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Sergio Mattarella andrà a inaugurare, ai piedi del Vesuvio il museo ferroviario forse più bello del mondo, lì sulle negre scogliere di Pietrarsa (alle porte di Napoli) si troverà difronte alla grande statua in ghisa di Ferdinando II di Borbone, meticolosamente restaurata dalle Ferrovie di Stato. Il re delle due Sicilie gli mostrerà, corrucciato, la scalfittura che le granate garibaldine gli hanno inferto sulla coscia sinistra, ma il presidente della Repubblica risponderà dolcemente additando a sua maestà la meraviglia di un luogo restituito alla bellezza dopo decenni di incuria, in trentanove mesi di lavoro, matto e disperatissimo, timbrati “Italia unita”.
Un armistizio? Un risarcimento? Un tornare a Canossa, come vorrebbero i neo-borbonici che quella statua hanno preso subito a venerare come simbolo di uno scippo piemontese? La riapertura ufficiale del museo di Pietrarsa è soprattutto il riconoscimento di una gloriosa continuità. Sì, perché su quei binari tutto ebbe inizio, il 3 ottobre 1839, con l’apertura della prima linea ferroviaria della Penisola, la mitica Napoli- Portici. Lì, dieci anni dopo, cominciò anche la storia industriale del Paese, con l’istituzione del Reale opificio siderurgico e pirotecnico, raggiungibile al km 5.839 della ferrovia capostipite.
Furono dunque i Borboni a dare la sveglia al Nord che, da allora, si dotò prontamente di una rete di livello europeo e, qualche anno dopo, a unificazione avvenuta, ripagò Pietrarsa trasformandola nella più grande officina di riparazione locomotive del Paese. Poi, quando finì il tempo del ferro e del carbone, nel quale l’ingegneria e la manodopera italiana avevano dato forse il meglio di sé, e iniziò quello dei computer e delle scartoffie, si pensò di trasformare quei capannoni grandi come cattedrali in museo ferroviario nazionale. Ma fu una brutta storia, che trasformò la bella spianata sul mare nel regno dell’abbandono e in un refugium peccatorum di raccomandati. Ci andai nel 2002, ma era tutto sbarrato. Museo chiuso, al costo di un milione l’anno.
«Quando vi giunsi nel dicembre del 2013 sembrava impossibile poter metterci mano», ammette Luigi Cantamessa, instancabile giovane direttore della Fondazione Fs, che con le migliori maestranze campane ha riportato il luogo a nuova vita. E precisa: «Avevamo tutti contro, perché facevamo gare d’appalto senza trucco». Ora, chi ha visto Pietrarsa al tempo delle ortiche e dei calcinacci, crede di sognare. Tutto tirato a lucido. Mobilio storico strappato alla distruzione e riportato all’antico splendore. Lavori di muratura ultimati. La passeggiata a mare forse più bella del Golfo, con vista su Ischia e Capri. Un ristorante “a chilometro zero”, dunque napoletanissimo, sotto l’antica tettoia — perfettamente restaurata — della stazione emiliana di Fiorenzuola d’Arda. Ma soprattutto il tempio dell’eccellenza rotabile italiana.
Sono tutte lì, le nostre nere locomotive, sotto grandi volte a sesto acuto, a godersi l’aria salsa dopo aver passato una vita a sgobbare. La 741 a camino storto, detta “Alpino”. L’elegante 640 chiamata “Signorina” per i sensuali fianchi alti. La “Regina”, come dire la mitica 685, centotrenta orari in pianura. La 480, lenta e inesorabile, fatta per i passi alpini. La 740, bella come una vivandiera partigiana, che nel primo dopoguerra attraversò l’Italia inghirlandata per portare a Roma le spoglie del Milite Ignoto. E soprattutto la piccola “Longridge”, battezzata “Vesuvio”, che tirò i vagoni del viaggio inaugurale del 1839.
Ma non basta: ecco le massicce locomotive mitteleuropee, lasciate sui nostri binari durante la ritirata degli Austriaci nel novembre 1918. E poi le motrici a corrente trifase, le littorine, i locomotori diesel e quelli elettrici, il muso aerodinamico del Settebello con veranda passeggeri sopra la cabina di guida, i vagoni cellulari per trasporto detenuti, la carrozza del re d’Italia, lussuosa oltre l’immaginabile, persino il vecchio “Centoporte” che consente la discesa a terra da ogni scompartimento, come nella storia di Anna Karenina. E ancora film, documentari, effetti speciali e guide capaci di evocare un’epopea. Un posto perfetto per adulti e bambini, che punta da subito ai 100 mila visitatori l’anno ed è già stato prenotato per convegni fino al 2019.
Chi scrive s’aspetta che Pietrarsa sia il segno di un nuovo ciclo dopo i sanguinosi tagli delle linee minori e la chiusura di tante stazioni. Sogno spericolato per chi ha sempre guardato ai capitreno come a dei sacerdoti e ai macchinisti come a dei maghi. Ma intanto già si profila una nuova sfida della memoria per le Fs: il museo ferroviario di Trieste, che raccoglie materiale inestimabile soprattutto di epoca asburgica e narra la storia di una crescente emarginazione ferroviaria della città “cara al cuore”. «Stiamo per metterci mano», promette Cantamessa. «Sarebbe il perfetto contraltare adriatico di Napoli. E qui anch’io ho un sogno: collegare le due città con un treno notturno che dia accesso gratuito a entrambi i musei».