Views: 3
Don Luigi Ciotti interviene sul caso della sentenza Riina: “Venga curato, ma resti in condizioni di non nuocere. I domiciliari agevolerebbero il crimine”.
La decisione della Cassazione che accoglie con rinvio al tribunale di sorveglianza il ricorso dei legali di Riina fa discutere. Quali riflessioni le suscita questa “apertura”?
«C’è chi ha letto nella sentenza della Cassazione un eccesso di indulgenza o perfino il segno di un disimpegno nei riguardi della lotta alla mafia. Premesso che l’attenzione al tema non deve mai venir meno, preferisco attenermi al merito della questione, che è certo giuridica, ma che chiama in causa anche altri fattori. Intendo dire che Totò Riina ha diritto, come ogni detenuto, di essere curato al meglio in carcere e, se necessario, in ospedale. Ma non bisogna dimenticare il suo peso criminale, che non è solo simbolico, e il diritto dei famigliari delle vittime ad essere rispettati e prima ancora riconosciuti nel loro dolore. Io ho la fortuna di conoscerne tanti: sono persone di grande dignità, animate dalla ricerca di verità e da una speranza incrollabile nella giustizia. Molte di loro s’impegnano per costruire una società più giusta. Non possono essere dimenticate».
Lo Stato di diritto non può essere vendicativo, ma deve trovare il giusto mezzo tra pietas e protezione dal pericolo. Il capo dei capi pur malato rappresenta ancora un pericolo?
«Lo Stato di diritto segue una logica di giustizia diversa ma non incompatibile con quella della misericordia a cui richiama Papa Francesco, una logica nata appunto per porre fine alla barbarie della vendetta. Quanto alla pericolosità di Riina, sarebbe da ingenui o da disinformati pensare che una detenzione agli arresti domiciliari non finirebbe per agevolarne l’attività criminale. Anche dal carcere è sempre lui a comandare, a dare indicazioni, come dimostrano anche le minacce rivolte a Nino Di Matteo e al sottoscritto. Quindi venga curato, si rivolgano al suo stato di salute tutte le attenzioni necessarie, ma sempre in una condizione nella quale non possa nuocere o nuocere il meno possibile».
Non solo le leggi dello Stato in caso di ergastolo ostativo chiedono di mostrare collaborazione per accedere ai benefici, ma pure il perdono cristiano presuppone un ravvedimento. Quanto conta nel valutare moralmente e in termini di pericolo l’assenza di ogni barlume di ripensamento?
«Le valutazioni della giustizia si limitano ai fatti, e nel caso di Riina i fatti dicono che non c’è stata alcuna forma di collaborazione. Quanto al ravvedimento, non si sono avuti nemmeno lì segnali di sorta. C’è sempre tempo, però. La sentenza della Cassazione parla di un «diritto di morire dignitosamente» che è sacrosanto, e che Riina realizzerebbe in pieno nell’incontro sempre schivato con la verità. Ci riveli i tanti segreti che porta con sé, le cause di tanto dolore, violenza, morte, e il suo morire sarà davvero un morire con dignità, se non nel perdono almeno nel rispetto».
Dignità e detenzione sono compatibili?
«Devono esserlo. Ce lo chiede la Costituzione, la legge dello Stato, all’art.27. Ce lo chiede l’essere la patria di Cesare Beccaria. Il grado di civiltà di un Paese di misura dalla qualità delle sue scuole, dei suoi ospedali e delle sue carceri. Qualche passo in avanti è stato fatto in tema di detenzione, ma la strada da percorrere è ancora lunga».