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Il fango contro la Calabria arriva anche in diretta tv, durante la trasmissione Non è l’arena di Massimo Giletti. Lo dice con rabbia e con ragione il presidente del Consiglio comunale di Catanzaro, Marco Polimeni, collegato con il programma di La7, che più che uno studio o un’arena, sembra una fossa dei leoni, con le belve pronte a divorare chi ci finisce in mezzo. Polimeni resiste e – accusato di aver nominato il nome di Gratteri invano, peraltro citandolo come esempio per i giovani – ribatte a Giletti di volersi sostituire ai pm.
Una accusa che pecca solo per difetto. Giletti da anni ormai (e purtroppo) racchiude in sé il ruolo dei pm, dei giudici e della giuria popolare, con verdetti quasi sempre scontati: i malcapitati sono sempre e solo colpevoli. Il titolo della puntata non è da meno: “Calabria in attesa di giudizio”. Non alcune persone, quelle indagate da Gratteri e a dire il vero non ancora rinviate a giudizio, ma una intera regione che viene criminalizzata.
Giletti, del resto, fa sempre così. Non chiedetegli di informare, è un compito che a lui non interessa. Quello che gli interessa è gettare fango, fare processi in tv, aizzare le folle. E in questo ruolo effettivamente è insuperabile, niente da eccepire. Ma se invece ci mettiamo nell’ottica del “buon giornalismo” allora i conti non tornano, perché ancora non si capisce che cosa c’entrino le urla, le accuse, la messa alla gogna delle persone.
Ho smesso di vedere Giletti da un po’ proprio per questo e per la stessa ragione non mi sono stracciata le vesti quando la Rai ha deciso di non rinnovargli il contratto. Più che mai la tv pubblica dovrebbe impedire che i talk diventino produttori, a ciclo continuo, di antipolitica, qualunquismo, giustizialismo. Questo è invece Non è l’arena di Massimo Giletti, un programma in cui la presunzione di non colpevolezza è questione di archeologia del diritto, mentre la norma è quella del Vecchio Testamento: occhio per occhio, dente per dente…
Giletti ha coltivato un pubblico indisciplinato, rancoroso, convinto che tutti siano responsabili di qualche nefandezza e che le accuse non vadano dimostrate, ma prontamente trasformate in pena.
Oggi quasi tutta la televisione italiana è costruita sul modello del processo. Anche i talent, anche i talk show politici, anche i “chi l’ha visto”, anche i reality. Il processo cannibalizzato dalla tv, si è vendicato divorando tutti i format. Non è l’Arena è una fossa dei leoni, dove il conduttore getta in pasto al pubblico inferocito il capro espiatorio di turno che viene sommariamente processato e poi virtualmente lapidato. E non si tratta di essere innocentisti o garantisti, si tratta di dire basta a un modo di fare televisione che ha generato un Paese di mal informati, pronti a credere al primo che urla di più.
riprendono come esempio, modello. O forse come monito, come a dire: attenti, state zitti, non difendetevi dalle accuse, se no la prossima volta tocca a voi finire nella fossa. C’è da aver paura, da preoccuparsi e da sperare che una nuova televisione possa sorgere: senza urla, senza processi sommari, senza gogne.
Nel 1994 il francese Daniel Soulez Lariviere manda in stampa il saggio Il circo mediatico giudiziario, titolo che è diventato anche espressione emblematica del cortocircuito che si è creato, soprattutto in Italia, tra giustizia e politica. Ma forse neanche Lariviere, per quanto profetico, poteva immaginare che in Italia quel circo diventasse così potente e conquistasse tanto spazio, monopolizzando la maggior parte dell’informazione e dei talk show. Il vulnus da lui denunciato era appena all’inizio, oggi i conduttori si sentono come il Grande Inquisitore dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij, pronti a incarcerare anche Cristo purché gli ascolti vadano su.