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September 20, 2015
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Irene Piccolo
Rifugiato è chi scappa dalla guerra, chi proviene da contesti di carestia e povertà estrema, e va aiutato. Tutti gli altri sono migranti economici e vanno rispediti a casa propria.
Avete letto? Bene, adesso cancellate dalla vostra memoria tutto quanto è stato scritto nelle prime due righe perché in quelle parole non c’è un briciolo di verità.
La questione non è puramente teorica, dal momento che in base allo status delle persone che ci troviamo davanti, cambia la normativa applicabile e quindi gli obblighi che, come Stato, l’Italia ha o non ha verso di loro. E oggi mi preme affrontare due questioni:
Chi è il rifugiato e quali obblighi ha lo Stato nei suoi confronti?
L’asilo europeo che, mi dicono i telegiornali e mi dicono i politici, l’attuale governo avrebbe promosso quest’estate in sede europea.. mah!
Partiamo. Per la definizione di rifugiato, il testo di riferimento è la Convenzione di Ginevra del 1951, che nasce per offrire aiuto e soluzioni a quegli stranieri o apolidi che restavano sfollati o fuggitivi perché temevano di rientrare in patria dopo gli sconvolgimenti politici, etnici e territoriali successivi alla Seconda Guerra Mondiale e nel clima della c.d. “Guerra Fredda”. L’articolo 1 definisce rifugiato colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, ovvero che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
Quindi, gli elementi costitutivi dello status di rifugiato sono:
Timore fondato;
Persecuzione;
impossibilità e/o non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza e/o di residenza;
la presenza fuori dal Paese di cittadinanza o di residenza abituale.
Vedete in questi elementi la guerra? La carestia? La povertà?
Un esempio concreto recente – lo ricorderete tutti – è il caso di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov, prelevata dalla polizia italiana il 29 maggio 2013, espulsa verso il Kazakistan, riuscita a rientrare in Italia nel dicembre dello stesso anno e che ha richiesto asilo – ottenendolo – in Italia. Lì c’erano tutti gli elementi richiesti:
il 4), perché si trovava in Italia;
il 2) e il 3) pH3ӣU pH3ӣU հӣU З0ӣU ؈3ӣU H3ӣU @ H3ӣU confermato dal fatto che, una volta rientrata in Kazakistan, neppure la popolazione kazaka sapeva dove fosse stata mandata. Se cliccate qui ritrovate il testo di una conversazione che ebbi, in quel periodo, con una mia amica kazaka che viveva ad Alma Ata (una delle principali città del Kazakistan).
Il sentimento del timore è rivolto verso il futuro, nel senso che non è necessario che la persona abbia già in passato subito persecuzioni, bensì deve avere un ragionevole timore di poterle subire nel futuro (magari perché i familiari o gli appartenenti al suo stesso gruppo sociale sono stati perseguitati). La persecuzione non ha un confine ben delineato, ma sicuramente vi rientrano la minaccia al diritto alla vita o alla libertà personale dell’individuo così come altre gravi violazioni dei diritti umani.
Il responsabile della persecuzione può essere lo Stato, partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, oppure soggetti non statuali, se i responsabili che ho citato in precedenza, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione all’individuo contro persecuzioni. Quindi c’è, in un modo o nell’altro, una connivenza dello Stato.
Facciamo un passo ulteriore.
NON è il riconoscimento da parte di uno Stato a rendere un rifugiato tale. Mi spiego meglio: un individuo è rifugiato nel momento stesso in cui i requisiti elencati dall’art. 1) della Convenzione di Ginevra si realizzano, sia che uno Stato lo riconosca sia che non lo riconosca. Il riconoscimento ha solo valore dichiarativo (lo Stato dichiara che effettivamente si trova alla presenza di un rifugiato), non costitutivo (non è il riconoscimento statale a “costituire” il rifugiato). Quindi, anche se uno Stato decidesse di adottare una politica per cui non riconosce tot persone come rifugiati (magari come soluzione alla situazione migratoria), ma quelle persone sono effettivamente rifugiate perché rispettano tutti i requisiti richiesti, ebbene è lo Stato che sta commettendo una violazione di diritto internazionale.
Spero che questo passaggio, sebbene piuttosto giuridico, sia chiaro.
Ovviamente, vi sono anche le cause per la cessazione dello status di rifugiato, nello specifico:
a) la riassunzione volontaria della protezione del Paese di cittadinanza;
b) il riacquisto volontario della cittadinanza del Paese di origine;
c) l’acquisto volontario della cittadinanza italiana o della cittadinanza di diverso Paese;
d) il ristabilimento volontario nel Paese rispetto a cui sussisteva il timore di persecuzione;
e) la possibilità di godere della protezione del Paese di cittadinanza a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato;
f) la possibilità di godere della protezione del Paese di dimora abituale, nel caso dell’apolide, a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato.
La Convenzione del 1951, infine, prevede però che la persona, pur rispettando tutti gli elementi costitutivi, non abbia diritto ad ottenere il riconoscimento qualora:
abbia già ricevuto la protezione da parte di altro organismo o istituzione delle Nazioni Unite;
sia considerata dalle autorità competenti del paese in cui ha stabilito la residenza come avente diritti ed obblighi connessi al possesso della cittadinanza di detto paese (c.d. quasi – cittadini);
“sussistono fondati motivi per ritenere che” (c.d. clausole di non meritevolezza):
a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità;
b) [vi riporto direttamente quanto previsto per l’Italia] abbia commesso al di fuori del territorio italiano, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, un reato grave ovvero che abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possano essere qualificati reati gravi (gravità valutata in base all’entità della pena: non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni);
c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità ed ai principi delle nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni Unite.
Entriamo sempre più nel concreto. Il respingimento, di cui tanto si è parlato per mesi e mesi in Italia.
L’art. 33 della Convenzione ONU, di cui l’Italia è parte, stabilisce il divieto di respingimento (c.d obbligo di non refoulement), che ha portata generale, cioè si applica sia nelle ipotesi di espulsione e/o respingimento tecnicamente intese, sia in qualsiasi altra forma di allontanamento forzato verso un territorio non protetto (tra cui misure di estradizione o di trasferimento informale del soggetto). Tale divieto si applica anche se la persona non è stata ancora riconosciuta rifugiata o non abbia formalizzato la domanda di asilo.
Tuttavia, la Convenzione fissa delle possibilità in cui lo Stato può respingere (articoli 32 e 33. 2): “per ragioni di sicurezza nazionale o ordine pubblico” e qualora “per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese”. Precisiamo: è il singolo, quello specifico individuo, che deve costituire un pericolo per il Paese. Quindi, se qualcuno dicesse “facciamo respingimenti di massa perché non ce la facciamo a reggere il peso dei migranti” (quindi pericolo, per esempio, per l’ordine pubblico o la sicurezza per via dei migranti), non farebbe altro che istigare alla commissione di una violazione di diritto internazionale.
A tal proposito, è bene avere presenti alcune cose: l’Italia è obbligata nei confronti dei rifugiati attraverso diverse normative, non solo la Convenzione di Ginevra del 1951.
Innanzitutto, dobbiamo rispettare la nostra Costituzione: l’articolo 10 (che vi propongo integralmente) dedica specificamente allo straniero tre commi su quattro.
“1. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
2. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
3. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
4. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.”
Successivamente, entra in gioco la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che molti credono abbia a che fare con l’Unione europea ma che con l’Unione europea non c’entra nulla. Pensate che la prima delle comunità europee, la CECA (ve ne ho parlato nel precedente post), nasce l’anno dopo rispetto alla firma di questa importantissima Convenzione. Convenzione che è stata l’avanguardia della civiltà giuridica per anni e anni e che è stata fonte di ispirazione e oggetto di imitazione delle altre corti regionali. Tutti ce l’hanno invidiata per anni!
Questa Convenzione venne firmata il 4 novembre 1950, tra l’altro a Roma, dai Paesi facenti parte del Consiglio d’Europa. Piccola digressione: il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale che ha lo scopo di promuovere la democrazia, i diritti dell’uomo, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa. Fu fondato il 5 maggio 1949 col Trattato di Londra e conta oggi 47 stati membri (tra cui i 28 Stati membri dell’Unione), praticamente il doppio dell’UE.
Ebbene, l’Italia è ovviamente vincolata a questa Convenzione, il cui articolo 3 garantisce al rifugiato una tutela anche più ampia di quella fornitagli dalla Convenzione di Ginevra. Tale articolo è forse uno dei più famosi della Convenzione e stabilisce, in maniera secca e sintetica, il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti ai danni di qualunque persona (rifugiato compreso, quindi). E tale divieto è inderogabile e deve essere garantito sempre, anche nei casi di pericolo pubblico costituente una minaccia per la vita della nazione e indipendentemente dalla condotta personale dello straniero. Tradotto: anche se il rifugiato costituisce un pericolo per lo Stato italiano, ma in patria rischierebbe di essere sottoposto a torture o altri trattamenti inumani e degradanti, NON può essere respinto.
È praticamente lo stesso articolo che l’Italia ha violato rimandando i due Marò in India, dove il reato di cui erano allora accusati era punito con la pena di morte. E non c’è rassicurazione che tenga. L’espatrio non poteva e non doveva essere eseguito.. (ma su questo tornerò nei prossimi giorni).
Agganciandomi alla CEDU, ritorno un attimo al divieto di respingimenti collettivi. Di questi giorni sembrano rimpiangersi gli accordi che l’Italia aveva preso con Gheddafi, per il rimpatrio di coloro che arrivavano. Ebbene, abbiamo fatto la storia!
Breve narrazione dei fatti: il 6 maggio 2009 circa 200 persone, su tre barche dirette in Italia, venivano intercettate da motovedette italiane, in acque internazionali, all’interno della zona SAR (Search and Rescue) di responsabilità maltese. Quindi, venivano trasferite a bordo delle navi italiane e riportate in Libia, da dove erano partite, in conformità agli accordi bilaterali fra Italia e Libia, senza essere identificate e senza essere informate circa la loro reale destinazione. Era l’avvio della c.d. “politica dei respingimenti”. Nel corso del 2009, l’Italia ha condotto nove operazioni di questo tipo in acque internazionali.
La storia che vi voglio raccontare è quella di Hirsi Jamaa e altri 23 cittadini somali ed eritrei – che facevano parte di quel gruppo di respinti il 6 maggio 2009 – che hanno presentato ricorso contro l’Italia per violazione della CEDU, art. 3 in particolare, ma non solo..
Il governo italiano si è difeso dall’accusa di aver esposto, tramite il respingimento, i ricorrenti a trattamenti proibiti in Libia, affermando che: queste persone non avevano le prove di esser stati sottoposti a tali trattamenti; l’Italia aveva agito in base ad accordi bilaterali in risposta ai crescenti flussi migratori; si trattava di un’operazione di salvataggio in acque internazionali, dunque non era necessario identificare le parti coinvolte, in quanto le autorità si sono limitate a prestare assistenza; i migranti in questione non hanno mai espresso la loro intenzione di chiedere asilo; la Libia era all’epoca un Paese sicuro, firmatario di numerosi trattati internazionali sui diritti umani.
Ma la Corte ha risposto [ndr. Ovviamente!], all’unanimità, in sentenza della Grande Chambre (che fa diventare la decisione di portata storica), che:
Pur essendo consapevole delle difficoltà legate all’immigrazione via mare, il divieto posto dall’art. 3 CEDU è assoluto e quindi non può essere violato in nome di tali difficoltà;
C’era materiale in abbondanza che dimostrava la situazione terribile vissuta in Libia per gli immigrati irregolari e il mancato rispetto da parte di quello Stato di ogni regola in materia di protezione dei rifugiati, e l’Italia non poteva non sapere cosa sarebbe capitato ai migranti rinviati in Libia;
l’Italia non può violare una Convenzione come la CEDU in nome di accordi bilaterali di qualunque tipo con chiunque siano stipulati;
l’Italia non può difendersi affermando che nessuno dei ricorrenti ha richiesto asilo. Era infatti compito delle autorità nazionali verificare il trattamento a cui sarebbero stati esposti i migranti, una volta riconsegnati alle autorità libiche.
Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere, articolo 3 a parte: i ricorrenti erano somali ed eritrei, l’Italia li ha mandati in Libia, non in Somalia o Eritrea, quindi non li ha respinti verso i Paesi di origine che teoricamente sono i persecutori. Dove sta la violazione?
Ebbene, esiste il principio di non refoulement indiretto: in caso di espulsione, uno Stato ha l’obbligo di assicurarsi che lo Stato dove rinvia un individuo offra garanzie sufficienti circa il fatto che non procederà ad un ulteriore rinvio di questi verso il suo Paese di origine, senza una valutazione del rischio di subire trattamenti proibiti.
Ora, la beffa, che poteva essere evitata se qualcuno si fosse informato davvero sulla Libia, è che la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951.. per la Libia la figura del rifugiato non esiste! Non è prevista nessuna procedura di richiesta d’asilo dal momento che non se ne riconosce l’esistenza.. Ma davvero uno Stato come la Libia poteva dare l’assicurazione che non avrebbe violato la norma fondamentale di una Convenzione che non ha mai voluto firmare?
E, ammettendo che adesso, la Libia non si trovasse nella situazione in cui invece si trova (smembrata e contesa da attori di ogni genere e specie, tra cui terroristi), davvero pensiamo che sarebbe disposta ad aprire centri profughi sul proprio territorio? Ma non ci pensa proprio!
Nel 2012, in seguito agli accordi bilaterali, molte delle persone respinte dall’Italia e riportate in Libia, finirono in centri di detenzione. Molti furono torturati, molti altri vi morirono per i maltrattamenti. Alcuni non hanno avuto remore a definirli campi di concentramento. Alla Libia non interessa nulla dei diritti umani: i migranti erano e sono solo uno strumento di minaccia verso l’Europa. Lo schema è sempre stato il seguente: io Libia ti faccio una richiesta, prevalentemente economica; e se tu non l’accetti spalanco le porte dei campi di raccolta dove ammucchio i migranti e te ne mando una bella tornata.
Ultime due precisazioni:
i media parlano continuamente di profughi sfollati. Allora, siamo chiari: gli sfollati sono persone che hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato (fondato timore; persecuzione; impossibilità e/o non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza e/o di residenza) MA sono rimasti all’interno del proprio Stato. Per intenderci, si può parlare di sfollato siriano (qualora rispetti i requisiti di cui sopra) solo se non ha lasciato la Siria e si è rifugiato in uno dei campi profughi lì allestiti o dall’UNHCR o da Paesi limitrofi. Chiamiamo le cose con il loro nome.
Ho sentito che nelle ultime settimane il governo ha deciso di proporre l’istituzione dell’asilo europeo. Confesso, il primo pensiero che ho avuto è stato: “e adesso chi lo dice al mio collega di dottorato che sta scrivendo, da ben due anni, la tesi su un argomento che a quanto pare è stato proposto solo alcune settimane fa?” Sebbene non abbia dubbi sulle qualità del mio collega di essere un visionario e anticipare i tempi, beh, non è questo il caso.
Infatti l’Unione Europea parla di tutto ciò sin dall’ottobre del 1999 (sì, proprio ieri…), quando il Consiglio europeo a Tampere (Finlandia) decise la creazione di un regime comune di asilo, in diverse fasi, mirando all’istituzione di un Sistema Comune Europeo di Asilo (CEAS, o Common European Asylum System), di una procedura comune e di uno status uniforme e unico dei titolari di asilo. Con il Trattato di Lisbona (2007) s’introduce il concetto di asilo europeo.
Ora, non ci voglio scrivere una tesi (a quello ci pensa già il mio collega!), per cui non sto a elencarvi tutti gli atti che l’Unione europea ha adottato in materia, che sostanzialmente riproducono le disposizioni della Convenzione di Ginevra quanto allo status di rifugiato, ma pongo l’accento su una cosa: tutti gli atti sono stati adottati con Direttiva.
Altra pillola di diritto internazionale. Ricordate che nel precedente articolo vi dissi che il “sistema di Dublino” era adottato con Regolamento, l’atto più “forte” tra quelli che l’Unione può emettere? Ebbene, dopo il Regolamento, in termini di forza vi è la direttiva, che fissa obblighi di risultato ma non di mezzi. Cosa significa?
Significa semplicemente che l’UE detta l’obiettivo da raggiungere e gli Stati si obbligano a raggiungerlo (in questo caso, l’uniformità di standard di accoglienza per i rifugati & Co.), ma sui mezzi da utilizzare c’è libertà di scelta. Ma proprio perché tutto è lasciato alla decisione degli Stati, i tempi si allungano: il parlamento discute la questione, facciamo le navette tra Camera e Senato, allunghiamo il brodo, recepiamo la direttiva e promulghiamo gli atti che hanno il compito di applicarla. Non vi parlo dei tempi di recepimento dell’Italia..
Ma quello che volevo sottolinearvi è che, nonostante la materia fosse la stessa, “immigrazione e asilo”, per le cose che facevano “comodo” a un certo tipo di Europa sono state adottate misure immediatamente efficaci, per le cose di cui non importava a nessuno – o quasi – si è ricorsi a misure che prima di vedere la luce ci mettono spesso anni. E ora stiamo pagando per questo..
All’interno del sistema europeo, i titolari dello status di rifugiato possono circolare liberamente sul territorio dello Stato in cui hanno ottenuto l’asilo, MA possono andare negli altri Paesi Schengen per massimo tre mesi. Ciò significa che non solo i Paesi d’ingresso sono costretti a esaminare le domande e i migranti sono costretti a presentarla a loro, ma significa anche che – se lo Stato concede l’asilo – quelle persone devono risiedere per forza, per esempio, in Italia.
Per completezza del quadro europeo, e per far capire anche “che fine fanno” invece tutti quelli che provengono da contesti di guerra, dal momento che molti di loro non rientrano nella qualifica di rifugiato, rimando a trattazione successiva la c.d. protezione internazionale sussidiaria.
Allo Stato attuale, senza farmi prendere da pietismi ed emozioni, ma trattando freddamente questioni di diritto, sono qualificabili rifugiati molto di più i somali, gli eritrei, i nigeriani che arrivano sulle nostre coste piuttosto che i siriani che scappano dalla guerra (ma lì va fatto un netto distinguo: i.e., valutare se stanno scappando dalla guerra in senso generale o dall’ISIS in particolare).
Difatti, chi può dirmi che un eritreo non è da considerarsi un rifugiato? L’Eritrea è il primo Stato al mondo (viene anche prima della Corea del Nord) in quanto a chiusura, è una dittatura militare rigidissima, c’è la leva obbligatoria a vita, gli oppositori vengono mandati al “confino” all’interno di container poi abbandonati nel deserto e che, dopo alcuni giorni, per assenza di acqua e cibo e per il calore amplificato dalla lamiere portano alla morte di tali oppositori.
Chi ha il coraggio di dirmi che un somalo non è da considerarsi rifugiato? La Somalia, lo Stato fallito per eccellenza. Uno Stato dove il governo legittimo ha appena il controllo di un quartiere della capitale, neanche di tutta la capitale! Dove il resto del territorio è in mano a tribù o a milizie, tra cui quella terroristica di Al Shabaab, che ha indotto – per la prima volta nella loro storia – Medici senza Frontiere ad abbandonare il territorio. Gli stessi Shabaab che nell’aprile scorso hanno fatto incursione all’alba – ricordate? – nel campus universitario di Garissa, in Kenya, facendo una strage di studenti.
Chi ha il coraggio di dirmi che un nigeriano che scappa dal governatorato del Borno, dove Boko Haram (che significa “l’educazione occidentale è peccato”) è nato e prolifera liberamente, non è da considerarsi rifugiato? Che viene proprio da quei posti, Maiduguri e dintorni, dove mentre l’Europa piangeva per i fatti di Charlie Hebdo, venivano uccise in un solo giorno 2000 persone. E a maggior ragione adesso che, dalle ultime notizie, sembra che nell’area siano arrivati i Janjaweed (letteralmente, “diavoli a cavallo”), dal Sudan; esattamente quelli che nello scorso decennio, eseguendo gli ordini di Al Bashir, decimarono – anzi, genocidiarono – la popolazione del Darfur.
Tutte queste persone sono al 99,9 % vittime di persecuzione, prevalentemente per ragioni etniche e religiose. Ancor peggio se sei donna o bambino. Qui esiste il fondato timore, anzi più che fondato.
La questione migrazione merita molti articoli, e tutti gli aspetti (Schengen, le zone SAR, la protezione internazionale, il traffico, per citarne alcuni) saranno trattati nel tentativo di riuscire ad arrivare ad avere una visione di insieme della situazione. Una visione che possa aiutarci a capire quando le politiche di gestione del fenomeno che ci vengono proposte sono: realistiche, efficaci e – possibilmente- non producano conseguenze che portano lo Stato a sborsare soldini per violazioni di diritto internazionale.
L’importanza di chiamare le cose con il loro nome non è perché mi piace fossilizzarmi sui cavilli. Bensì, vorrei indurvi a una riflessione: se già dicono tante corbellerie sulle nozioni di base (ve lo giuro, quello che vi ho raccontato qui sono le nozioni di base), quale attendibilità possono realisticamente avere quando si lanciano in discorsi che presuppongono la conoscenza delle norme di dettaglio?