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Ha fatto modificare due interrogazioni, per evitare di essere smentito ancora sulla storia dei giornalisti spiati illecitamente.
Mercoledì alle 15, come di consueto, alla Camera si svolgerà il question time: alcuni ministri saranno chiamati a rispondere a domande presentate dai deputati. In programma ci sono dieci interrogazioni. In realtà però solo otto verranno effettivamente trattate nella loro forma originale, a due delle quattro domande che sono state rivolte al ministro della Giustizia Carlo Nordio il governo aveva inizialmente detto di non voler rispondere, poi ha deciso di farlo dopo che erano state modificate.
Un’interrogazione l’ha fatta il Partito Democratico e l’altra Italia Viva, ed entrambe riguardano il caso Paragon, ovvero i sospetti sull’uso illegittimo da parte delle istituzioni italiane di un sistema di spionaggio fornito da una società israeliana (Paragon Solutions, appunto) e utilizzato, con ogni probabilità contro la legge e in violazione del contratto di fornitura, per controllare attivisti politici e almeno un giornalista, il direttore di Fanpage Francesco Cancellato. Nordio, dopo una lunga polemica tra il governo e le opposizioni, risponderà: ma PD e Italia Viva hanno dovuto eliminare qualsiasi riferimento specifico a Paragon nel testo delle loro domande. È un segno del fatto che il governo sta avendo grosse difficoltà a gestire la faccenda.

Che il governo non avrebbe risposto alle due domande di PD e Italia Viva per come erano state originariamente formulate è diventato chiaro martedì. Ne ha dato notizia ufficialmente il presidente della Camera Lorenzo Fontana, con una lettera inviata ai capigruppo. Fontana ha riferito che aveva a sua volta ricevuto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano, che ha la delega sui servizi segreti, una lettera in cui veniva spiegato che il governo non riteneva di potere, e dovere, dare ulteriori informazioni sulla vicenda oltre a quelle già fornite. Fontana martedì sera ha consegnato ai capigruppo anche una copia della lettera di Mantovano.
Mantovano parte da un antefatto: ricorda, cioè, che il governo ha già riferito sulla vicenda Paragon il 12 febbraio scorso, quando il ministro per i Rapporti col parlamento Luca Ciriani ha risposto a due interrogazioni del PD e del Movimento 5 Stelle. In quell’occasione, scrive Mantovano, il governo «ha fornito le uniche informazioni pubblicamente divulgabili. Ogni altro aspetto delle vicende di cui trattasi deve intendersi classificato», cioè coperto da segreto.
Pertanto, ai sensi dell’articolo 131 del regolamento della Camera, qualunque altro elemento di questa storia «non potrà formare oggetto di informativa del governo se non nella sede del COPASIR», cioè il Comitato parlamentare che vigila sulle attività dei servizi segreti, le cui sedute sono secretate. Il governo, nel dirsi non disposto a rispondere a un’interrogazione, si appella dunque a un articolo del regolamento della Camera, il 131, che nel suo primo periodo dice così: «Il governo può dichiarare di non rispondere [al question time] indicandone il motivo».
Molti aspetti della lettera di Mantovano hanno però generato polemiche nelle opposizioni, e lasciato un po’ perplessi anche alcuni esponenti della maggioranza di destra, soprattutto per i tempi con cui il governo ha deciso di secretare le informazioni sul caso Paragon: non lo ha fatto quando per la prima volta le opposizioni hanno chiesto chiarimenti, ovvero nel question time della scorsa settimana, nel quale peraltro Ciriani aveva fornito informazioni che si sono rivelate non più valide nel giro di due giorni. Ciriani aveva infatti detto che, contrariamente a quanto scritto dal quotidiano israeliano Haaretz e da quello britannico Guardian, Paragon non aveva dismesso il contratto con le istituzioni italiane a cui aveva fornito il sistema di spionaggio in questione, Graphite. Secondo i giornali Paragon lo avrebbe fatto perché le istituzioni italiane avevano usato il sistema in un modo vietato dal contratto, cioè per spiare giornalisti e attivisti politici.
«Nessuno ha rescisso in questi giorni alcun contratto nei confronti dell’intelligence. Tutti i sistemi sono stati e sono pienamente operativi contro chi attenta agli interessi e alla sicurezza della nazione», aveva invece detto Ciriani.
Ma venerdì sera, cioè due giorni dopo, in seguito ad alcune informazioni diffuse da Paragon stessa che smentivano la versione di Ciriani, il governo ha detto all’agenzia Ansa che l’intelligence italiana aveva concordato con Paragon «di sospendere l’operatività del sistema Graphite» fino alla fine dell’indagine avviata dal COPASIR e dall’Agenzia per la cybersicurezza nazionale.
A quel punto, le opposizioni sono tornate a chiedere chiarimenti al governo. E in particolare su un aspetto, quale fosse l’altro corpo di polizia che utilizzava Graphite. Paragon aveva infatti fatto sapere che, oltre ai servizi segreti, c’era appunto un altro corpo di polizia a cui era stato fornito il sistema: e siccome, in maniera più o meno diretta, sia la Polizia di Stato, sia i Carabinieri, sia la Guardia di Finanza avevano via via negato di avere in dotazione Graphite, i sospetti si sono progressivamente concentrati sulla Polizia penitenziaria.
Proprio a questo aspetto fanno riferimento le domande del PD e di Italia Viva: o meglio, facevano, perché il governo ha ottenuto che i due gruppi parlamentari modificassero la loro interrogazione, eliminando i riferimenti specifici a Paragon.
Ma al di là di come andrà il question time, è notevole che solo in un secondo momento, e solo ora che viene tirata in ballo la Polizia penitenziaria, il governo affermi di ritenere “classificata” la materia. Per ora il governo ha ritenuto semplicemente di “classificare”, cioè stabilire che la conoscenza di quelle informazioni vada circoscritta nei modi previsti dalla legge. Ci sono quattro livelli di classificazione, che connotano documenti o atti delicati su una scala crescente (riservato, riservatissimo, segreto e segretissimo), e di fatto l’unica sede parlamentare in cui si possono discutere è il COPASIR.
Se però il governo dovesse decidere di mettere il segreto di Stato, farebbe un passo ulteriore e più significativo: vieterebbe del tutto la divulgazione di certe informazioni per tutelare la sicurezza e l’integrità della Repubblica. Per farlo dovrebbe essere direttamente la presidente del Consiglio a esporsi: Giorgia Meloni è l’unica che può, e deve, assumersene la responsabilità, dandone comunicazione al COPASIR e spiegando i motivi che la inducono a prendere questa decisione. Il COPASIR potrebbe a quel punto anche chiedere maggiori chiarimenti e poi in teoria opporsi a questo atto del governo riferendo alle camere. Ma non succede quasi mai.
Al momento la lettera di Mantovano sembra per lo più un escamotage con cui il governo vuole provare a evitare altri inciampi. A norma di regolamento la decisione di Mantovano è tutto sommato giustificabile, ma allo stesso tempo contraddice una prassi consolidata. Di norma infatti è il presidente della Camera, coi suoi consiglieri, a valutare l’ammissibilità di un’interrogazione: esamina il testo, cerca di capire se la domanda è pertinente, se la richiesta di chiarimenti è legittima e se è rivolta al ministro effettivamente competente in materia; a volte si confronta informalmente con lo stesso ministro o col presidente del Consiglio per avere ulteriori conferme. Dopodiché, quando il presidente ammette l’interrogazione, si dà per scontato che il governo risponda. Il cosiddetto sindacato ispettivo, cioè la facoltà di interrogare i membri del governo, è una delle prerogative fondamentali di deputati e senatori, ed è uno dei (non molti) poteri che il parlamento può esercitare in maniera ordinaria e costante per vigilare almeno formalmente su cosa fa il governo.
Ne hanno discusso molto gli stessi collaboratori di Fontana, quando esaminavano la lettera arrivata martedì. Nei colloqui avuti personalmente e tra i rispettivi staff, Fontana e Mantovano hanno cercato dei precedenti a cui richiamarsi per giustificare la decisione del governo di non rispondere. Alla fine ne hanno trovato soprattutto uno, del 2011. E già questo – un solo precedente vecchio di 14 anni – è emblematico di come si tratti di una decisione molto inconsueta.
In quel caso fu il ministro per la Pubblica amministrazione Renato Brunetta, del governo di Silvio Berlusconi, a negare la risposta a un’interrogazione con cui i deputati dell’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro chiedevano di sapere le posizioni dei vari ministri, in merito allo scioglimento del comune di Fondi (Latina) per infiltrazioni mafiose. Brunetta obiettò che, per rispondere, avrebbe dovuto rivelare ciò che i singoli ministri avevano detto in Consiglio dei ministri, le cui sedute sono però secretate per legge. E dopo varie polemiche, il presidente della Camera di allora, Gianfranco Fini, diede ragione a Brunetta ricordando come «l’articolo 131 del regolamento, con espresso riferimento alle interrogazioni, prevede la possibilità che il governo dichiari di non poter rispondere, indicandone il motivo».
Fini aggiunse che i motivi per cui il governo si rifiuta di rispondere non sono sindacabili sul piano procedurale, ma possono essere oggetto di «censura sul piano politico»: insomma, suggerì ai parlamentari di proporre una mozione di sfiducia contro il ministro che si negava alla domanda o contro il governo.