30 AGOSTO 1868. UN COLPO ALLE SPALLE

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(di Nadia Verdile)

Michelina Di Cesare, uccisa nello scontro a fuoco, venne denudata insieme ai compagni uccisi con lei e fotografata. Vollero immortalarla come monito al presente ma la consegnarono all’eternità. I corpi esposti nudi al pubblico ludibrio nella piazza principale di Mignano. Sfigurata, tumefatta, forse violentata mentre moriva o subito dopo morta, fu consegnata alla storia con i denti digrignati, in una smorfia di dolore che raccontava tutto della sua vita.
Finiva così, in una notte di tempesta, alla fine di agosto, la vicenda umana, pubblica e privata, di Michelina Di Cesare, nata povera, vissuta povera, usata perché povera.
Finiva così, con una fucilata alla schiena la lotta armata di una donna che aveva sepolto i genitori, il marito, la sorella, che aveva abbandonato il figlio, che aveva ucciso, rapito, rubato, sparato.
Amato.
Finiva così il sogno di giustizia e libertà di una donna nata per caso, in un paese abusato, in un Regno rubato.

Quando ho iniziato a studiare Michelina conoscevo di lei quello che avevo letto in rete. Dunque poco. Ho studiato moltissimi libri sul brigantaggio, su Michelina sempre e solo le stesse informazioni riportate nella cronaca dei documenti della polizia: scorribande, rapimenti, furti. In pratica non avevo niente, ma veramente niente, per scrivere la sua biografia, per raccontare la sua storia. Per qualche giorno ho pensato di desistere. Poi ho preso d’assalto i documenti d’archivio. Non quelli dei processi, quelli giudiziari che sono più o meno citati da tutti, ma quelli dello Stato Civile. È stato così che Michelina è venuta fuori con la sua storia familiare, quella vera che ha fatto cadere i copia e incolla che da anni si ripetono in tutte le narrazioni che la riguardano. Sbagliate le date, i dati sulla famiglia, quelli sul suo matrimonio, sbagliati i nomi. Sbagliato il rapporto di parentela con chi la tradì. L’hanno addirittura raccontata come una donna che leggeva Ivanhoe di Walter Scott mentre lei non sapeva né leggere né scrivere. Insomma, tutti hanno scritto senza mai aver letto le carte d’archivio.
Chi erano le brigantesse? Sui monti, nei boschi, alla macchia, decine e decine di giovani donne combatterono una guerra nella guerra. Alcune scelsero, altre furono costrette, altre ancora capitarono in quelle scelte senza averne consapevolezza, per mera necessità. In questo contesto si inserisce la vicenda personale e poi pubblica di Michelina Di Cesare. Ricostruire la sua vita prima del suo ingresso nella banda di Francesco Guerra sembrava quasi impossibile. Finora non si era cimentato nessuno. Le notizie pervenute raccolte in molti testi, cartacei e on line, sono spesso imprecise, errate e a volte molto fantasiose. Ho cercato di restituire verità su di lei e sulla sua famiglia, sulla sua vicenda matrimoniale e sui tempi effettivi del suo “battesimo” nel mondo dei briganti. Michelina scelse per necessità, per bisogno di libertà, per sete di giustizia e per solitudine.
Poi si innamorò, ma quella fu un’altra storia.

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L’ESERCITO DEI SALVINIANI

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Il mondo del “giornalismo” fascio-salvinian-berlusconiano è noiosamente prevedibile. Fa cordata, fa sponda con qualche sito gossipparo e soffre all’idea di avere pochi follower e ancor meno lettori. Mai che uno di loro buchi lo schermo, mai che uno di loro finisca alto in classifica, mai che uno di loro sappia usare i social. Evidentemente, e fatte salve alcune eccezioni, per essere giornalisti di destra non dico che sia obbligatorio non saper fare nulla: però aiuta. Con l’avvento della destra becerona attuale, il livello dei cortigiani nostrani si è ulteriormente abbassato. Gente che non sa scrivere, non sa parlare, ce l’ha a prescindere con tutto ciò che anche solo è vagamente “grillino” e tifa sempre per il padrone (sia esso Berlusconi, Angelucci o derivati). Eccone qui un breve, e tutt’altro che esaustivo, identikit per tipologie.

L’implacabile. Maurizio Belpietro. Per distacco il più bravo. Infatti dirige il miglior giornale di destra in Italia, con 8mila chilometri di vantaggio sugli altri (ci vuol poco, e lo sa anche lui). Belpietro è preparato, implacabile e orgogliosamente antipatico. A volte è il primo a sapere di sostenere belinate, ma sa sostenerle. Se con Sgarbi vinci in ciabatte, perché uno così si batte da solo, con lui no. E anche il suo allievo Borgonovo, con quell’aria marziale da gerarca spietato, non è televisivamente un osso facile.

ll situazionista. Alessandro Sallusti. Parlare di lui è difficile, per due motivi: è tutto fuorché antipatico (in privato) e dipende molto da dove egli si “esibisce”. Dalla Gruber fa il cane bastonato balbettante, da Floris l’arrembante berlusconiano in cerca di vendetta, da Giletti & Porro il pasdaran a casaccio: mai credibile, si direbbe quasi deliberatamente. Più efficace come editorialista, perché sa scrivere.

Il guitto. Mario Giordano. E’ il primo a sapere di esagerare oltremodo, ma ci marcia. In nome degli ascolti, e del mai sopito “Épater la bourgeoisie”, è disposto a tutto. Entrare col monopattino. Mangiare le sardine. Sfasciare una telecamera. Eccetera. A breve organizzerà tornei indoor di scorregge in prima serata. E sbancherà lo share.

L’irrilevante. Ce ne sono tanti, e poiché irrilevanti non se li ricorda nessuno. Quindi vi aiuto io. Per esempio: Franco Bechis. Ve lo ricordate? No. Appunto. Lui è così: sommamente evanescente. Vorrebbe essere Belzebù, ma al massimo è la controfigura moscia di Shrek. Dirige il più inutile dei quotidiani destrorsi, ha il carisma delle betulle affette da prognatismo e quando va in tivù non riesce mai ad attirare l’attenzione. Logorroico, monocorde, palloso. Se fosse un calciatore, sarebbe il quarto uomo.

L’elegante. Maria Giovanna Maglie. Entrata in Rai grazie a Craxi, uscita dalla Rai grazie alle “spese pazze”. Adoratrice dell’ultima Fallaci. Trumpiana sfegatata, salviniana indemoniata, meloniana di rimbalzo. Però ha anche dei difetti. Vive su Rete4, dove la usano come doberman in quota rosa, e sui social, dove ha meno seguito di Facci. Le va comunque riconosciuta una dote spiccata: svetta in eleganza.

Il niente. Pietro Senaldi. Ecco, Senaldi…niente, dai. Cosa vuoi dire di uno così.

L’alcolico. Vittorio Feltri. La sua prosa è un mix tra i rutti di Gozzano e i ditirambi di Teleste di Selinunte: arcaica, ampollosa, comicamente vetusta. In tivù è da anni una macchietta rubizza che spara boiate per costringere Crozza a spararle ancora più grosse quando lo imita. In taverna va benissimo, nel piccolo schermo fa tenerezza. Fategli una carezzina e mettetelo a letto.

(Oggi sul Fatto Quotidiano)

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Era solo un anno fa’ 15 agosto 2019

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Gentile Ministro dell’Interno, caro Matteo,

ti scrivo questa lettera aperta perché il caso della nave Open Arms domina ormai le prime pagine dei giornali e perché sono costretto a constatare che anche la corrispondenza d’ufficio tra la Presidenza del Consiglio e il Viminale viene poi riportata sui giornali e allora tanto vale renderla pubblica all’origine, per migliore trasparenza anche nei confronti dei cittadini.

Ti ho scritto ier l’altro una comunicazione formale, con la quale, dopo avere richiamato vari riferimenti normativi e la giurisprudenza in materia, ti ho invitato, letteralmente, “nel rispetto della normativa in vigore, ad adottare con urgenza i necessari provvedimenti per assicurare assistenza e tutela ai minori presenti nell’imbarcazione”.
Con mia enorme sorpresa, ieri hai riassunto questa mia posizione attribuendomi, genericamente, la volontà di far sbarcare i migranti a bordo.
Comprendo la tua fedele e ossessiva concentrazione nell’affrontare il tema dell’immigrazione riducendolo alla formula “porti chiusi”. Sei un leader politico e sei legittimamente proteso a incrementare costantemente i tuoi consensi. Ma parlare come Ministro dell’Interno e alterare una chiara posizione del tuo Presidente del Consiglio, scritta nero su bianco, è questione diversa.
È un chiaro esempio di sleale collaborazione, l’ennesima a dire il vero, che non posso accettare.
Come ho sempre pubblicamente rappresentato, il tema dell’immigrazione è un tema complesso. Va affrontato con una politica di ampio respiro, come ho provato a fare sin dal primo Consiglio Europeo al quale ho partecipato, a fine giugno 2018, evitando di lasciarci schiacciare dai singoli casi emergenziali.
Da subito ho elaborato una piattaforma politica fondata su sei premesse e dieci obiettivi, in modo da inserire tutte le singole iniziative in questa prospettiva strategica, sempre costantemente ispirata alla tutela dei diritti fondamentali e, in particolare, della dignità della persona e alla protezione dei nostri interessi nazionali, sovente compromessi nella gestione del fenomeno migratorio.
Ho personalmente contribuito a perseguire questo nuovo indirizzo politico, di maggiore rigore rispetto al passato, al fine di contrastare più efficacemente l’immigrazione illegale e la moderna e disumana “tratta dei disperati”, alimentata dalle organizzazioni criminali.
Ho viaggiato in lungo e in largo in Africa e nel Medio Oriente per incrementare la cooperazione nei Paesi di origine e nei Paesi di transito, dove si concentrano le rotte dei migranti.
Abbiamo sempre lavorato intensamente, coinvolgendo anche il Ministro Moavero, per rendere più efficace il meccanismo dei rimpatri per i migranti che non hanno diritto ad alcuna protezione.
Mi batterò sino all’ultimo giorno perché si affermi un meccanismo europeo, da applicare in via pressoché automatica, per operare una redistribuzione che veda tutti i Paesi dell’Unione pienamente coinvolti, in modo da evitare che i Paesi di primo sbarco, come l’Italia, siano abbandonati a se stessi.
Pur in attesa che si attui questo meccanismo europeo, sono sempre personalmente intervenuto, con gli altri Paesi europei, per pretendere e ottenere una redistribuzione dei migranti che sono sbarcati nei nostri porti. E a questo proposito dobbiamo dare atto che sia la Commissione europea sia alcuni leader europei ci hanno sempre teso la mano per sbloccare situazioni emergenziali.
Questo è il momento di insistere in direzione di una soluzione sempre più europea, altrimenti l’Italia si ritroverà completamente isolata in una situazione che diventerà, nuovamente, via via sempre più ingestibile. La nuova Presidente della Commissione Ursula von der Leyen, nei colloqui sin qui avuti, mi è sembrata molto determinata a percorrere questa strada e a darci una mano risolutiva.
In definitiva, se davvero vogliamo proteggere i nostri “interessi nazionali”, non possiamo limitarci a esibire posizioni di assoluta intransigenza. Abbiamo chilometri di coste e siamo a una manciata di ore di navigazione dall’Africa e dal Medio Oriente. Da ultimo tu stesso hai constatato come è difficile contrastare i quotidiani, minuti sbarchi clandestini.
Non possiamo agire da soli. Dobbiamo continuare a insistere in Europa, come peraltro hai fatto Tu, di recente a Helsinki. E’ questa la direzione giusta.
E poi non oscuriamo quello che abbiamo fatto di buono. Se mai rammarichiamoci per quello che ci riproponevamo di ottenere e ancora non abbiamo ottenuto.
Un ultimo aggiornamento sulla vicenda Open Arms.
Francia, Germania, Romania, Portogallo, Spagna e Lussemburgo mi hanno appena comunicato di essere disponibili a redistribuire i migranti. Ancora una volta, i miei omologhi europei ci tendono la mano.
Siamo ormai agli sgoccioli di questa nostra esperienza di governo. Abbiamo lavorato fianco a fianco per molti mesi e ho sempre cercato di trasmetterti i valori della dignità del ruolo che ricopriamo e la sensibilità per le istituzioni che rappresentiamo.
La tua foga politica e l’ansia di comunicare, tuttavia, ti hanno indotto spesso a operare “slabbrature istituzionali”, che a tratti sono diventati veri e propri “strappi istituzionali”.
Per queste ragioni mi sono ritrovato costretto a intervenire varie volte – l’ho fatto perlopiù riservatamente – non per l’ansia di contrappormi politicamente alle tue iniziative, ma per la necessità di rivendicare l’applicazione del principio di “leale collaborazione”, che è fondamentale per il buon funzionamento delle istituzioni pubbliche.
Il consenso politico a cui ogni leader politico aspira si nutre della fiducia degli elettori. Ma se non alimentiamo la fiducia dei cittadini nelle istituzioni pubbliche si crea un cortocircuito e alla fine prevalgono rabbia e disaffezione. Dobbiamo tutti operare per riconoscere piena dignità alle istituzioni che rappresentiamo, nel segno della leale collaborazione.
Hai alle spalle e davanti una lunga carriera politica. Molti l’associano al potere. Io l’associo a una enorme responsabilità.

Buon ferragosto,
Giuseppe Conte

Antonietta, l’ingegnere casertano che ha rifiutato le offerte del Nord ed ha reinventato l’Ingegneria Clinica della Federico II

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La 34enne casertana è tra le più giovani dirigenti: oggi è a capo di un gruppo di 9 persone.

Ad  un certo punto mi sono trovata a scegliere: partire per il Nord, dove avevo ricevuto diverse offerte lavorative in aziende sanitarie di grandi dimensioni, o restare a Napoli e provare a farcela qui, nella mia terra. Ho scelto ed oggi so di aver vinto la mia sfida”. La storia è quella dell’ingegner Antonietta Perrone, che a soli 34 anni è alla guida del Servizio di Ingegneria Clinica della Federico II. Antonietta, che dalla sua ha una volontà di ferro e un amore incrollabile per la Campania, ha sfatato ogni luogo comune sull’impossibilità di farcela puntando sul merito. Tanto più per una giovane donna nata al Sud. “Sono partita da zero – racconta dal suo ufficio –  nata e cresciuta in una famiglia operaia. La mia è stata la prima laurea in famiglia, anche se mia sorella mi ha seguito a stretto giro. Dopo il liceo scientifico sono partita da Caiazzo (piccolo paese dell’Alto Casertano) con un sogno e con la consapevolezza che non sarebbe stato facile”.

Gli studi ed il primo progetto

Nel 2006 Antonietta si trasferisce a Napoli e si iscrive alla Facoltà di Ingegneria, Corso di Laurea in Ingegneria Biomedica, della Federico II. Un cambiamento difficile e un lavoro come cameriera nel fine settimana. I soldi non sono tanti, ma bastano per mantenersi agli studi. «Con i risparmi sono riuscita a comprare la mia prima macchina, una Fiat 1, il venerdì dopo le lezioni mi mettevo in viaggio e andavo a servire ai tavoli – ricorda emozionata – la domenica notte tornavo a Napoli pronta per una nuova settimana in aula. Ammetto che non è stato facile, ma per la mia libertà e la mia indipendenza ho lavorato sin da piccola». Finalmente la gioia della laurea, conseguita con 110 e lode il 17 dicembre 2010, in Ingegneria Biomedica. L’ultima sera da studentessa cameriera Antonietta la vive il 31 dicembre del 2010. Poi, entra da dottoranda di ricerca alla Federico II. Il suo professore le parla infatti dell’opportunità di fare un dottorato di ricerca “sul campo” in una struttura sanitaria campana. Un dottorato difficile, purtroppo senza borsa di studio. “Ho accettato subito – dice Antonietta – ho fatto come nei 5 anni di studio: durante la settimana all’università e nei week end al ristorante”. Dopo il primo anno ciò che era iniziato come un prolungamento del periodo di studio sfocia in un accordo di programma tra l’AOU Federico II e la Facoltà di Ingegneria della Federico II per la progettazione del primo Servizio di Ingegneria Clinica dell’AOU. “Era il 2011 e il progetto si è concluso nel 2014. Un primo lavoro, i primi soldi ma, soprattutto, la mia chance”.

Il ‘no’ alle offerte del Nord

Antonietta da ricercatrice riesce a smuovere una montagna, mette in piedi e ottiene la validazione del progetto. Dal 2014 al 2016 si susseguono contratti precari, ma anche grandi soddisfazioni. “Gestivo il Servizio di Ingegneria Clinica che io stessa avevo immaginato e costruito, e intanto coordinavo il lavoro di diversi tesisti in collaborazione con la Facoltà di Ingegneria”. Nel 2016, quando Antonietta ha 30 anni, finalmente arriva la stabilizzazione con un contratto da funzionario tecnico a tempo indeterminato. Poi nel 2018 il passaggio a dirigente ingegnere. Antonietta è talentuosa e determinata, riceve una proposta dall’ASST Sette Laghi – Polo Universitario dell’Insubria (Azienda Sanitaria di Varese), di quelle che lasciano senza fiato: entrare a far parte della squadra con incarico di dirigente dell’area logistica sanitaria e acquisti. Una scelta tormentata, ma a fine luglio 2019 decide di accettare. Alla Federico II, intanto, si insedia il nuovo management.  “Ho passato un pomeriggio intero a colloquio con il nuovo direttore generale Anna Iervolino. È stata una scelta molto difficile, perché da un lato avevo grandi prospettive di crescita e carriera e dall’altro c’era la mia terra e l’Azienda Ospedaliera Universitaria dove lavorativamente sono nata. Sono stati tra i giorni più difficili della mia vita, alla fine ho cambiato idea e ho scelto di restare a Napoli. Negli ultimi anni – prosegue Antonietta – nella nostra regione le cose sono molto cambiate, ora chi ha tenacia, intraprendenza e determinazione può lavorare per realizzare i propri sogni”. 

A capo dell’Ingegneria Clinica della Federico II

E di risultati la giovane ingegnera della Federico II ne ha raggiunti molti. Dal 2011, con il suo dottorato di ricerca ha di fatto dato vita al primo Servizio di Ingegneria Clinica della Federico II. Un servizio che si occupa della gestione sicura, appropriata ed economica di tutte le tecnologie sanitarie all’interno delle strutture. “Semplificando – spiega Antonietta – il Servizio gestisce l’intero ciclo di vita di ciascuna tecnologia biomedica. La nostra Azienda Ospedaliera ne conta circa 10 mila”. Per riuscirci Antonietta Perrone ha studiato tutti i modelli riportati in letteratura e alla fine ha creato un sistema tecnico gestionale tutto suo, che, per specificità e dettaglio organizzativo, può essere assimilato ad un vero e proprio modello che lei stessa ha definito nel suo lavoro di tesi di dottorato “modello misto integrativo – MMI”. “Ho riprogettato un Servizio di Ingegneria Clinica, alla luce delle esigenze di un moderno Policlinico Universitario”. Il modello nato alla Federico II ha oggi ottenuto, unico in Campania, la certificazione di qualità ISO 9001:2015. Prossimo obiettivo? Creare una struttura che unisca le competenze del Servizio di Ingegneria Clinica a quelle dell’Information and Communication Technologies, del quale è responsabile dallo scorso Aprile. Una struttura che proietterà la Federico II ai più alti livelli di tecnologia e informatizzazione. Antonietta Perrone ha già raccolto la sfida. Partita da zero, oggi è a capo di un servizio di 9 persone, con un’età media di 33 anni. “Ho realizzato un sogno – ammette – ma non ho alcuna intenzione di fermarmi”.

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Caro Andrea Bocelli,

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Chiara Rossini
29.07.20

“Caro Andrea #Bocelli, ti scrivo da #Brescia, la provincia che, con la sfortunata sorella Bergamo, ha dato la metà dei contagiati totali della Lombardia e dei morti per Sars-cov2.
La quarta città in Europa per numero di vittime (rapportato alla popolazione), e, guarda caso, al primo posto c’è Bergamo. Ti scrivo dalla città che a marzo e aprile aveva il più grande covid hospital al mondo.
Ti scrivo dopo aver lavorato in un reparto che doveva essere covid free, ma che, sorpresa, non lo era. Ti scrivo dopo aver perso un parente, morto in pochi giorni, solo, a 71 anni e dopo che io e i miei figli ci siamo ammalati e, per fortuna, siamo guariti.
Ti scrivo dopo che ho scoperto che qui, a Bs e Bg non esiste più nessuno che non abbia incontrato il coronavirus, direttamente o indirettamente. Ti scrivo dopo aver lavorato per turni di 12 ore, dopo aver lavorato con camice, sovracamice, calzari, mascherina, visiera, due paia di guanti e cuffia, dopo essermi disinfettata le braccia, le mani con il cloro ogni giorno dopo la svestizione. Ti scrivo dopo che ho visto uomini di 56 anni ridotti a vegetali per encefalite da covid (e senza patologie pregresse), uomini di 48 anni colpiti da danni neurologici da #covid, donne che stavano bene uscire dopo 105 giorni di ospedale con danni polmonari permanenti e la bombola di ossigeno per sempre, persone in salute che non hanno più sensibilità ai piedi, per danni da covid. Uomini morire in 3 giorni, ventilatori accesi giorno e notte, dopo aver imparato cosa sia una tracheotomia cuffiata o scuffiata per tante che ne ho viste, sempre e solo per danni da covid. Ti scrivo perché l’immobilità dovuta alla terapia intensiva o all’astenia terribile da covid, ha aperto piaghe da decubito di quarto grado in persone molto giovani oltre che negli anziani. Ti scrivo perché ho visto due gemellini di 4 anni piangere di gioia abbarbicati alle gambe del loro papà che non vedevano da 120 giorni, a causa del virus.
Ti scrivo perché ho visto un reparto cambiarmi sotto gli occhi di giorno in giorno, barriere e muri creati ad hoc per isolare, nuovi percorsi, nuove barriere, nuovi sgabuzzini, nuovi modi di lavorare, vestiti da astronauti, col visus ridotto, senza fare pipì, bere o mangiare per tutto un turno. Ti scrivo dopo che per due mesi non ho potuto dormire, dal terrore, nonostante fossi così stanca da non reggermi in piedi. Ti scrivo dopo che la mia positività al coronavirus non è stata diagnosticata se non a posteriori, a spese mie. Ti scrivo perché ho visto persone di 30 anni aver bisogno di riabilitazione perché due settimane di terapia intensiva riducono la massa muscolare del 40%. Ti scrivo perché ho negli occhi e nel cuore le storie di decine di malati, ricoverati da più di 100 giorni, soli.
Ti scrivo perché sono stata assunta per l’emergenza e poi, a emergenza placata, lasciata a casa, precaria come prima.
Ti scrivo perché il silenzio e il deserto di Brescia in marzo ed aprile erano angoscianti, rotti solo dal suono delle ambulanze. Ti scrivo perché ho pianto di sollievo a rivedere mia madre e le attività commerciali riaprire. Ti scrivo, col cuore offeso e sanguinante dalle tue luride parole. E perché mi prende il panico e l’ansia ogni volta che leggo articoli sulla pandemia. E piango. Di paura, dolore e stanchezza.
E quindi, caro Andrea Bocelli, vaffanculo.
Di cuore”
(Chiara Rossini)

Le scuse di Bocelli

🇮🇹
Da sempre mi sono speso per combattere la sofferenza e l’ho fatto anche recentemente con l’avvento di questa sciagurata pandemia, come molti sanno.

Perciò se il mio intervento al Senato ha generato sofferenza, di questo io chiedo sinceramente scusa, perché proprio non era nelle mie intenzioni.

Così come nelle mie intenzioni non era di offendere chi dal Covid è stato colpito.

Del resto, come sapete, la mia famiglia non è stata risparmiata dal virus: siamo stati tutti quanti contagiati e tutti abbiamo temuto il peggio; perché nessuno può conoscere l’andamento di una malattia come questa, che è ancora oggi sconosciuta.

Lo scopo del mio intervento al Senato era quello di sperare in un prossimo futuro in cui i bambini soprattutto, possano ritrovare la normalità, possano sperare di vivere “da bambini”, giocando tra loro, abbracciandosi, come devono fare i bambini per poter crescere sani e sereni.
Questo solo era il senso del mio intervento ed a tutti quelli che a causa del modo in cui mi sono espresso – sicuramente non il più felice – e dalle mie parole hanno trovato ragioni per sentirsi offesi o hanno sofferto per quello che ho detto, a loro chiedo sinceramente scusa, perché le mie intenzioni erano tutt’altre, erano esattamente il contrario.

Andrea


🇬🇧
I have always endeavored to fight suffering and did so also with the arrival of this unfortunate pandemic, as many of you know.

Therefore, if my speech to the Italian Senate caused suffering, I wish to extend my sincere apologies, because my intention could not have been more different.

Just as it was not my intention to offend those who have been struck by COVID.

In fact, my family was not spared by the virus: we all caught it and we all feared for the worst, because no one can know the course a disease such as this will take, which is still partially unknown to us.

The intent of my speech to the Italian Senate was to send a message of hope for a near future in which – children first and foremost – can find again a sense of normality and can hope to live “as children”, playing with and hugging one another, as they should at their age, and to be able to grow up happy and healthy.
This, and this alone, was the meaning I intended to convey with my speech. To all those people who felt offended or suffered because of how I expressed myself – undoubtedly not in the best possible way – and the words I used, I ask that they accept my sincerest apologies, as my intention was quite the opposite.

Andrea

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Sempre pronto a puntare il dito

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“Il governo sta ammazzando la Sicilia, il governo odia la Sicilia. Pd e M5s odiano la Sicilia e di conseguenza il resto d’Italia”.
Lo ha dichiarato lui, Matteo Salvini, che dell’odio per il Sud e per l’Italia è stato per anni l’imprenditore per eccellenza.
Sì, lui. Lui che ha passato parte della sua vita a cantare “Vesuvio, lavali col fuoco”.
Lui che, quando ancora era un convinto secessionista padano, riferendosi ai meridionali scriveva che “dire prima il Nord è razzista? Ma per piasè, i razzisti sono coloro che da decenni campano come parassiti sulle spalle altrui”.
Sempre lui che, nel 2012, dichiarava che: “I meridionali l’Euro non lo meritano. La Lombardia e il Nord se lo possono permettere. Io a Milano lo voglio, perché qui siamo in Europa. Il Sud invece è come la Grecia”.
Proprio lui, l’uomo politico che, nel 2013, a proposito di una sentenza in cui si stabiliva che dire “L’Italia è un Paese di m…” costituisce vilipendio, commentava così: “L’Italia è un Paese di me**a. Arrestatemi”.
E come dimenticare quando, sempre nel 2013, in un congresso di quella che allora era ancora la Lega Nord, ebbe a dichiarare che: “Noi non siamo una speranza per i forestali della Calabria o per i lavoratori socialmente utili di Napoli. Ma perché dobbiamo pagare lo stesso stipendio alla maestra che fa bene il suo lavoro e alla maestra che non sa parlare l’italiano perché arriva da chissà dove? Non possiamo avere maestre piemontesi in Piemonte? Maestre venete in Veneto? Vigili urbani lombardi in Lombardia? Prima la nostra gente, prima i Padani e se dobbiamo andare oltre, rispetto a Bruxelles, prima gli italiani per quanto riguarda l’altra metà del Paese (il Nord)”.
Non basta indossare una maschera, senatore Salvini.
Noi non dimenticheremo mai chi il Sud lo ha odiato per davvero. E non lo faranno anche i meridionali. Ne siamo certi.

Carmelo Miceli

SleghiAMOlaSicilia

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Ritorniamo alle origini e….. Chi se ne frega….

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A costo di “indignare” qualcuno, le cose voglio dirle come stanno.

Leggo, purtroppo, che in tanti, troppi stanno facendo se non un tifo un mezzo tifo contro l’Italia sul Recovery Fund. E non parlo dei leghisti, ma di persone che difendono questo simpatico figuro qui, Rutte, giustificando l’Olanda con roba del tipo “Eh ma noi sprechiamo, e c’abbiamo il reddito di cittadinanza, e c’è la mafia”.

Ma ve lo posso dire sinceramente: eh ma chi se ne frega?

No perché scusate forse non è chiara la situazione: quei soldi ci servono. Perché la batosta c’è stata e noi italiani l’abbiamo presa dritta dritta sul muso (per primi, tra l’altro). Quindi, detto sinceramente, a me di tifare contro il mio Paese perché c’è qualcuno che prende il reddito di cittadinanza senza averne diritto, non interessa.

Ma fermi perché c’è anche di più. Come se non bastasse il bisogno di quelle risorse, ci sono altri due punti.

Il primo è che ne abbiamo diritto. E ne abbiamo diritto non solo perché siamo parte dell’Unione Europea; perché siamo il 4° paese per Pil della comunità: ma perché l’Unione l’abbiamo fondata noi. La CEE nasce infatti a Roma nel 1957.

Il secondo è che lezioni di moralità e di rigore da un paese che adotta un sistema fiscale che definirei in maniera colorita, attribuendogli un aggettivo marinaresco (ma non posso), e che ogni anno sottrae miliardi al resto d’Europa facendo il furbo, non ne dobbiamo accettare. Non possiamo accettarlo. Perché o si è frugali sempre, e allora le tasse si fanno pagare come gli altri, o la si pianta. Perché sennò a Roma c’è un modo di dire – anche qui – molto colorito che non ripeterò, ma che posso parafrasare dicendo che siamo tutti bravi a fare gli investitori con i soldi degli altri.

FonteEh però stavolta i soldi sono i nostri. E che l’Olanda ce li neghi mentre si ingozza con i soldi delle nostre aziende che son andate lì no, non sta bene. Come non sta bene che ci siano italiani che ridendosela facciano il tifo contro. Se proprio ci tengono, vadano loro a spiegarlo a famiglie, lavoratori e imprese che quei soldi non devono averli. Poi vedremo se rideranno anche gli interlocutori.
Leonardo Cecchi

IL GRANDE INGANNO DEL PIL PADANO

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(di Maurizio Zaccone)

Quante volte sentiamo dire di “Nord che traina”, di Regioni che “reggono” le altre e di “siamo stufi di pagare per voi”?
Questi concetti nascono dal fatto che le regioni del Nord hanno più aziende di quelle del Sud e quindi fatturano (e guadagnano) di più; conseguentemente pagano più tasse (visti i maggiori introiti).

Quel che si dimentica di dire sempre è però dove vendono queste aziende.
Dove creano il loro mercato e chi le finanzia.

Un esempio perfetto ci viene fornito oggi.

Ci sono 2 aziende del Sud: Multicedi (Campania) e Gruppo Arena (Sicilia), le quali gestiscono rispettivamente 535 e 179 supermercati; tutti al Sud.

Fatturano, insieme, oltre 2,3 miliardi di euro.

Oggi decidono di unirsi dando vita a “Decò Italia” una società consortile. Non è una fusione, ma una nuova società nata dalla loro partnership.
Lo scopo dichiarato è quello di “realizzare, sviluppare e gestire tutto il Mondo delle Marche Private per gli oltre 700 punti vendita dei 2 gruppi”.
Le “marche private” sono quei prodotti a marchio di una catena (ad es. Carrefour, Coop, Decò, ecc.), generalmente commissionati ad aziende terze e poi direttamente distribuite nei propri punti vendita. Un settore importante perché bypassa il costo della distribuzione e del marketing.

E dove avrà sede questa società? A Milano.

A capo di Decò Italia ci saranno Mario Gasbarrino (che dichiara: “sono cresciuto ed ho studiato a Napoli, da dove sono andato via appena laureato, e professionalmente sono diventato grande in Sicilia dove ho lavorato oltre 30 anni fa in una catena del Gruppo Arena”) e Gabriele Nicotra (“la scelta di Milano è coerente con lo spirito dei due soci fondatori che, seppur leader nel loro territorio di riferimento, ritengono fondamentale il confronto con le realtà più evolute del mercato distributivo”).

Cosa cambierà quindi?

Niente. I supermercati restano lì, al Sud Italia.
A vendere i prodotti alla gente del meridione.
E quando noi entreremo in un supermercato del Sud, comprando un prodotto a marchio di quel supermercato del Sud, magari anche (speriamo) prodotto in uno stabilimento del Sud, avremo contribuito al PIL di una regione del Nord, considerando la sede fiscale della nuova azienda che distribuisce quel prodotto.

Quel PIL che non noi, ma le Regioni del Nord, continuano ad esibire orgogliosamente per spiegare maggiore operosità e attitudine al lavoro. E, soprattutto, lo ritengono criterio fondamentale per una ripartizione di fondi diversa con l’Autonomia differenziata.

“Produciamo di più e dobbiamo avere di più” è il loro slogan.
Senza ovviamente conoscere questi piccoli dettagli. O, forse, conoscendoli perfettamente.

Fonte

https://www.adnkronos.com/soldi/economia/2020/07/15/partnership-multicedi-gruppo-arena-nasce-deco-italia_TAXvqtuSb1NvepGUtPrvpN.html?refresh_ce