Views: 13
(Tragedia classica in tre atti
capolavoro dell’arte goliardica di Hertz De Benedetti- 1928
Stesura dell’ottobre 1999 a cura di Fabio Margoni)
PERSONAGGI:
BANANO PRIMO: Re di Culinto
FILIPPA: Regina, sua moglie
IFIGONIA: loro figlia
ALLAH BEN DUR: primo pretendente
DON PEDER ASTA: secondo pretendente
UCELLONE: conte di Belmanico, terzo pretendente
KIRO HITO: Samurai, quarto pretendente
ENTER O’ CLISMA: Gran Sacerdote
IN MAN KAG: Gran Cerimoniere
BEL PISTOLINO: Elefante Sacro
Coro di Nobili, Vergini e Popolo.
La vicenda si svolge in Culinto nell’anno 69 d.c.
ATTO PRIMO
Scena: La sala del trono.
Le porte sono spalancate per dare accesso al Popolo. Una folta rappresentanza popolare è infatti presente all’apertura del sipario. A questa si rivolge, entrando, il Gran Cerimoniere.
IN MAN KAG:
O Popolo bruto, su, snuda il banano,
non vedi che giunge l’amato Sovrano?
È il Sir di Culinto dal nobile augello
qual mai fu visto più duro e più bello.
Il Sir di Culinto dall’agile pene
terrore e ruina del fragile imene.
Il Sir di Culinto dal cazzo peloso
del cul rubicondo ognora goloso.
POPOLO:
Noi siamo felici, noi siamo contenti,[1]
le chiappe del culo porgiam riverenti.
Al nostro gentile ed amato sovrano
sia dono gradito il buco dell’ano.
Entrano il Re e la Regina seguiti dalla corte. Il Re prende posto sul trono, al centro della scena.
RE BANANO PRIMO:
La gioia che mi doni, o Popolo, è sì grande,
che più l’uccello regio non sta nelle mutande.
Per mio regal decreto sarà, da stamattina,
distribuita ai poveri gratis la vaselina.
Voglio sian compensati i sudditi fedeli,
in cul pigliatel pure, ma state attenti ai peli.
Il Popolo dà manifesti segni di gioia
IN MAN KAG:
Ed ora tutti fuori da coglioni
e fate largo a principi e baroni.
Il Popolo lascia libero lo spazio intorno al trono, entrano silenziosi i nobili che si dispongono ai lati del trono. Al centro dell’attenzione è ora, danzando con leggiadria, il Coro delle Vergini.
CORO DELLE VERGINI:
Noi siam le Vergini dai candidi manti[2],
siam rotte di dietro ma sane davanti.
I nostri ditini son tutti escoriati
a furia dei cazzi che abbiamo menati.
Nell’arte sovrana di fare i pompini
battiamo le troie di tutti i casini.
La lingua sapiente e l’agile mano
dan gioia e sollievo al duro banano.
Dalla candida schiera esce la principessa Ifigonia che si getta ai piedi del trono paterno
IFIGONIA:
Padre mio, padre mio,
sono presa da disìo[3]:
ho già il dito che fa male
per l’abuso del ditale,
ho la fica che mi tira
come corda della lira,
sto soffrendo atroci pene
pel prurito dell’imene,
nella fica fin ci ho messo
la manopola del cesso,
mi ficcai nella vagina
la più grossa colubrina,
mi son messa dentro il buso
sino il cero di Caruso[4].
Padre mio si forte e bello
ho bisogno di un uccello,
di un uccel di nobil schiatta
che mi sfondi la ciabatta,
di una fava grossa e dura
che mi sballi la natura.
Padre mio se non mi sposo
finirò nel water closo.
RE BANANO PRIMO:
Giuste son le tue brame, o figlia bene amata,
se non ti fossi padre ti avrei di già chiavata.
Alla regal consorte, tua madre, la Regina,
ne ho fatte diciassette soltanto stamattina[5].
REGINA FILIPPA:
Se mi alzo le vesti e guardi al di sotto
vedrai mio consorte che arrivi a diciotto.
Il Re fa un fugace cenno d’intesa alla Regina
RE BANANO PRIMO:
E debbo alle mie brame io stesso porre un freno,
se no ogni tre minuti il bandolo mi meno.
Or sento già un prurito nel fondo dei coglioni
vedendo tanti culi di principi e baroni.
POPOLO:
Noi siamo felici, noi siamo contenti,
si rizzino i cazzi tuttora pendenti.
Madonna Ifigonia, soave e pudica
già sente prurito all’inclita fica.
Che Giove possente, che Venere bella
le facciano dono di tanta cappella.
Che il culo le rompa, le rompa l’imene
e infine la tolga da tutte le pene.
Sia pago il disìo alla vergine cara:
meniamoci il cazzo in nobile gara.
Tutti eseguono. La nobile fanciulla, estasiata, non sa dove fermarsi con gli occhi.
IFIGONIA:
Quanta fava, quanta fava,
ma perché nessun mi chiava?
Su, ficcatemi l’uccello
nella fica o nel budello;
nella fica o nel sedere
ve lo chiedo per piacere.
Deh, non fatemi soffrire:
ve la cedo per tre lire.
RE BANANO PRIMO:
Udendo questa ataviche, oneste aspirazioni
d’orgoglio mi ribolle lo sperma nei coglioni.
Con l’animo commosso vedo tra i bianchi veli
spuntar lunghe e nere le punte dei tuoi peli.
venga Il sacerdote, si appresti un sacrificio,
Enter O’Clisma tosto ne tragga lieto auspicio.
IN MAN KAG:
S’avanzi Enter O’Clisma, il sacerdote
dal culo più vezzoso delle gote.
Vestito di splendide vesti, col sussiego proprio della sua alta carica, entra il Gran Sacerdote
ENTER O’ CLISMA:
Al Sir di Culinto, Signor degli Achei,
auguro cazzi in culo non men di centosei.
RE BANANO PRIMO:
Al Gran Sacerdote, d’ogni rispetto degno,
si doni come omaggio un bel cazzo di legno.
ENTER O’ CLISMA:
Il tuo omaggio, o Sire, mi rende il cuore gaio.
Però l’avrei più caro di ben temprato acciaio.
POPOLO:
Noi siamo felici, noi siamo contenti,
prendiamo l’uccello ben stretto tra i denti.
Al Gran Sacerdote quel cazzo d’acciaio
il culo riduca siccome mortaio.
ENTER O’ CLISMA:
Son corso immantinente alla regal chiamata
lasciando così a mezzo la settima chiavata.
Sono però sicuro, se il ciel non me lo nega,
che mi compenserete con una bella sega
che mi verrà tirata con arte sopraffina
dalla regal mano della gentil Regina.
Esprimi i tuoi voleri, o Sire venerando,
In fretta te ne prego, non vedi come bando?
RE BANANO PRIMO:
Alla mia figlia amata, la pallida Ifigonia,
da qualche tempo prude la rorida begonia[6].
O sacerdote eccelso, chiuditi in sacrestia,
prendi l’uccello in mano e fanne profezia.
ENTER O’ CLISMA:
Immantinente eseguo i tuoi voleri o Re.
Nel regal culo t’auguro cazzi novantatré.
E subito profitto, avendolo sì duro,
di far come nel rito il debito scongiuro.
S’inginocchia e litaniando
Salam lech, salam lech
nel futuro ho messo il bec.
Non c’è bene, non c’è male,
non c’è membro senza bale.
Non c’è donna senza fica,
non c’è uom che non lo dica.
Non c’è serva che non spari
belle seghe ai militari.
Non c’è balia che al pompiere
non la faccia almen vedere,
com’è larga la sua tacca
finché questi non la spacca.
Non c’è al mondo una ragazza
che al sognar non vada pazza
per un cazzo fuor misura
che le sballi la natura
e che il sogno non concluda
che la fica non le suda.
Non c’è in terra giovanotto
che non dica d’aver rotto
con l’uccell fuori ordinanza
per lo meno qualche panza
mentre invece ha un pistolino
assai corto e mingherlino
che d’un subito s’affloscia
se lo metti sulla coscia.
Non c’è donna senza veli
non c’è cazzo senza peli.
Mentre invece più mi garba
se la fica è senza barba,
invitante e un poco pingua
per ficcarvici la lingua.
Senza sol non c’è mattino,
senza amor non c’è pompino.
Non c’è tram senza tramviere,
non c’è cul senza sedere.
Non c’è al mondo giovinetta
che una volta almen non metta
dentro al culo per benino
piano piano il suo ditino.
Non c’è uccel che non si rizzi
e non faccia degli schizzi.
Non c’è donna savia e folle
che al vederlo così molle
non si chieda a tutto spiano
come mai farà il banano
a mutar di dimensioni
se lo tocchi sui coglioni.
Tutto questo di sicuro
parte fa dello scongiuro.
Ma perché venga benone
poso il dito sul coglione
e se poi siete contenti
vo a finir gli esperimenti.
Dopo un profondo inchino il Gran Sacerdote si allontana. Ifigonia, emozionantissima, non sa dove mettere le mani.
RE BANANO PRIMO:
Adunque esulta figlia mia diletta
per la gioia che ti spetta:
per soddisfar le tue brame
avrai tosto un pezzo di salame.
REGINA FILIPPA:
Intanto per tenerti in esercizio
sarà bene che t’allarghi l’orifizio:
ti sceglierò io stessa per le prove
di sponda un letto di sessantanove,
e quanto di meglio esita qui in Culinto
in frutti di banano a tipo spinto[7].
IFIGONIA:
Santo Dio, santo Dio,
questa volta l’avrò anch’io.
Sospirando quel belino
voglio farmi un ditalino:
ve lo chiedo con permesso,
vo a tirarmelo nel cesso.
Fa per avviarsi, il Re, vivacemente alzandosi, la trattiene.
RE BANANO PRIMO:
Rimani, o sconsigliata. Il padre tuo diletto
Innanzi al Popol tutto ti gratterà il grilletto,
mentre il Cerimoniere, memore del mio pegno,
m’inculerà da dietro col cazzo suo di legno.
Se con le bianche mani mi tieni su i coglioni
vedrai nella mezz’ora quaranta polluzioni.
Eseguono. E anche il Popolo, dal canto suo, partecipa alla generale eccitazione.
POPOLO:
Noi siamo felici, noi siamo contenti,
il Re ce l’ha duro in tutti i momenti.
Seguiamo l’esempio del caro sovrano:
facciamoci forza, pigliamolo in mano.
Rientra, solenne e un po’ provato, il Gran Sacerdote.
ENTER O’ CLISMA:
Nel filtro del futuro apersi uno spiraglio
mettendomi nel culo un mezzo spicchio d’aglio.
RE BANANO PRIMO:
I detti tuoi sapienti sian rapidi e fatali
come fuori dall’ano i nodi emorroidali.
ENTER O’ CLISMA:
Seguendo i tuoi consigli, o Re buono e sapiente,
misi l’uccello duro sopra un braciere ardente.
Mi lessai il coglion sinistro, ne bevvi poscia il brodo,
grande e divino auspicio traendone in tal modo.
“Tra i principi del sangue dal bel tornito uccello
bandito sia un concorso con un indovinello:
che in fica di Ifigonia, la bella, non si vada,
se pria non verrà sciolta almeno una sciarada.”
IFIGONIA:
Dalla gioia son toccata,
già mi sento un po’ bagnata
al pensiero di quel cazzo
che darà a me sollazzo.
Sarà forte duro e bello
prepotente quell’uccello?
Con la punta un po’ rosata
con la schiena un poco arcuata?
Duro, rigido e flessuoso,
ben spavaldo o timoroso?
Già lo sento tra le gambe
ondeggiare in pose strambe,
penetrar nella vagina
o tentar la pecorina,
passeggiarmi sulla pancia,
le mammelle e sulla guancia.
Or m’assale il ghiribizzo
d’assaggiare il bianco schizzo.
POPOLO:
Noi siamo felici, noi siamo contenti,
udendo Ifigonia scandir tali accenti.
Il gusto di vivere è certo più bello
se dentro la fica s’adagia l’uccello.
ENTER O’ CLISMA:
Toccatevi i coglioni, se potete,
perché là vidi transitare un prete!
Tutti eseguono. Soltanto Ifigonia, troppo felice, non bada all’avvertimento del destino e dal resto non ha alcun paio, ahimè, di coglioni a portata di mano.
Cala la tela sul primo atto.
ATTO SECONDO
La stessa sala. Sono presenti il Re, il Gran Cerimoniere, Ifigonia, i principi pretendenti di Ifigonia col loro seguito e il Popolo. In attesa che la cerimonia abbia inizio, i quattro conversano signorilmente, presentando l’uno agli altri le proprie caratteristiche più appariscenti.
ALLAH BEN DUR:
Ho riempito un orinale
col sudore delle bale!
DON PEDER ASTA:
Ho riempito un gran mastello
con la broda dell’uccello!
UCCELLONE:
Ho riempito tre bidoni
con il succo dei coglioni!
KIRO HITO:
Ho riempito una caserma
solamente con lo sperma!
ALLAH BEN DUR:
Ho creato un nuovo lago
col prodotto del mio mago[8]!
RE BANANO PRIMO:
A voi che della terra siete i migliori coglioni,
rivolgo il mio saluto, cari principi e baroni.
Sarete già al corrente di quel che ho decretato
con il provvedimento che ho steso e poi firmato.
A ogni modo ci tengo a farvi noto
che quello che più conta è solo aver lo scroto
potente, blasonato, di nessun male affetto,
noto per le chiavate in piedi oppur sul letto.
E come sia, mettetevi a sedere
ve ne darà lettura il Gran Cerimoniere.
IN MAN KAG:
L’anno sessantanove, il dì del due di agosto
dalla Maestà Reale con animo disposto,
bandito fu un concorso con un indovinello
fra i principi di sangue dal ben tornito uccello
premio nobile e raro, ben chiaro lo si dica,
sarà d’Ifigonia più che il cul la fica,
della vergine purissima che nulla ha di finto.
Firmato: Banano Primo, Sire di Culinto.
Il Popolo acclama; il Gran Cerimoniere impone il silenzio con un largo gesto
IN MAN KAG:
S’avanzino senz’altro i pretendenti.
poi, rivolto al Popolo
Voi fate largo, e al culo state attenti.
ALLAH BEN DUR:
Io sono Allah Ben Dur dal poderoso uccello[9]
e vengo dall’Arabia a dorso di cammello.
La strada fu assai lunga e tutta senza tappe
sicché dal gran sudor mi bruciano le chiappe.
Raggiunta alfin la meta di sì tremendo viaggio
ho piedi, culo e fava che puzzan di formaggio.
Sul dorso del cammello so far mille esercizi,
infransi più di un culo all’ombra dei palmizi.
I miei coglion lucenti, senza badare al puzzo,
simiglian, per volume, alle uova di uno struzzo.
Son bruno, ardito e forte, devoto musulmano,
son dell’Arabia intera certo il miglior banano.
Ai vostri piè depongo il mio ferrato uccello,
col l’aiuto d’Allah sciorrò l’indovinello.
IFIGONIA:
presa dalla solennità del momento, leggendo da un grande libro posto su un alto leggio
Avvenne un dì che un nobile prelato
lo mise tutto in culo a un capriolo.
Un figlio dal connubio essendo nato,
si domanda: com’era un tal figliolo?
Allah Ben Dur dà segni di incertezza
ENTER O’ CLISMA:
Se non rispondi nella settimana
mi faccio del tuo scroto una sottana.
ALLAH BEN DUR[10]:
Sempre più confuso, balbettando
Veramente … Quel prelato …
Dentro il cul del capriolo …
Non so dire … Avrà pigliato
per lo meno un po’ di scolo[11]
Al sentir nominare lo scolo tutti inorridiscono. Il Popolo, in particolare, è incazzatissimo e fa platealmente gli scongiuri
POPOLO:
Noi siamo infelici, noi siamo scontenti,
ti secchino il cazzo i nostri accidenti.
Gli uccelli si affloscino in segno di duolo
quel brutto vigliacco ci parla di scolo!
Il principe, pallido e frastornato, è trascinapH3ӣU pH3ӣU հӣU З0ӣU ؈3ӣU H3ӣU @ H3ӣU r>Venga il secondo con il cazzo dritto.
DON PEDER ASTA:
Io son Don Peder Asta, gran nobile spagnuolo,
astuto oltre ogni dire, viaggio col protargolo
e sei preservativi, per non subire l’onta
di prendermi lo scolo all’atto della monta.
Con un sorriso invitante la vergine principessa fa segno al pretendente di avvicinarsi a portata di naso
IFIGONIA:
Principe saggio, devi dire a me:
da quanti giorni non fo più il bidè?
DON PEDER ASTA:
Fidandomi del senso dell’olfatto
ti debbo dire che non l’hai mai fatto.
IFIGONIA:
Villanzone, infame traditore.
Tu offendi il mio pudore!
POPOLO:
sempre più indignato
Lo sanno le troie, lo sanno i lenoni[12],
i cazzi lo sanno, lo sanno i coglioni:
nel dì di Giunone, con mossa pudica,
madonna Ifigonia lavossi la fica.
Coi suoi venti chili di augusto formaggio
fu fatta una palla di un metro di raggio[13].
Al prence sia data la pena infamante
di prenderlo in culo dal sacro elefante.
RE BANANO PRIMO:
Voglio siano esauditi del Popolo i voleri:
venga Bel Pistolino coi suoi cento staffieri;
quaranta archibugieri intanto, piano piano,
l’aiutino un pochino col palmo della mano
e, nel caso imprevisto che non gli venga duro,
lo sfreghino senz’altro un poco contro il muro.
Entra e tronfio s’avanza il sacro elefante Bel Pistolino che, alla vista del nobile spagnolo pronto alla bisogna, mostra chiari segni di eccitazione mentre il Popolo è pieno di furente entusiasmo
POPOLO:
Pompa, pompa come un mulo!
Fagli tremare le chiappe del culo.
Daglielo mollo, daglielo duro,
fagli tremare quel buco si scuro.
Daglielo duro, daglielo mollo,
fagli tremare le vene del collo!
ENTER O’ CLISMA:
Il secondo campione è liquidato,
sia almeno il terzo il prence fortunato!
UCCELLONE:
Sono il nobile Uccellone,
sono conte e son barone.
La mattina, appena desto,
me lo meno lesto lesto,
poi mi sparo a colazione
qualche rapido raspone;
quattro seghe a mezzogiorno
non fan male per contorno;
alla sera, per divario,
rompo qualche tafanario,
ed alterno col pompino
la chiavata a pecorino;
sulla punta del mio pene
mille infransi fiche amene.
Vedi? Bando come un mulo
alla vista del tuo culo!
Visibilmente interessata, Ifigonia torna a volgersi al sacro grande libro
IFIGONIA:
Sai tu dirmi il mistero della sfinge
la quale prima caca e dopo spinge[14]?
UCCELLONE:
Mi colma, o Ifigonia, la tua parola oscura
i corpi cavernosi di gelida paura!
Già sento roteare, con ratto alterno moto,
i possenti testicoli entro il peloso scroto.
Ho nel profondo cuore una puntura sorda
quasi che una dozzina di piattole mi morda.
Oh nobile fanciulla, alle parole altere
sento che si rilascia persino lo sfintere.
RE BANANO PRIMO:
E brami, o tracontante, la mano di mia figlia?
Col culo pieno d’aglio farai la Mille Miglia[15]!
ENTER O’ CLISMA:
Sia subito eseguito il sovrano volere:
si porti, senza indugio, d’aglio un gran paniere.
Uccellone di Belmanico scoppia in una fragorosa risata
RE BANANO PRIMO:
E ridi, o sconsigliato, al pensier di gran travaglio
di far la Mille Miglia col culo pieno d’aglio?
UCCELLONE:
Mi fate pena, oh poveri coglioni,
che per riempirmi il culo ne occorron tre vagoni!
Pieno d’aglio il sedere, novello Errante Ebreo[16],
io batterò in volata la rossa Alfa Romeo!
Si allontana baldanzoso e irridente mentre, con aria incantata e tono dolcemente nostalgico, la giovane principessa, malinconica, gli porge il suo saluto
IFIGONIA: nostalgica
Addio nobile Uccellone, prode mio Signore!
A perder la tua fava non si rassegna il cuore.
Non hai colpa veruna se, con l’uccello dritto,
giammai scandagliasti le Sfingi dell’Egitto,
se invece mille fiate[17] alla tua chioma fulva
s’intresseron tenaci i peli della vulva.
RE BANANO PRIMO:
Non piangere Ifigonia, lustro dei peli miei,
sii paziente e devota ai detti degli Dei
e se il richiamo atavico ognor nel cuor risenti
tranquilla sta ch’è sol questione di momenti.
Si è fatto avanti, nel frattempo, il quarto pretendente
KIRO HITO:
Io son Kiro Hito, son mandrillo;
lo metterei nel culo pure a un grillo.
Son figlio del Giappone, Kiro Hito,
ho un paio di coglioni di granito.
Ma facciam presto con le spiegazioni
che temo di sbrodar nei pantaloni.
Ifigonia legge il quarto, decisivo indovinello
IFIGONIA:
Stavasi un eremita in Poggibonsi
che non cacava e non faceva stronzi.
Or dimmi: quando un rutto egli tirava,
ai suoi fedeli che impressione dava?
KIRO HITO:
A simile domanda una risposta sola:
avea quell’eremita il retto nella gola!
La storia già ci narra del Principe Gargiulo[18],
il quale nella faccia rassomigliava a un culo.
Ne son più che sicuro e dirlo posso lieto:
dell’eremita il rutto puzzava più di un peto!
Grande eccitazione. Il Gran Cerimoniere apre e consulta una pergamena facendo poi ampi e evidenti segni di approvazione. Il Re si alza e va incontro alla figlia raggiante
RE BANANO PRIMO:
Un uomo siffatto, che ha tanto cervello,
ragiona certamente con l’uccello.
Eccoti dunque figlia bene amata,
la fava ritta, tanto sospirata!
Sii degna dell’uccello conquistato,
mai obliando i lustri del Casato.
Ricorda Bertolina, tua germana,
che arrossiva sbucciando una banana,
ma che un dì, presa da furor demente,
cacciossi nella fica un ferro ardente
perché al Baron Carlo dei Baroni
furon tagliati il cazzo ed i coglioni
mentre la Filiberta illustre e saggia
il culo s’incendiò con l’acqua raggia.
Aveva scelto la morte al nero duolo
di curarsi lo scol col protargolo
e la nobil Figonia, tua bisava[19],
sempre invitta nel gioco della fava,
morì vetusta d’anni in un bordello,
col cuore trapassato da un uccello[20].
IFIGONIA:
Il sorriso della fica
la mia gioia alfin vi dica.
Son felice e son beata
perché al fin sarò chiavata
ma vi giuro sugli Dei
di pensar ancor ai miei,
al Re, come alla Regina
che mi lecca la mattina:
a lui dono un sospensorio
come stemma provvisorio
e a lei l’originale
di un bel cazzo artificiale.
Il Gran Sacerdote unisce ritualmente le mani dei novelli sposi. Giubilo universale
POPOLO:
Noi siamo felici, noi siamo contenti,
si rizzin di gioia i cazzi frementi.
L’uccello del prence di gioia ci inonda
mettiamoci tosto il culo di sponda.
VERGINI:
Noi siamo le Vergini dai candidi manti,
s’intreccin le danze, s’innalzino i canti:
lasciamo le seghe, lasciamo i pompini,
mettiamo da parte i bei ditalini!
E’ giorno di festa: l’azzurra pervinca
mettiamo all’occhiello del muso di tinca[21]!
IN MAN KAG:
E risuoni nella reggia
perlomeno una scoreggia[22]!
Esegue roboante a conclusione del sacro rituale.
Tra le ovazioni generali cala la tela sul secondo atto
ATTO TERZO
Sono ormai trascorsi molti giorni dai fausti sponsali.
SCENA: La camera nuziale. A destra una porta che dà nell’appartamento del Re; in fondo a sinistra, si nota un elegante water-closed con catena pendente. I due giovani giacciono sul talamo.
IFIGONIA:
Mio Kiro Hito, Prence Samurai,
il tempo passa e non mi chiavi mai!
KIRO HITO:
Desisti dalle inutili e vane petizioni:
non vedi che cominci a rompermi i coglioni?
IFIGONIA:
Fammi vedere le palle di solido granito[23],
fammi toccar l’uccello almeno con un dito!
Che brami o Kiro Hito dalla tua dolce amica?
Vuoi saggiare il mio culo o rompermi la fica?
Rassegnato di fronte a tanta ostinazione, non senza qualche sofferenza, il giovane sposo sospira
KIRO HITO:
C’è una cosa che ancora non ti ho detto,
terribile è il segreto che brucia nel mio petto!
IFIGONIA:
Deh, parla Kiro Hito, mio divino!
T’ascolto col canal di Bartolino[24]!
KIRO HITO:
Un giorno, or son quattr’anni, soffrendo per un callo,
stavo prendendo un bagno nel grande Fiume Giallo
e, come è sempre in uso tra i nobili signori,
stavo rompendo il culo a paggi e valvassori[25].
Quand’ecco di lì passa un bonzo di Visnù
col quale ero amico che ci davam del tu,
il quale mi propose, con sordido cinismo,
di fare nel suo culo un giro di turismo.
Di meglio non bramavo e, come ardente toro,
soffiando a testa bassa mi butto dentro al foro.
Ma quell’infame bonzo avea, nel nero tafanario,
lungo, rapace e impavido, un verme solitario
che, mentre mi godevo quel morbido budello,
pian piano mi sbafava la punta dell’uccello.
Eccoti ormai svelato alfin tutto l’arcano:
il bruno Kiro Hito è privo di banano.
Ed ora, mia diletta, quando vo’ godere,
non ho altra risorsa che il buco del sedere.
IFIGONIA:
Ignobile fellone, infame traditore!
La misera Ifigonia piombi nel disonore!
Fui vittima innocente di un infame tranello:
potea mangiarti, il verme, il cuore non l’uccello!
Mi sento soffocare dal duolo che mi stringe,
per poco non mi scoppia di rabbia una salpinge.
KIRO HITO:
Tristissime giornate col resto del mio uccello
passai sulla torre di sopra al mio castello
ed intanto, tutto avvolto in tristi, neri veli,
strappavo singhiozzando i miei lucenti peli.
Alfine non rimase un pelo sul coglione
così, senza conforto, mi buttai dal balcone.
Ma appena giunto al suolo disparve il mio tormento
per dar luogo a uno strano, novello godimento:
volle il cielo benigno che nel mio folle giro
cadessi a culo nudo sul cazzo di un fachiro,
che da circa vent’anni restava contro il muro
muto, scarno, impassibile, ma con l’uccello duro.
Benedetto sia sempre l’uccello e quel momento
che dischiusero l’uscio al dolce godimento.
Così fu d’allora che girai tutte le Corti
e di cazzi ne ho presi di dritti, lunghi e storti.
Bianchi, neri, rossi, gialli, prepotenti e timorosi
profumati e puzzolenti, morbidi, rigidi e flessuosi,
oleanti di formaggio, stranamente tatuati
e persino alcuni un pochino scorticati.
IFIGONIA:
Furie d’Averno, o voi che anguicrinite[26]
chiavar vi fate in pose pervertite
da quei ciclopi che hanno un occhio solo,
perché non vi pigliate mai lo scolo?
E tu, Giunone, che sull’Elicona[27]
ti fai dal can leccar sulla poltrona,
perché non ti mangia un pezzo di grilletto
il cucciol tuo fetente e prediletto?
Era scritto nel libro del destino
che andar dovessi sposa a un culattino?
KIRO HITO:
Frena i tuoi detti alteri, o Ifigonia nefasta!
Abbi rispetto almeno per l’arte pederasta.
Tu non lo sai la gioia che ascende l’intestino[28]:
te lo dice un vecchio ed esperto culattino!
Segue una colluttazione, interrotta dal Re che entra dalla porta in fondo sulla destra, premurosamente recando una scatoletta in mano
RE BANANO PRIMO:
Ho sentito rumore dalla stanza vicina;
forse state cercando un po’ di vaselina[29]?
Porge la scatoletta alla figlia che lo guarda un momento, inebetita e poi si scatena urlante
IFIGONIA:
Anche la vaselina. Ah duro scherno!
O padre maledetto, va all’inferno!
gettandosi sui coglioni paterni
Ecco ti mangio il destro ed ancora insisto:
ed ora sta sicuro, neppure Cristo
se pietà si prendesse del tuo guaio
ridar te ne potrebbe un altro paio.
Castrato sei e, se vorrai godere,
fallo anche tu col buco del sedere!
RE BANANO PRIMO:
Ahimè ahimè, o qual vista orrenda!
Mia figlia fe’ dei miei coglion merenda!
si accascia piangendo mentre il Gran Cerimoniere, attirato dal chiasso, sia affaccia alla porta e grida sopraffatto dall’orrore
IN MAN KAG:
Accorrete cortigiani, duchi, principi, baroni,
nobiluomini, visconti dai bei nobili coglioni!
Voi, pulzelle e maritate, nobildonne e castellane
che battete di gran lunga le più celebri puttane,
tralasciate le chiavate, tralasciate anche i pompini,
sospendete, sospendete i consueti ditalini!
Ifigonia, la sovrana, impazzita da dolore,
si mangiò le grosse palle dell’augusto genitore!
Cortigiani e popolani d’ambo i sessi, quasi in costume adamitico, tutti visibilmente sorpresi in attività copulatoria, entrano silenziosi e compunti in costernata processione, ponendosi ai lati della scena. Il Re, pallido sta dritto con dolorosa dignità
RE BANANO PRIMO:
Addio mio prode cazzo, piega da questa sera
la rossa audace testa un giorno tanto fiera!
Finirono le giostre e le dolci tentazioni:
non val robusta fava se priva di coglioni.
Addio vergini belle, che lasciaste l’imene
sopra la forte punta del mio robusto pene!
Addio culi rosati di donne e di bambini,
addio lingue sapienti, maestre di pompini!
Da oggi tu, negletto, starai nelle mutande
né attingerà le stelle il tuo robusto glande!
Meglio sarebbe stato perder pur anche il cazzo
ma perderlo da prode nel gioco del rampazzo!
Perir tu ben dovevi ma in singolar tenzone[30]
invece, ahimè, peristi da povero coglione[31]!
Tra i dignitari accorsi è anche il Gran Sacerdote che, rivestitosi alla meglio, si porta davanti a Ifigonia, crollata nel frattempo col volto tra le mani
ENTER O’ CLISMA:
Io ti punisco col tormento duro
d’esser legata con la fica al muro:
passerà tutto il Popolo e, con l’ano,
farai da monumento vespasiano.
La principessa avanza lentamente verso la ribalta e lì si ferma, come in stato di sonnambulismo
IFIGONIA:
Sognavo un cazzo forte, da bambina
e supplicavo Giove ogni mattina
affinché, come accadde un giorno a Eunica,
mi accadesse di rompermi la fica.
Così non fu: la Provvidenza grande,
che di gioia e dolor la terra spande,
mi volle sposa a te, che sei carino,
ma col difetto di esser culattino.
Da prode morirò, come Raniere,
che non poté inculare lo sparviere.
Addio Kiro Hito, un dì mio sposo.
E tira l’acqua del water-closo!
Attraversa la scena di corsa e, prima che altri possa tentare di fermarla, si getta a capofitto dentro il water-closed. Il Popolo e tutti i dignitari s’inginocchiano piangendo e pregando.
Kiro Hito, impassibile, tira la catena dello sciacquone.
Cala definitivamente la tela
FINE
note:
[1] Già nei tempi antichi la bassa plebe era prona ai voleri dei reggitori: anche se lo si pigliava in culo, pur di ingraziarsi i potenti. D’altra parte perfino gli Apostoli incitavano, se pure con parabole, a porgere l’altra chiappa. E ancora oggi il Popolo nelle pubbliche processioni canta, pur con non perfetta ortodossia, il “Mistero glorioso di S. Polluce – che col cazzo fatto a Duce – inculava i popoli”.
[2] Non desti meraviglia il fatto che le vergini non sono digiune dei fatti della vita. Si ricordi il detto cinese: “Non tute le donne sono puttane. Ci sono anche le troie”.
[3] Non v’ha chi a questo punto non si sovvenga dei “Canti lussuriosi” che il Lipparini pubblicava nel 1909 nella rivista “Poesia” diretta da Enrico Filippo Tommaso Marinetti, là dove si legge:
“Mai la lussuria più rabida morsemi, mai;”
“Ercole stesso io avrei fiaccato, ruinato, distrutto …”
“Sentìa nel ventre profondo il viscere occulto vibrare.”
[4] Si narra di un tal Caruso che, per essere castrato, usava di un immacolato cero sulle sue amanti
[5] “O gran bontà de’ cavalieri antiqui” commenterebbe qui l’Ariosto (“Orlando Furioso” I, 42
[6] “Begonia” qui sta certo per fica. La novità e l’arditezza dell’immagine non causeranno meraviglia in chi sia uso a considerare quale e quanta varietà di termini e di metafore abbia creato la fertile mente dell’uomo ad esprimere ciò che più vivamente colpisce la sua immaginazione. Che più? Dovrebbesi forse risalire al termine “sycon” che in greco significa fico e “gynaikeyon aidoion” (Aristofane), ossia “vergogna femminile”? È forse necessario rammentare all’erudizione de’ nostri dotti lettori il termine latino “cunnus”, di cui trovasi traccia nel francese “con”? Non starò qui a ricordare quanta e quale varietà di vocaboli ci propone il nostro bell’ idioma italiano, dal toscano “potta” (da cui anche “pottana”) al termine corrente “fica”, corrottosi poi in “figa” presso i recenziori. Non ricorderò infine qui le felici immagini de’ nostri scrittori, quale “natura” (A. Pigafetta, “Relazione del viaggio di Magellano”), o “Quel vaso donde si fanno i figli” (Cellini, “Vita”), o financo “Inferno” (Boccaccio, “Decamerone”, III, 10).
[7] In effetti: “Cunnus fodi potest aut lingua, aut clitoride, aut quacumque re virili veretro simili” (Friedrich Karl Ferberg, “De figuris Veneris”, ed. it. Catania, 1928, pag. 9)
[8] Per “mago” devesi senza dubbio veruno intendere quel che oggi, con altra non meno ardita metafora, il volgo chiama “uccello”. E non a caso la saggezza degli antichi attribuiva alcunché di magico, quasi un divino afflato, alla parte più preziosa del corpo umano.
[9] Non è senza fondamento l’illazione di chi, sulla scorta di quanto acutamente scriveva il Wilamowitz-Moellndorf (“Untersuchungen uber dem Ur-Ifigonialied”; Leipzig, 1888, vol. IV, pp. 438-696) crede di riconoscere in questo arabo puzzolente, inculatore de’ suoi correligionari non meno che degli infedeli, urlone e millantatore, il protagonista di antiche saghe popolari egizie, che narravano le gesta e la fine ingloriosa dello sceicco Ali Kàzzan-el-Nasser, il quale nel sesto secolo dell’ era volgare insignoritosi di alcuna parte dei deserti arabici, di là proclamava a gran voce voler dominare mezzo mondo.
[10] Notare che il dialogo tra Ifigonia e questo pretendente si svolge, per la prima e, poco oltre, ultima volta nella tragedia, in rima alternata
[11] Forse l’arabo intendeva suffragare la nota affermazione attribuita ad Hemingway: “Uno non è un uomo se non ha preso lo scolo almeno cinque volte”.
[12] Ben giusta è l’indignazione del coro. Analogamente nello Shakespeare: “Il cielo tura il naso e abbassa le palpebre la luna; il vento ruffiano si rifiuta di ascoltare.” Significativa è l’unità di ispirazione dei due drammaturghi, dato che con estrema probabilità non si conobbero neppure di vista.
[13] Risulta da questi dati che la fica della Principessa aveva una cilindrata di 4190 litri, come si deduce dall’antico adagio: “Il volume della sfera qual’è? Quattroterzipigrecoerretré!”. Inoltre il peso specifico dell’augusto formaggio si può valutare in circa 4,8 grammi al litro.
[14] Questo enigma ricalca l’indovinello reperito dal Galavotti nel papiro di Berlino 7122, rinvenuto nella tomba del faraone Nabuccu-Durru-Ulsur.
[15] Il riferimento alla “Mille Miglia” e, più oltre, a quello dell’Alfa Romeo, pongono un limite “post quem” alla datazione dell’opera.
[16] Mitico personaggio nato da leggende popolari antichissime intorno alla passione e morte di Cristo. E’ condannato, un po’ come – in altro contesto culturale – l’Olandese Volante, a vagare senza pace sino alla fine del mondo.
[17] Mille volte
[18] Chi sia quel Gargiulo non è dato a sapere. Il nome parrebbe una litinizzazione del nome germanico Georg, la cui radice, per gradazione vocalica, assume le forme “gorg” e “garg”. Dal verso seguente alcuni esegeti hanno potuto trarre le prove che il personaggio in questione fosse un prete.
[19] Di lei direbbe Shakespeare: “Aveva tralignato e s’era fatta baldracca” (Otello, V, 2).
[20] Tornano qui alla memoria i versi commossi di Dino Campana (“Notturno teppista”in “Canti orfici”): “Amo le vecchie troie / gonfie lievitate di sperma / che cadono come rospi a quattro zampe / sovra la coltrice rossa.”
[21] E’ la parte dell’utero che sporge in vagina
[22] Fetat sed non tronat; tronat sed non fetat; totisque: quest’ultima fattezza sembra essere la più appropriata
[23] Questa invocazione appassionata, piena di pathos, dal ritmo quasi liturgico e sacrale, risuona commovente sulle labbra della fanciulla già sovrastata da un atroce destino. La tragedia incalza.
[24] Cioè la fica
[25] Ritorna il tema morale già proposto all’inizio del primo atto: è eterno destino dei sottoposti prenderlo nel culo dal capo che li comanda.
[26] Con capigliatura fatta di serpi guizzanti
[27] Rideva il sole tramontando dietro il Resegone
[28] Diversamente il Divin Poeta: “Questo moto di retro par che uccida” (Inf., Xi, 55)
[29] Quanta dolcezza, quanto amore paterno, quanta comprensione in questo vecchio padre sollecito di risparmiare inutili dolori ai giovani sposi! E quale crudele delusione lo aspetta!
[30] Nothos uersis II addit cod M.; incerto sensu, pro versibus
[31] “Potevo sì morire, ma in nobile tenzone, – Invece di morire da povero coglione.”