Migrazioni A.D. 2015: Parte Terza. Che SAR SARà?!

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March 5, 2016

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Irene Piccolo

 

Ho voluto ritornare tra di voi con un titolo scherzoso, ma che allo stesso tempo racchiude in sé i due punti su cui mi concentrerò:

a) le zone SAR. Cosa sono? Che obblighi comportano? Cosa hanno a che fare con l’affaire migrazioni?

b) a che punto siamo e soprattutto dove andiamo con le politiche, europee e nazionali, degli ultimi mesi. Che ne sarà di tutto questo?

Gli ultimi travagliati mesi non mi hanno impedito di accendere la TV e sentire castronerie e, da meridionale “infiammabile” quale sono, accendermi di incredulità che gradualmente ma inarrestabilmente si trasformava in rabbia. Molto spesso mi dicono che mi arrabbio perché ho in me la forza “devastatrice” dei giovani, che – in un’aspirazione verso la giustizia sociale e ideali perlopiù iperuranei da perseguire – mi faccio prendere da strani e irrealistici moti di entusiasmo; che quindi con il tempo mi passerà lasciando spazio alla rassegnazione.

Questo mi fa arrabbiare ancor di più, dal momento che la penso come uno dei nostri migliori filosofi: l’umanità più anziana siamo noi, persone dell’oggi, dal momento che pur essendo nati successivamente abbiamo tutto il bagaglio di esperienze fatte da chi ci ha preceduto nei secoli passati. Siamo noi l’umanità anziana, i giovani erano i Greci e i Latini, i neonati gli uomini primitivi. Noi siamo gli anziani. Noi siamo i Saggi. Noi siamo quelli che, per tutto quello che ci è stato consentito di imparare e per tutto quello che potenzialmente siamo in grado di conoscere grazie al passato, dovremmo saper avere una migliore visione d’insieme e soprattutto trovare soluzioni scartando quelle che più volte si sono dimostrate fallimentari.

Povera illusa, dirà qualcuno di voi! E ci sta, perfettamente: semplicemente, pur ammettendo la possibilità di fragoroso fallimento tra le opzioni che si prospettano davanti a me, io scelgo di non levarmi di dosso questa responsabilità, quella di provare e migliorare. E non la levo di dosso neanche agli altri. Questo “comodo sollievo” non lo concedo a nessuno. Accetto/ammetto/tollero il fallimento solo dopo il tentativo, non dopo la rinuncia. Altrimenti siamo tutti colpevoli dello stato di cose in cui versiamo, come minimo per connivenza.

A voi rendo il carico di responsabilità più gravoso raccontandovi quel che so; più cresce la vostra consapevolezza, più cresce la vostra responsabilità. E perciò partiamo, smentendo un po’ di disinformazioni circolate:

  1. L’Italia non può e non deve andare fin davanti le coste libiche a salvare chi sta annegando;

  2. A maggior ragione non deve farlo se è palese che la chiamata di soccorso che fanno queste carrette del mare sono studiate a tavolino dagli scafisti che si dicono tra sé e sé “l’importante è riuscire ad arrivare a un certo punto del tragitto, poi chiamiamo i soccorsi e il resto lo fanno gli italiani”.

Mi fermo qui.

Dunque, tra di voi c’è sicuramente qualche uomo di mare che mi legge. E non sarà la prima volta che sente dire che nella legge del mare la vita umana viene prima di ogni altra cosa. La legge del mare ha un suo codice di condotta/onore: un uomo in mare, chiunque egli sia, va sempre tratto in salvo. Non c’è ragione di opportunità che tenga.

Il diritto del mare è l’esempio unico e indiscusso di diritto in cui gli usi e le consuetudini quasi prevalgono e comunque integrano le leggi scritte. Anche il diritto internazionale davanti a ciò fa un passo indietro, prende atto di questo stato di cose e, anziché sostituire tali regole non scritte e nazionali, dà loro il rango di norma internazionale. Ne rafforza la vigenza.

Dopo questa premessa d’obbligo, entriamo nel vivo.

SAR è l’acronimo di Search And Rescue (Ricerca e Salvataggio). Secondo una convenzione internazionale, firmata ad Amburgo nel 1979, ogni Stato Parte alla convenzione ha l’OBBLIGO di istituire una zona SAR di propria competenza, o meglio di propria responsabilità. Gli Stati attualmente Parti della Convenzione sono 106, che non significa scarsa adesione visto che la comunità internazionale conta quasi 200 Stati: semplicemente gli Stati land-locked (senza accesso al mare) sono meno interessati, sebbene gli obblighi generali di soccorso gravino anche su di essi in virtù della natura consuetudinaria di alcune norme, come vedremo più avanti.

In precedenza la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS, acronimo di Safety of Life at Sea162 Stati Parti) aveva previsto che gli Stati parte organizzassero meccanismi di comunicazione e coordinamento in situazione di «distress» nelle loro «rispettive aree di responsabilità» e per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle loro coste», per cui la Convenzione di Amburgo non ha fatto altro che dettagliarne le previsioni.

La zona SAR va oltre il mare territoriale (12 miglia marine dalla costa) di cui vi ho parlato in uno degli articoli sui marò; essa si estende dalla fine del mar territoriale fino a un certo limite, prefissato con accordi bilaterali, che si pone nelle acque internazionali e che coincide con l’inizio dell’area SAR dello Stato confinante. In sostanza, non vi può essere un pezzo di mare non coperto da qualche Stato che si impegna a svolgere le attività di soccorso per le persone in difficoltà. Il globo acqueo viene diviso in zone, quindi, di responsabilità, anche condivisa se del caso (ad es. per l’Artico vi è uno specifico accordo stipulato nel 2011, tra Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Federazione Russa, Regno Unito, Stati Uniti).

Ho fatto uno screenshot che vi permette di visualizzare le zone SAR a livello globale.

 

Ora zoomiamo sull’Europa. Tra i 106 Stati Parti alla Convenzione di Amburgo, ritroviamo anche la Libia (dal 2005), che comunque non ha mai istituzionalizzato la zona SAR. Tuttavia, nel momento in cui uno Stato viene meno nelle sue istituzioni, molti apparati crollano. Se in Libia attualmente non c’è un governo che possa dirsi tale, figuriamoci se può esserci un Ministero dei Trasporti o uno della Difesa e via dicendo. Va da sé, che è tutto vittima di implosione.

 

 

Rebus sic stantibus, è palese ed evidente che non c’è nessuna autorità in Libia che possa assumersi la responsabilità di svolgere le attività di soccorso e salvataggio nell’area SAR libica. Allora che succede? Quella zona rimane scoperta?

No. Per Convenzione, sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare (vedi richiesta di aiuto ricevuta dall’Italia) a coordinare le operazioni di salvataggio tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente S.A.R. dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili (come fa spesso e volentieri Malta) quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima (come c’è da immaginarsi per la Libia… quale autorità libica dovrebbe darci riscontro se le autorità statali libiche si sono dissolte? Ragioniamo!).

Questa regola esisteva già ancor prima dell’istituzione delle zone SAR; era infatti già prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1958 (art. 12) che a sua volta non faceva altro che codificare una regola di rango consuetudinario. Quindi, come vi ho già spiegato in articoli precedenti, una norma non scritta che vincola tutti gli Stati che compongono la comunità internazionale. Tutto ciò si rafforza anche con i due emendamenti adottati dall’IMO (International Marittime Organization) nel maggio 2004 alla Convenzione SOLAS e a quella di Amburgo (SAR) – entrati in vigore nel 2006 –, con cui due obblighi si integrano: quello del comandante di prestare assistenza e quello degli Stati competenti per la regione SAR di cooperare nelle operazioni di soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza (place of safety). [nb. Per Malta questo “luogo sicuro”, previsto dal cap. V della SOLAS, non è La Valletta – quale sede del centro maltese responsabile del soccorso – bensì Lampedusa, se più vicina al punto in cui i migranti sono stati assistiti, anche se tale punto si trova nella immensa zona SAR che Malta si è autoattribuita. Parliamone…].

La zona libica passa – per così dire – “in gestione” all’autorità SAR in funzione più vicina. Quindi l’Italia.

Anche se qualcuno mi potrebbe obiettare: ma tra l’Italia e la Libia c’è Malta. Perché dobbiamo andarci noi?

 Vi riporto la cartina che evidenzia la “pretesa” zona SAR di Malta. Una zona SAR che è 750 volte superiore al territorio di cui è costituito lo stato maltese. Inutile dire che non solo Malta non è in grado di far fronte alla responsabilità che vorrebbe assumersi (tant’è che spesso chiede aiuto!), ma soprattutto crea confusione e subbuglio, perché in alcuni tratti la presunta zona SAR maltese si sovrappone a quella italiana e, in certi casi, anche a quella libica, greca e turca. Con la sovrapposizione, non sai mai a chi tocca cosa… A maggior ragione perché la cooperazione SAR tra Italia e Malta non è stata mai istituzionalizzata da alcun accordo, nonostante ciò sia raccomandato dalla convenzione di Amburgo e nonostante i rapporti tra i due Paesi siano stati sempre eccellenti a livello politico.

A ogni modo va da sé che se Malta non riesce a badare alla sua zona SAR, figuriamoci se può prendersi in carico anche quella libica. Quindi, la palla passa al gigante buono: l’Italia.

Quali obblighi impone la Convenzione di Amburgo?

Le Parti assicurano che sia fornita assistenza a qualunque persona in pericolo in mare. Lo fanno senza riguardo alcuno alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze in cui tale persona viene trovata” (art. 2.1.10 Allegato 1 alla Convenzione)

Mi pare molto chiaro il concetto e quasi impossibile da interpretare liberamente. Tuttavia, c’è chi prova ad affermare che il pericolo sussisterebbe solo quando siamo davanti a una nave che sta affondando… ma se la nave, sovraccarica in maniera sproporzionata ed esagerata, ancora galleggia, posso tranquillamente girare la testa dall’altra parte e continuare per la mia strada, anche con la coscienza sporca di sapere che nei cinque minuti successivi l’affondamento potrebbe avere luogo.

A maggior ragione se si fa una mera riflessione: la convenzione SOLAS ci detta gli standard per la sicura navigazione in mare, a tutela sia delle persone a bordo della nave stessa che delle navi che con essa si incrociano. Sia se fate un riscontro di dettaglio, ma anche ictu oculi, potrete concludere che le “carrette del mare” non rispettano gli standard di sicurezza internazionalmente richiesti. Ergo, tali carrette non possono dirsi sicure, bensì di condizioni tali da mettere in pericolo la sicurezza marittima. Da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Basta un semplice sillogismo aristotelico per arrivare alla risposta corretta.

Il diritto a volte è freddo, ma non è inumano. Specialmente nel corso del Novecento il diritto internazionale ha imposto a tutte le altre branche del diritto di mettere al centro la persona umana: se anche nel diritto dei conflitti armati, il principio di umanità è il cardine, davvero pensate che il diritto possa in qualche modo giustificare atteggiamenti inumani come l’abbandono di un naufrago a morte certa, chiunque egli sia? No, il diritto non li giustifica. Se la coscienza lo fa, credo abbia bisogno di fare seri esami di se stessa.

A ogni modo, per la Convenzione di Amburgo cui l’Italia è vincolata, la situazione di pericolo è intesa come “una situazione dove vi è una ragionevole certezza che l’imbarcazione o la persona è minacciata da grave e imminente pericolo e richiede assistenza immediata”.

Il principio è ribadito sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Convenzione UNCLOS – 167 Stati Parti) secondo cui “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: (a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita; (b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di assistenza, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa” sia dalla Convenzione SOLAS già citata, la quale obbliga il “comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”.

Secondo la Convenzione di Montego Bay (UNCLOS), inoltre, il soccorso a persone o navi in pericolo è possibile anche nelle acque territoriali straniere (art. 18 co. 2), quindi pone una deroga al principio del “passaggio continuo e rapido” previsto dal regime del transito inoffensivo. Non si sfugge…

Aggiungiamo, infine, per spirito di completezza la Convenzione di Londra del 1989 sull’assistenza, il cui art. 10 ribadisce il concetto: “1. Ogni capitano è tenuto a prestare assistenza a qualsiasi persona che si trovi in pericolo di perdersi in mare, nella misura in cui ciò non arrechi gravi pregiudizi alla sua nave e alle persone a bordo.

Nel concreto, in Italia, il compito è affidato al comando generale del corpo delle capitanerie di porto che assicura il coordinamento di tutti i sub-center interessati dalla procedura e dislocati su territorio nazionale. Quando ricevono una richiesta di aiuto, è possibile che non vi siano navi collegate al corpo in grado di intervenire. A quel punto, per svolgere il ruolo di ricerca e salvataggio verrà cooptata qualunque imbarcazione si trovi nelle vicinanze della situazione di pericolo (ad esempio, per il soccorso dei migranti molti mercantili vengono distratti dalla loro rotta).

Per anni l’Italia ha salvato migliaia di vite nel Mediterraneo, spingendosi fino al limite delle acque territoriali libiche e maltesi, operando, dunque, al di fuori della zona SAR. Ma dopo la strage di Lampedusa (3 ottobre 2013), l’Italia ha deciso di impegnarsi ancora di più istituendo, senza aspettare i tempi elefantiaci dell’Unione Europea, la missione Mare Nostrum (18 ottobre 2013), che vedeva impiegato il personale e i mezzi navali e aerei della Marina Militare, dell’Esercito, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Guardia Costiera nonché personale del Ministero dell’Interno – Polizia di stato imbarcato sulle Unità della Marina Militare e di tutti i Corpi dello Stato che, a vario titolo, concorrono al controllo dei flussi migratori via mare. In deroga al piano nazionale SAR, il ruolo di autorità coordinatrice non venne assegnato ad una unità di terra ma ad una unità marina, la nave San Marco. La ragione, di opportunità, sembra evidente: è al centro del teatro delle operazioni di soccorso.

“Mare Nostrum” affiancava due operazioni attivate da FRONTEX, l’agenzia europea che promuove la sicurezza e la gestione dei confini, che quindi era già presente nei nostri mari:

  1. Hermes, che aveva l’obiettivo di contrastare l’immigrazione irregolare da Tunisia, Libia e Algeria verso le coste italiane;

  2. Aeneas, nel mar Jonio, per vigilare sulle coste pugliesi e calabresi.

Alla fine di agosto del 2014, coi flussi in aumento, FRONTEX pensò di avviare “FRONTEX PLUS” a supporto di “Mare Nostrum” per garantire anche la lotta alle mafie sulle coste africane e agli scafisti.

Il 1° novembre 2014 è partita l’operazione “Triton”, che assorbe sia le precedenti operazioni di Frontex sia quella nazionale di “Mare Nostrum”, e cui si affianca, sin dal 2011, l’operazione Poseidon – che ultimamente sentiamo spesso nei nostri TG –  che invece guarda al Mar Egeo.  A “Triton” partecipano 29 paesi, ed è stata finanziata dall’Unione europea con 2,9 milioni di euro al mese: circa un terzo di quello che l’Italia aveva da sola destinato a Mare Nostrum (budget che nel dicembre 2015 sembra essere stato triplicato).

A differenza di quest’ultima, però, “Triton” prevede il controllo delle acque internazionali solamente fino a 30 miglia dalle coste italiane, per il semplice motivo che il mandato di FRONTEX è il controllo della frontiera e non il soccorso. Vi domanderete, allora, che fine va Amburgo? E le Convenzioni del mare in generale?

Dunque, qui necessita una premessa: l’Unione Europea è un’organizzazione internazionale, non uno Stato. In genere i Trattati internazionali sono siglati dagli Stati, sebbene nulla osti al fatto che un’organizzazione internazionale sigli una Convenzione. Tuttavia, è molto difficile.

A maggior ragione, se si pensa che l’Unione Europa è una organizzazione sui generis, che limita la sovranità statale in molti ambiti. Per cui, tendenzialmente, gli Stati evitano che l’Unione europea si vincoli in loro nome in alcune materie. Come vi ho raccontato in un precedente articolo sul sistema di Dublino, per esempio, l’Europa nel 1997 si è presa parte della competenza in materia di immigrazione ma continuano a essere gli Stati quelli che firmano trattati internazionali, l’UE agisce solo al suo interno, non nei confronti di Stati terzi.

Pensate che a Lisbona, quando nel 2007 si sono adottati i nuovi Trattati sull’Unione Europea e sul suo funzionamento, si è previsto espressamente che l’Unione Europea in quanto tale ratificasse la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), del Consiglio d’Europa. Ma a distanza di quasi dieci anni ancora non se n’è fatto nulla e probabilmente nulla se ne farà.

Questo vuol dire che l’Unione Europea come organizzazione, e di conseguenza i suoi organi, quale è l’agenzia FRONTEX, non è vincolata al rispetto delle Convenzioni di cui abbiamo parlato fino ad ora. Ciò, tuttavia, non svincola gli Stati che singolarmente hanno siglato tali trattati dagli impegni e dalle obbligazioni che hanno assunto. Sostanzialmente, l’Unione europea non risponde di nulla: le mazzate se le prendono i singoli Stati.

Da ciò potete capire la “leggerezza” con cui l’Europa affronta il tema.

Al contempo, da tutte le cose trattate finora, potete anche capire quanto sia molto più complessa la posizione dell’Italia quando – in maniera semplicistica – si dice “perché non facciamo come la Macedonia? O l’Ungheria? O in generale i Paesi balcanici che hanno innalzato i muri di filo spinato?”

Da un lato questi Paesi hanno confini terrestri, quindi non gravano su di loro tutte le norme sul mare (e ribadisco che quelle di cui abbiamo parlato qui sono norme di natura consuetudinaria, di conseguenza anche se – per assurdo – l’Italia decidesse di recedere dai trattati internazionali vi rimarrebbe comunque obbligata!); dall’altro, come vi ho raccontato in un altro articolo, essi hanno davvero alle porte il pericolo delle infiltrazioni terroristiche.

Conseguenze: cosa succede se non si salvano le persone in mare?

Dunque, l’Italia viola 3-4 convenzioni internazionali e 2-3 norme consuetudinarie; per il capitano della nave arriva una bella incriminazione per omissione di soccorso (art. 1158 del Codice della Navigazione – che già nel 1942 recepiva principi stabiliti dalla Convenzione di Bruxelles del 1910, per l’unificazione di alcune regole in materia di collisioni fra navi-: fino a otto anni di reclusione se dall’omesso soccorso deriva la morte della persona in pericolo); per la coscienza individuale e collettiva.. beh, fate vobis!

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