La prima avvisaglia dell’odio covato si ebbe con le prime elezioni libere a suffragio universale (chieste dall’ONU al Belgio) nel 1956 in cui gli Hutu ottennero inevitabilmente la maggioranza. Ciò indusse il Belgio a dare progressivamente al Ruanda l’autogoverno, fino all’indipendenza nel 1962. In questa situazione di minoranza, i Tutsi emigrano in Uganda e Burundi, da cui facevano incursioni in Ruanda. Dal 1975 il generale Habyarimana prese il potere, con un colpo di stato, fino al 6 aprile 1994, giorno in cui l’aereo presidenziale su cui si trovava venne abbattuto da un missile terra-aria.

 Nel frattempo in Uganda si era organizzato il Fronte Patriottico Ruandese, composto da Tutsi, che nei primi anni ’90 aveva tentato un colpo di stato in Ruanda, non riuscendoci ma accendendo ulteriormente gli animi. Per “difendersi” da queste incursioni, il presidente Habyarimana (Hutu) aveva alimentato campagne d’odio attraverso l’utilizzo della radio, in particolare Radio Ruanda e Radio Mille Colline.

 Fatto sta che all’indomani dell’abbattimento dell’aereo presidenziale, gli hutu si riversarono contro i tutsi e contro gli hutu moderati che costituivano l’opposizione interna. Il via ai massacri fu dato proprio da Radio Mille Colline che incitava i cittadini a uccidere gli “scarafaggi tutsi”. Uno dei suoi conduttori fu l’unico non ruandese ad essere condannato dal Tribunale internazionale: Georges Omar Ruggiu, un italo-belga che dopo la condanna fu portato in Italia a scontare la pena, ma – come vi riferisce l’articolo che vi ho segnalato – nel 2009 esce di prigione (no comment).

 In cento giorni furono uccise circa un milione di persone, quindi cica 400 persone in un’ora, 6 persone al minuto. Fu una carneficina, a dir poco. Fu prevalentemente condotta a colpi di machete, ma per raggiungere le vette raggiunte in così poco tempo fu spesso utilizzata la tattica delle trappole: a migliaia di persone veniva assicurato un rifugio sicuro dentro degli edifici (chiese, comuni, scuole, palestre, ecc.) che, una volta riempiti, venivano sigillati e sistematicamente abbattuti. Ad aiutarli vi erano gli “insospettabili”, tra cui anche preti. Ad esempio Padre Seromba, che dopo i fatti era fuggito in Italia sotto falso nome e si era rifugiato in una parrocchia del fiorentino. Rintracciato, fu condannato per genocidio e sterminio per aver fatto abbattere a colpi d’artiglieria la propria chiesa parrocchiale in Ruanda, al fine di uccidere circa 2000 Tutsi che vi avevano cercato rifugio, e per aver poi partecipato in modo attivo al successivo massacro dei pochi superstiti.

 L’ONU a quel tempo aveva già una missione in territorio ruandese (l’UNAMIR – United Nations Assistance Mission for Rwanda), creata l’anno prima. Ma gli appelli del suo comandante, il generale Roméo Dallaire, – che mesi dopo tentò il suicidio per le scene a dir poco traumatiche cui aveva assistito – rimasero del tutto inascoltati: allertava sull’imminente genocidio in preparazione e chiese più uomini. Ma non solo questi gli vennero negati, bensì – una volta iniziata l’attività genocidiaria – questi uomini furono rispediti a casa e il contingente drasticamente ridotto: da 2.500 a 500.  Dallaire si rifiutò di lasciare il territorio ruandese e con gli uomini che gli erano rimasti riuscì a salvare migliaia di Tutsi.

Il Consiglio di sicurezza non riconosceva il genocidio in Ruanda per via del veto USA. Per sei settimane l’UNAMIR tentò di portare avanti un negoziato e, alla fine, il 17 maggio il Consiglio di sicurezza approvò l’invio di 5.500 uomini. MA, come vi ho spiegato nell’articolo precedente, non esiste un esercito ONU. I singoli Stati mandano un tot di uomini e poi tutti insieme appassionatamente si va in missione con il marchio ONU. Ebbene, in quest’occasione i singoli Stati si rifiutarono di mandare i propri uomini finché la violenza non si fosse un po’ calmata. Si arriva così al 22 giugno (ormai il massacro dei Tutsi stava volgendo al termine), giorno in cui il Consiglio di sicurezza approva la Mission Turquoise, composta da caschi blu francesi.

 La Francia però nei mesi precedenti, assieme al Belgio, era intervenuta in Ruanda: aveva mandato truppe per recuperare i propri cittadini sul luogo e poi andarsene. Il governo francese, inoltre, negli anni aveva armato e addestrato le FAR (forze armate ruandesi, quelle presidenziali) e aveva fiancheggiato le milizie hutu che si ritiravano dopo il genocidio quandoi Tutsi del Fronte patriottico, che vi ho citato su, entrarono in territorio ruandese raggiungendo Kigali (la capitale del Ruanda) e dando avvio a un governo tutsi.

La maggior parte dei mandanti e dei perpetratori del genocidio trovarono rifugio in quello che allora si chiamava Zaire, ora Repubblica democratica del Congo.

 La storia si ripete. Stavolta tocca al Burundi.

 Postilla: ricordatevi che eravamo nel 1994. Solo l’anno prima, l’amministrazione Clinton e gli americani avevano subito il trauma della battaglia di Mogadiscio (anche qui un film ci viene in soccorso, “Black Hawk Down”). Per la prima volta gli americani, i cittadini, avevano visto in diretta l’uccisione dei loro uomini. Un conto sono i bollettini di guerra, scritti, con una lista di nomi e di numeri; un conto è vedere live le atrocità fatte ai tuoi connazionali. Tutto ciò aveva portato alla decisione americana di lasciare la Somalia.

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