Come impugnare una intimazione di pagamento

Views: 1

La contestazione della richiesta di pagamento avanzata dall’Agenzia Entrate Riscossione, dalla banca o da qualsiasi altro creditore: come si difende il debitore? 

Quando si parla di intimazione di pagamento ci si riferisce, in generale, a una richiesta inoltrata dal creditore al debitore con cui il primo dà al secondo un termine ultimo entro cui adempiere, riservandosi all’esito di procedere per le vie legali. È una sorta di avvertimento, di ultima diffida (anche se nulla toglie che ad essa ne possano seguire di altre). Il concetto è molto generico e si può riferire sia a rapporti tra privati che a rapporti tra privati e soggetti pubblici (ad esempio una pubblica amministrazione titolare di un credito). Quando invece si verte nell’ambito delle tasse e tributi, l’intimazione di pagamento è l’atto di sollecito inviato dall’Agente della Riscossione prima dell’avvio del pignoramento nei confronti del contribuente. In questo articolo spiegheremo come impugnare una intimazione di pagamento e quali sono le possibilità, per il debitore, di contestare il credito fatto valere nei propri confronti.

Come impugnare una intimazione di pagamento di Agenzia Entrate Riscossione

Partiamo proprio dall’ultimo dei due casi analizzati: l’atto spedito dall’Agente della riscossione (che, per le imposte erariali, è l’Agenzia Entrate Riscossione mentre per quelle locali possono essere società private con cui Comuni e Regioni hanno stretto apposite convenzioni). 

Come noto, quando l’Esattore deve intimare il pagamento al contribuente gli invia una cartella esattoriale. Il destinatario ha 60 giorni di tempo per adempiere altrimenti la cartella diventa definitiva e non più impugnabile. Dopo di ché, l’esattore può procedere al pignoramento, al fermo o all’ipoteca. Ma lo può fare solo entro 1 anno dal ricevimento della cartella stessa. Se decorre tale termine, prima di avviare l’esecuzione forzata deve notificare un nuovo sollecito che, in questo caso, si chiama intimazione di pagamento. L’intimazione di pagamento è quindi una sorta di “seconda cartella esattoriale”, che richiama la prima e, pertanto, è più sintetica. 

Oltre che sul contenuto, ci sono delle importanti differenze tra la cartella di pagamento e l’intimazione di pagamento:

  • termine per pagare: la cartella, come abbiamo detto, dà 60 giorni di tempo per pagare. L’intimazione di pagamento invece solo 5. Dopo tale termine si può avviare l’esecuzione forzata;
  • termine di efficacia: la cartella di pagamento scade dopo 1 anno mentre l’intimazione di pagamento dopo 180 giorni. Alla scadenza, è necessario notificare una nuova intimazione di pagamento per poter agire, iscrivere un fermo o un’ipoteca (diversamente qualsiasi atto è nullo). Anche le successive intimazioni di pagamento hanno un’efficacia di 180 giorni.

Purtroppo, quando arriva una intimazione di pagamento non è più possibile contestare il merito della pretesa esattoriale, ossia i conteggi fatti dall’ente titolare del credito, l’esistenza del debito (a meno che lo stesso sia stato nel frattempo annullato da un giudice o sgravato dall’ente titolare) o il presupposto dell’imposta. Queste censure, infatti, dovevano essere sollevate ben prima, quando il contribuente ha ricevuto il cosiddetto “atto prodromico” ossia l’avviso di accertamento. Già con la cartella di pagamento è possibile sollevare contestazioni solo in merito a vizi formali dell’atto di riscossione. Lo stesso dicasi quindi per l’intimazione di pagamento che può esse impugnata solo per “vizi propri”. Ad esempio si può impugnare l’intimazione di pagamento se:

  • manca l’indicazione del responsabile del procedimento;
  • non contiene gli estremi della cartella di pagamento a cui si riferisce;
  • non è mai stata notificata, in presenza alcuna cartella di pagamento;
  • è stato emesso da un agente della riscossione di una zona territoriale differente dalla residenza fiscale del contribuente.

L’impugnazione contro l’intimazione si pagamento si deve esercitare entro 60 giorni dalla sua notifica e va presentata al giudice competente che:

  • per le tasse è la Commissione Tributaria Provinciale;
  • per le contravvenzioni stradali è il giudice di pace;
  • per i contributi Inps e Inail è il tribunale sezione lavoro.

Qualora l’intimazione abbia ad oggetto somme già pagate, visti i tempi brevi concessi prima dell’avvio dell’esecuzione forzata (5 giorni), è consigliabile presentare subito ad Agenzia Entrate Riscossione la prova del pagamento.

Fino a tremila euro (per le tasse) il contribuente può anche difendersi da solo. Per le multe stradali lo può fare fino a 1.100 euro. Diversamente deve ricorrere a un legale (davanti alla commissione tributaria anche con un commercialista o un ragioniere). Dovrà in tutti i casi pagare prima il contributo unificato che è calcolato sulla sommatoria delle singole cartelle impugnate e in contestazione.

Come impugnare una intimazione di pagamento di altro tipo

Di norma, quando un creditore deve riscuotere una somma dal debitore gli invia prima una diffida, assegnandogli un termine entro cui adempiere. Questa diffida viene chiamata in svariati modi: messa in mora, sollecito di pagamento, intimazione di pagamento, ecc. 

L’intimazione di pagamento viene inviata, di solito, quando il debito è già certo nel suo ammontare ed esigibile. Lo può fare, ad esempio, la banca quando il cliente non paga una rata o ha sforato il fido che gli è stato concesso; un privato quando ha prestato una somma a un amico e questi, alla scadenza, non l’ha restituita; un fornitore, dopo aver emesso la fattura, se il versamento non è avvenuto nei termini concordati; il danneggiato da un incidente stradale che non sia stato risarcito dall’assicurazione, ecc. 

In caso di mancato adempimento alla richiesta di pagamento, il creditore potrà ricorrere al giudice. Se però egli è in possesso di una sentenza, un decreto ingiuntivo definitivo, un assegno emesso da non più di 6 mesi o una cambiale firmata da non più di 3 anni, egli potrebbe agire direttamente con un pignoramento. In tutti questi tre casi casi, l’intimazione di pagamento ha un nome ben preciso: si chiama atto di precetto ed assegna al debitore 10 giorni di tempo per corrispondere il dovuto.

La mancata risposta a una intimazione di pagamento non può considerarsi una tacita ammissione del debito; tuttavia è sempre bene contestare l’intimazione di pagamento in modo formale. Invece se si tratta di precetto, il debitore deve sapere che, non avviando un ricorso, potrà subire l’esecuzione forzata.

In generale, quando si usa il termine impugnazione si intende la contestazione di una pretesa davanti al tribunale anche se, impropriamente, tale parola viene usata per qualsiasi tipo di contestazione, anche quella stragiudiziale, fatta cioè con una semplice lettera di risposta. 

In generale, come anticipato, è sempre meglio replicare a una intimazione di pagamento con un atto scritto (che non deve necessariamente essere scritto dall’avvocato, ben potendo essere compilato anche dallo stesso debitore). Servirà a chiarire le ragioni del debitore e a manifestare la sua buona fede. 

Il debitore potrebbe anche ricorrere egli stesso al giudice, prima che lo faccia il creditore, per mettere a tacere le pretese di quest’ultimo. È quella che tecnicamente viene chiamata «azione di accertamento negativo del debito». In verità è più comodo, facile e meno costoso che l’azione giudiziaria sia intrapresa dal creditore perché in tal modo:

  • spetta al creditore (ossia a chi agisce) l’onere di dimostrare il proprio credito: il debitore dovrà solo provare che il debito non esiste o che è stato già pagato o che esiste ma in misura inferiore (come nel caso in cui si contesti la qualità di lavori eseguiti);
  • spetta al creditore (ossia a chi agisce per primo) anticipare le spese del giudizio, sia esso un decreto ingiuntivo o una causa ordinaria;
  • non è detto che il creditore agisca; questi potrebbe fermarsi alla semplice diffida, ritenendo non conveniente dal punto di vista economico l’azione giudiziaria. 

fonte

Ecco la prova che l’Euro è una moneta privata! (Vi ricordate i mini-assegni)

Views: 1

Tecnicamente la banconota di euro è l’equivalente di una cambiale, o di un qualsiasi titolo di pagamento di diritto privato

In un agorà a Festella il professore Aldo Giannuli ha spiegato ai presenti, in modo semplice e con parole molto chiare, cos’è l’euro.

Procuratevi una banconota di euro di un qualsiasi taglio e verificate se quello che leggerete corrisponde al vero, se avete ancora una banconota in lire potrete fare velocemente i dovuti confronti.

mille lire 2

Avete mai osservato bene una banconota di euro?

  1. Non c’è scritto da nessuna parte pagabile a vista al portatore, questo perché la BCE non ha una riserva aurea.
  2. Non c’è scritto da nessuna parte “la legge punisce i fabbricanti e gli spacciatori di biglietti falsi”, come mai? Osservate la bandiera, vicino alla bandiera ci sono gli acronimi della così detta Banca Centrale Europea nelle varie lingue, ma prima c’è è quello del Copyright.

Avete mai visto un francobollo,  una marca da bollo, una banconota con il simbolo del copyright? Il copyright è per sua natura un istituto di diritto privato, la moneta per sua natura è un istituto di diritto pubblico, tante vero che se un esercente si rifiutasse di accettare il pagamento in euro e chiedesse il corrispettivo in dollari, in teoria, commetterebbe un reato perché, la moneta in quando istituto di diritto pubblico, ha corso forzoso, quindi si è obbligati ad accettarla.

image-2

Ma l’euro è una moneta che ha corso forzoso? Quella che noi chiamiamo Banca Centrale è un accordo di natura privatistica fra banche centrali nazionali che restano proprietarie della riserva aurea. Tecnicamente la banconota di euro è l’equivalente di una cambiale, o di un qualsiasi titolo di pagamento di diritto privato. E’ in funzione di moneta perché l’accettiamo come tale, se ad esempio dovesse esserci una crisi di tipo Giapponese o Argentino possiamo essere sicuri che l’euro continui ad essere riconosciuta come banconota?

Oggi se un esercente si rifiutasse di accettare un pagamento in Euro e chiamassimo un agente di polizia questo forse obbligherebbe ad accettare il pagamento, ma un domani se … non si si può dire!

fonte aldo_giannuli

Ecco la prova che l’Euro è una moneta privata!

In alto a sinistra – prima della lettera B di BCE – appare il simbolo del Copyright.

Cos’è il copyright?

Il copyright è, in estrema sintesi, un diritto esclusivo dell’autore di un opera che gli consente di tutelarne la proprietà intellettuale.
Quindi la BCE, emettendo Euro, se ne garantisce la esclusiva proprietà ricorrendo ad una norma di diritto privato; la mette in circolazione tramite il sistema bancario (anch’esso privato) che lo “rivende” al mercato in cambio di un interesse.
E’ quindi un diritto disciplinato dal CODICE CIVILE, il quale regolamenta i diritti ed i doveri intercorrenti tra soggetti privati.
Sulla banconota non è scritto “pagabile a vista al portatore”, nè che  in quanto:” La legge punisce i fabbricatori e gli spacciatori di biglietti falsi”
– a fronte della banconota non esiste un bene tangibile con il quale convertirne il valore (ad. esempio: oro o altri metalli preziosi),
– la tutela della titolarità del diritto avviene sul piano privatistico, in quanto non è piu’ prerogativa dello Stato l’emissione di moneta; la sua eventuale contraffazione non rappresenta piu’ neanche un delitto contro la collettività.
Non esiste pertanto nemmeno la circolazione forzosa per una moneta siffatta per cui, a rigor di logica, domattina il mio tabaccaio potrebbe rifiutarsi il mio pagamento in Euro pretendendolo magari in Dollari americani.
Questo non potrà ovviamente mai accadere per il fatto che tutti accettano in pagamento la banconota per pura convenzione, considerandola alla stregua di un mezzo di pagamento assolutamente legale in forza di una legge dello Stato.
Non è così. Non sta scritto da nessuna parte che io debba forzatamente accettare l’utilizzo della proprietà intellettuale di qualcun altro, ma sono costretto a farlo perchè “così fan tutti”.
Ora, il diritto di utilizzo della proprietà intellettuale di qualcuno prevede da parte dell’utilizzatore il pagamento di un corrispettivo (a meno che quel diritto non venga concesso gratuitamente – e così non è).
Tale corrispettivo è appunto l’interesse. Ma l’interesse deve essere pagato in moneta e questa moneta non posso stamparla da solo perchè lederei il Copyright del prestatore, quindi il prestatore stamperà altra moneta – che mi presterà – perchè io possa pagargli l’interesse. Fino a che il titolare del Copyright stamperà moneta, quindi, io privato o io Stato continuerò ad indebitarmi.
E’ ovvio che arriverà il momento i cui dovrò restituirgli anche il Capitale (cioè la quantità originaria di “diritto all’utilizzo” della sua opera d’ingegno) e con cosa potrò sdebitarmi se non cedendogli i miei beni?
Capito adesso come funziona la frode? C’è tanto di simboletto stampato sopra!!!

David Carletti

 

Un paese sotto il sangue

Views: 1

Di Antonio Ciano

IMG_0686

Disponibile come #ebook su: https://bit.ly/2usMMo7

” un paese sotto il sangue ” Sfata il mito di una felice unificazione dell’Italia. Quello che è stato fatto per passare come lotta per l’indipendenza, è stata veramente un’invasione perpetrata dalla casa di Savoia e dai suoi affiliati massonico con la connivenza dei cartelli della mafia e della camorra. Dopo l’annessione del regno delle Due Sicilie, le ricchezze dell’Italia meridionale sono state trasferite alle banche del nord per alimentare lo sviluppo industriale della Lombardia e del Piemonte. Privò e impoverita, milioni di sud ” Gli italiani ” non avevano altra scelta che trasformarsi in fuorilegge o lasciare la loro patria ancestrale e emigrare negli Stati Uniti, in Australia e nel Sud America in cerca di un nuovo inizio.

(prossimamente in #stampa in #librerie in tutto il mondo)

#history #Italy #truehistory #Risorgimento #Bourbon #Savoy #masonic #mafia #camorra #neoliberism #illuminati #newworldorder #unification #warcrimes

Il Brigantaggio: non delinquenti, ma partigiani

Views: 0

Valutare le ragioni dei vinti
La rilettura più che necessaria di un periodo di storia meridionale

Un’intera settimana di studi sul fenomeno del brigantaggio è una novità assoluta non solo in Puglia ma forse in tutto il Meridione d’Italia. L’iniziativa, nata dall’intuizione del prof. Biondi e dell’avv. Nigro, entrambi di Villa Castelli, trova la sua collocazione nella cittadina brindisina in una sapiente miscela di promozione culturale e turistica.

I temi proposti vanno dall’analisi generale del fenomeno alla trattazione di singoli momenti e aspetti particolari: rivivranno quindi pagine dimenticate o misconosciute della storia del Sud, dal brigantaggio del decennio francese al ribellismo postunitario; si parlerà di capi famosi, come Ciro Annicchiarico, il prete brigante e del sergente Romano, ma anche della massa anonima di sbandati borbonici che presero la strada della macchia e della violenza, non avendo altra via di fuga dalla miseria e dalla disperazione.

La colpa principale di questi uomini è forse quella di essere vissuti in un periodo di rivolgimenti epocali, senza avere la certezza, non dico del futuro, ma neanche del presente.

La paura del nuovo – rappresentato dai Savoia – che avanzava colse impreparati i contadini meridionali che ancora non avevano coscienza di essere classe sociale: a loro anche il poco o il nulla che possedevano sotto i Borboni sembrò in pericolo. La loro centenaria aspirazione, il possesso della terra che lavoravano, per un momento sembrò realizzarsi: così, ad esempio, Garibaldi apparve subito ai loro occhi il messia venuto ad affrancarli e a liberarli. E non tardarono a ricredersi quando il nuovo Stato, invece delle terre promesse, impose nuove tasse e nuove coscrizioni obbligatorie: quanto grande fu l’illusione di un momento, tanto maggiore e immediata fu la delusione; le terre cambiarono proprietà ma i contadini continuarono a rimanerne esclusi e – in aggiunta – i loro figli dovettero andare a servire il nuovo sovrano in un esercito che ancora non considerarono come il proprio.

E fu la macchia, furono le ruberie e le grassazioni di un popolo che non intravedeva futuro, furono le illusioni di un ritorno al potere del Borbone, fu il brigantaggio.

Lo stato unitario rispose alla violenza con la repressione, spesso crudele e quasi sempre indiscriminata, in una lotta impari tra un esercito organizzato e preponderante per numero e i manipoli di uomini alla macchia; una lotta che – come in tutte quelle definite di guerriglia – segnò parziali ed iniziali successi per i secondi. Allora si volle colpire ancora più duramente e lo Stato emanò la prima di una lunga serie di leggi speciali che lo hanno caratterizzato fino ad oggi: la legge Pica. Soppresse le fondamentali libertà, bastò il sospetto per arrestare, fu sufficiente essere catturato con le armi in mano per essere fucilato sul posto, il solo sospetto fu elevato a rango di prova, la parentela diventò crimine e intere famiglie – colpevoli di avere un congiunto alla macchia – furono poste in stato di detenzione e giudicate dai tribunali militari straordinari di guerra.

Fu, insomma, quella che gli storiografi ufficiali – la storia è scritta sempre dal vincitore – definirono con disprezzo e faciloneria lotta alla delinquenza comune meridionale, “il brigantaggio”.

Ora sono passati quasi centocinquanta anni, il revisionismo di quel periodo storico è avviato, i tempi sono maturi per riflettere obiettivamente su quel periodo, per capire, senza giustificare le violenze di entrambe le parti, anche le ragioni di chi perse, per analizzare la portata popolare e la diffusione del brigantaggio meridionale, per inquadrarla in un contesto più aderente alla realtà di confusa rivolta anarcoide della classe contadina del Sud.

Per questo e per tante altre ragioni una settimana di studi può non essere sufficiente, ma è un passo importante per analizzare gli errori di allora traendone gli elementi per superare quelle occasioni di conflittualità ancora oggi esistenti.


Il Brigantaggio: non delinquenti, ma partigiani
Domenico Bolledi 17 marzo 2015 Storie
Noi giuriamo davanti a Dio e dinanzi al mondo intero di essere fedeli al nostro augustissimo e religiosissimo sovrano Francesco II (che Dio guardi sempre); e promettiamo di concorrere con tutta la nostra anima e con tutte le nostre forze al suo ritorno nel regno; di obbedire ciecamente a tutti i suoi ordini, a tutti i comandi che verranno sia direttamente, sia per i suoi delegati dal comitato centrale residente a Roma. Noi giuriamo di conservare il segreto, affinché la giusta causa voluta da Dio, che è il regolatore de’ sovrani, trionfi col ritorno di Francesco II, re per la grazia di Dio, difensore della religione e figlio affezionatissimo del nostro Santo Padre Pio IX, che lo custodisce nelle sue braccia per non lasciarlo cadere nelle mani degli increduli, dei perversi, e dei pretesi liberali; i quali hanno per principio la distruzione della religione, dopo aver scacciato il nostro amatissimo sovrano dal trono dei suoi antenati. Noi promettiamo anche con l’aiuto di Dio di rivendicare tutti i diritti della Santa Sede e di abbattere il lucifero infernale Vittorio Emanuele e i suoi complici. Noi lo promettiamo e lo giuriamo.
(Marco Monnier, Notizie e documenti sul brigantaggio nelle province napoletane, Barbero, Firenze, 1862, pp. 73-74)

Secondo l’enciclopedia Treccani, il brigantaggio altro non è che un “fenomeno, diffuso soprattutto in fasi di squilibrio sociale e politico, per il quale bande di malfattori, riunite e disciplinate sotto l’autorità di un capo, attentano a mano armata a persone e proprietà. Il nome proviene dai briganti, in età medievale soldati avventurieri a piedi, che facevano parte di piccole compagnie mercenarie”.
Se questo articolo seguisse i canoni ordinari della storiografia nazionale, poco altro ci sarebbe da dire. I briganti furono dei delinquenti e la loro distruzione, per opera delle forze sabaude, permise la nascita dell’Italia come noi la conosciamo. Tuttavia la storia dell’Unità d’Italia studiata nei libri di scuola, come purtroppo anche all’università è incompleta o per meglio dire errata. Questo lo si sa da tempo eppure tutto tace, nascosto da una secolare coltre di connivenza tra storici e politici. E nell’abissale silenzio di ciò che avvenne in quella fase da tutti osannata come “Risorgimento”, è necessario fare luce su quello che sono stati i briganti, partigiani ottocenteschi che combatterono per la libertà contro il dispotismo sabaudo, e quello che è il Brigantaggio, un fenomeno che si interseca con la storia del mezzogiorno contemporaneo e con la questione meridionale tutt’ora drammaticamente attuale.

Il Brigantaggio si sviluppa storicamente come fenomeno politico in appoggio ai Borboni, per poi trasformarsi nei primissimi anni post-unitari come forma di protesta sociale nei confronti di quell’unificazione nazionale, contemplata da Cavour e Garibaldi, che viene vista dalle popolazioni meridionali come l’ennesimo atto di forza di una potenza straniera nei loro confronti. Se al momento del voto plebiscitario che segnava l’annessione del Regno delle Due Sicilie alla monarchia piemontese, in tanti erano a favore, convinti che ciò segnasse l’inizio di una nuova epoca di libertà, pronti ad affrancarsi dalle catene di un sistema sociale ed economico ancorato a modelli feudali da tempo obsoleti, il voltafaccia della classe dirigente, schieratasi in massa a favore dei Savoia con l’obiettivo evidente di mantenere i propri averi e consolidare le proprie posizioni di potere, spinse la popolazione a mobilitarsi.

Quando il 13 febbraio 1861, re Francesco II parte per l’esilio, si registrano immediatamente i primi disordini. Se all’inizio questi sono condotti solo da nostalgici fedelissimi dei Borboni, successivamente si registra l’ingresso sulla scena dei contadini, che ribellandosi al nuovo dominio, si ritirano sui monti dando vita a squadre di briganti. L’obiettivo del brigantaggio è duplice: da un lato colpire i ricchi proprietari terrieri conniventi con il nuovo regime, dall’altro attaccare l’esercito piemontese. La risposta sabauda è violenta ma al contempo inefficace: violenta perché sin da subito le perdite tra le fila dei briganti sono innumerevoli (si parla di oltre mille morti nel solo 1861), inefficace perché la rivolta sarà tutto fuorché effimera.
Nel 1863, su iniziativa del governo italiano, viene istituita una Commissione Parlamentare d’inchiesta presieduta dal deputato Giuseppe Massari. Nella relazione finale viene indicata come causa prima e unica del brigantaggio, la miseria delle popolazioni dovuta all’oppressione borbonica. La rivolta dei briganti secondo lo Stato era quindi dovuta alle condizioni di povertà in cui il popolo era stato ridotto dai Borbone e non per colpa dalla repressione piemontese. La relazione porta alla promulgazione della “Legge Pica” che autorizza lo stato d’assedio nei paesi in cui si registra l’attività dei briganti. Il risultato è catastrofico: negli anni della rivolta oltre cinquanta tra villaggi e paesi vengono rasi al suolo, innumerevoli sono gli stupri e le violenze sulla popolazione quanto i processi farsa e le esecuzioni sommarie. Tra le fila dei borbonici si registreranno oltre 250 mila morti, mentre per i piemontesi saranno più di 20 mila i caduti sul campo di battaglia, dal cui computo vengono esclusi tutti coloro che vennero fucilati per diserzione o tradimento. Uno dei pochi meriti della storiografia nazionale è il riconoscimento che questa guerra civile costò più vite di tutte le guerre risorgimentali messe assieme.
Verso la fine del tremendo decennio, il Brigantaggio, decimato e incattivito, andò perdendo la spinta ideale che lo aveva animato e le bande rimaste si diedero, allora sì, ad atti di malavita, istigate anche dalla condizione di estrema povertà nella quale le regioni meridionali erano cadute e dalla nascita del latifondo, che toglieva ai contadini ogni possibilità di una sopravvivenza dignitosa. Solo da quel momento in poi, la repressione piemontese prese il sopravvento: il Brigantaggio fu debellato definitivamente e i Meridionali andarono a cercare una nuova vita nelle Americhe, avviando un fenomeno del tutto sconosciuto fino nel Regno delle Due Sicilie. Nel 1861, infatti, si contavano soltanto 220mila italiani residenti all’estero; nel 1914 erano 6 milioni. È inquietante, se si pensa che la popolazione dell’ex Regno napoletano era composta da 8 milioni di persone. – L’esercito sardo aveva avuto la propria vittoria, ma non così il regno d’Italia: i briganti non erano distrutti, avevano trovato un’altra forma di resistenza, l’emigrazione.
(Giovanni Turco, Brigantaggio, legittima difesa del sud. Gli articoli della “Civiltà Cattolica” (1861-1870), Il Giglio, Napoli, 2000, p. 187)

fonte

“ROMA E LE MENZOGNE PARLAMENTARI NELLE CAMERE… ”

Views: 3

RICERCA EFFETTUATA SU “GOOGLE LIBRI” DAL LIBRO “ROMA E LE MENZOGNE PARLAMENTARI NELLE CAMERE… ” di Teodoro SALZILLO -Malta-1863

12483736_10205410055991864_1483133514_n-212x300

La menzogna è il furto del bene dell’intelletto, che il mentitore ce lo invola. Ogni verità e partecipazione del Sommo Vero, ed è mezzo per risalirvi, l’inteletto è perfezione della più nobile parte di noi, ogni privazine di vero per noi è grave perdita, ogni offesa del vero un grave delitto.

PREFAZIONE
La rivoluzione pervenuta a travolgere le menti con un falso filosofismo, a scambiare il senso dei vocaboli della lingua, a manomettere il retto ragionare con una logica tutta propria, a sublimare la sempre crescente illuvione dei più abbominevoli vizi e delitti (1) ed a canonizzare l’assassinio; dubbitando che i popoli non si facessero accorti dell’ inganno in cui erano stati trascinati, cercò una leva potente, la quale con la sua forza potesse tenerli desti ed indecisi.
L’ organizzatore della strage mondiale, Lord Palmerston, che della rivoluzione è il primo protettore, non pel bene della sociale Famiglia, ma perchè la mercantessa Albione ne traesse profitto, senza durar fatica, la rinvenne nella negazione del vero. E siccome questa figlia di Satana si è identificata con lui, così, onde avesse possanza maggiore, l’ha sollevata agli onori parlamentari. Difatti vediamo, che di essa si è servito a muovere guerra alla Chiesa, ed al Vicario di Cristo; di essa si è servito, per mezzo della virulente eloquenza di Sir Gladston ad attaccare l’immortale Re FERDINANDO II; di essa ha fatto uso, per mezzo della stampa venale a diffamare gli onesti e ad onorare della apoteosi i Regicidî; di essa si è servito nel Congresso di Parigi, per mezzo di Lord Clarendon, a rovesciare i troni d’Italia, segnando loro una dichiarazione di Guerra in un trattato di pace; alla fin fine di essa si serve tutt’ora ad assalire la Corte Romana, e l’Esule Sovrano FRANCESCO II, non che la bella, la religiosa, la Eroica, e la rassegnata Sua Consorte MARIA SOFIA, innanzi a Cui, ogni testa Coronata in segno di onore, di rispetto e di ammirazione s’inchina; ed attribuisce loro la causa del movimento nazionale che si verifica nel Regno di Napoli, dichiarandoli responsabili di quel sangue che si versa in quelle depauperate contrade, una volta floride e doviziose.

Ed abbenchè con atti autentici e con prove d’incontrastabili fatti sia stato sempre smentito, senza però mai arrossirne, pure gli aievi della sua scuola che cicalecciano nella Camera di Torino, non si sono mai arrestati a fare sfoggio di valentia a chi sapesse più mentire, sbugiardandosi a vicenda e senza vergognarsi, in riparazione dell’offesa, sono venuti a duello; per dimostrare la gran concordia che regna tra i parassiti, che si strombazzano rappresentanti dell’acefalo Regno Italiano.
Noi indegnati della loro sfrontatezza, annojati di più leggere negli atti ufficiali tante spudorate menzogne, ci siam decisi gettarli un guanto di disfida, e far rilevare che quanto si è detto nella Camera de’Comuni di Londra ed in quella di Torino, contro la Corte Romana, contro FRANCESCO II, e contro gli altri Principi spodestati, tutto è falso. Ed acciocchè gli avversari in politica non ci potessero adentellare nell’ esposizione del lavoro, ci serviremo, come documenti di appoggio, delle ragioni, delle opinioni e dalle confessioni, che la maggioranza dei componenti le due Camere, ha fatte, emesse e dedotte. Le loro tornate ci saranno a guida, e la stampa liberale ci starà in sostegno.
Fidenti nel vero, e disprezzando gl’ignoranti, e gl’invidiosi calunniatori, scendere1o nella dura, ma per noi piacevole palestra.

(1) Lettera Enci: di Pio IX i0 Agosto 1863


RICERCA EFFETTUATA SU “GOOGLE LIBRI” DAL LIBRO “ROMA E LE MENZOGNE PARLAMENTARI NELLE CAMERE… ” di Teodoro SALZILLO -Malta-1863

pag. 133 a pag 141

[…]
questi poi non solo fucila, manda nell’esilio ed incarcera in massa Vescovi, Preti, e Frati, ma ne sequestra puranco i beni. Però se avesse imparato da un eterno nemico della Chiesa(Mazzini.Lettera del 30 aprile 1861) che l’ingiustizia non prevarrà eternamente, e che l’oppressione è un suicidio di chi l’esercita, non farebbe a gara coi Neroni, co’ Calligola, e coi Diocleziani, suoi degni maestri. Se Murawieff in Polonia ha bruciata la Città di Grodno ed il villaggio di Dziko e qualche altro come ci rivela un giornale, (Lo Czaz) almeno ha usato riguardo a quegli abitanti, quantunque li abbia mandati in Siberia. Ma nel Napolitano non si usano questi riguardi, perchè creduti Contrari alla civilizzazione moderna. Ivi oltre che si sono bruciati ventinove paesi e Città, non si è usato neppure rispetto agli abitatori.
In Pontelandolfo e Casalduni chi si trovò fuori l’abitato rimase salvo, e chi era dentro le case, dovè morire abbrustolito, perchè gli aguzzini Piemontesi, in livrea di soldati, colà spediti da Cialdini, a colpi di bajonetta facevano rientrare gli abitanti, nelle loro case, che già l’incendio divorava. Quante incinte non si sbranarono allora ? … Quante vergini non si struprarono in quel momento terribile?!.. La lor preghiera era di sprone maggiore alla ferocia. Ivi le Chiese furono denudate da ogni corredo, fin delle sacre Pisidi!… Sperdendo le Ostie consacrate!…e bevendo nei calici, insultavano a Dio!.. Pargoli innocenti, vecchi cadenti, infermi spossati, e madri sconsolate furono, con i figli lattanti al seno, vittime del fuoco e del barbaro furore; ed i figli di Rinaldi, che si diedero alla fuga, si fucilarono fuggendo,con un venerando vecchio ottuagenario!… Noi crediamo che Erode, ordinatore della strage degl’innocenti, non avrebbe avuta cuore assistere all’incendio di Pontelandolfo e di Casalduni.
Solo i seguaci giannizzeri del redivivo Nerone potevano passivamente assisterci. Ma che forse l’ambizioso Sire di Torino ne arrossí? Affatto! Anziens godette, e Cialdini, di tanto eccidio, come un trionfo, faceva ripetere col telegrafo agli angoli del Mondo: Pondelandolfo e Casalduni han subita la meritata giustizia. E di qual delitto dimandiamo noi , erano rei OTTOMILA cittadini?
Cinicamente ci si risponde: Perchè non volevano la libertà. Oh barbarismo. oh atrocità inaudite!.!. Saressimo troppo nojosi al lettore ricordare tanti individui bruciati vivi nelle pagliaje in campagna; tanti impiccati agli alberi d’accosto alle strade pubbliche; tanti fucilati lavorando i propri poderi; tanti scannati nelle proprie abitazioni, sol per desiderio di sangue; tanti metragliati in massa; tanti decorticati vivi; tanti fatti morir di fame nelle prigioni, (Tra i quali un tale di cognome Creola del cui fatto fecero tanto chiasso i giornali) e tanti gittati nei fiumi con pietre al collo. Delle quali atrocità sono piene le colonne dei giornali liberali a ribocco, dai cui abbiamo appreso sì belle notizie!… Si è fatto rimprovero all’Autocràte Russo che la coscrizione la faceva eseguire di notte. Ma a chi non sembra questo sopruso un atto di umanità, se considera al proposito quello che fa il Re Galantuomo nelle provincie meridionali?.. Colà si assediano i paesi; colà si arrestano i genitori per i figli; colà si prendono in ostaggio le sorelle che sono nei monasteri; colà si piazzano i piantoni in casa del renitente, spogliandogli la casa se non si presenta; colà si torturano i sordi-muti, e con bottoni di fuoco si gli fanno CENTO CINQUANTAQUATTRO FERITE! per fargli parlare; (Uno di questi è un tale AntonioCappello di Palermo,al srvizio di Morello,acquajolo in via Maqueda di cui si fa processo!)colà si fucilano i fuggenti; colà si arrestano i vivi alla cieca per i morti da due anni; colà in fine si dà la caccia ai renitenti come alle belve nel deserto. Ma a che valgono tanti mezzi diabolici?.. a nulla…. poichè essi preferiscono combattere l’usurpatore nelle montagne, e non d’indossarsi la scomunicata divisa. In vano gridano bugiardemente i giornali di livrea che le leve si eseguono con maraviglioso entusiasmo, e che i legittimisti sono stati scfitti e dispersi, poiché niuno più vi presta fiducia.
Giudichino, pertanto i lettori, chi sono più martoriati, se i Polacchi dai Cosacchi, o i Napolitani dagli italianissimi piemontesi, che tutti e due i popoli sono parte della grande famiglia italiana?… Da un giornale italiano al servizio di Torino (Politica di Milano) Murawieff vien chiamato il cannibale della nazionalità, l’obbrobrio del Secolo. Noi non per assumere l’incarico di fare l’apologia di costui, ma per essere giusto, diciamo: che questi onorificendissími titoli, sono propri dei padroni del giornale; perchè se Murawieff combatte la nazionalità, che vogliono i Polacchi, fà il suo dovere di soldato.
Anzi mostra’ ai Traditori di FRANCESCO II, del Gran Duca di Toscana, e degli altri Principi spodestati, come si deve star fermo al giuramento, che si dà al proprio Principe; come si difende la propria bandiera; come si deve conservar caro l’onor militare; e come in fine un cittadino deve serbar gelose le grandezze della sua patria, anche col sacrificio della sua propria vita.

Non si nega che Murawieff eccede, ma se ciò fa, è pel troppo amore che nutre per la sua nazione, che non vorrebbe vederla smembrata, il cui possesso è in forza deitrattati,(trattati del 1815) pei quali tutti i Sovrani, posseggono.
Ma qualcuno ci potrà dire: queste stesse ragioni non militano a favore di Cialdini, e degli altri carnefici incendiatori del Napolitano? Noi rispondiamo che nò; perchè quel popolo non insorge per ribellarsi al Principe legittimo, che per forza del Dritto internazionale governa, mainsorge per scacciare l’usurpatore dei dritti che
non gli pertengono. E lo stesso giornale palmerstonniano confessa: che i piemontesi nel mezzogiorno dell’ Italia vi sono accampati, e lo trattano come un paese conquistato, perchè in realtà non vi è veruna fratellanza fra le popolazioni, (Il Times) sicché in quelle contrade il bacio fraterno dei piemontesi, è una fucilata; l’amplesso è una stoccata; ed una stretta di mano é una prigionia, una condanna. Gran verità!…
Per quanto ci fossimo affaticati, a trovare nella storia popoli più selvaggi dei piemontesi nelle atrocità, tutto è stato indarno. I Goti , i Vandali, gli Ostrogoti commisero barbarie; i Saraceni, ed i Longobardi devastarono ed incendiarono; gli Stamiti ed i Gentili lasciarono dietro di loro tracce di rapine e di sangue, ma di
tanta intensità come quelle dei piemontosi nel napolitano, è ben difficile rinvenirsi; perché il solo paragone che può stabilirsi è l’ombra colla realtà. E, perciò nelle contrade meridionali, e nelle altri parti d’Italia, la parola piemontese è perfetto sinonimo di dolore, di morte, d’infamia. Proseguendo il confronto delle atrocità piemontesi domandiamo ai politici del giorno: (che oggi per altra disgrazia tutti vogliono parlare di politica) quanto mai Murawiéff si ha sognato di far costruire CEPPI DI FERRO per torturare i prigionieri, come ha fatto quell’anima evangelica di Sirtori. Quando mai ha promessi 20 mila franchi a’Polacchi per fare scannare un Polacco, come ha fatto la Marmora ai Napolitani per fare uccidere Caruso, Tamburrino, Ninco Nanco, Crocco, anche Napolitani, e così per tanti altri ancora? Cosa che, invece di far estinguere, fomenta la fratricida guerra !!!. -Ripetiamo con sicurezza di non potere essere smentiti che le atrocità, le barbarie, che si consumano e si usano nel napolitano Reame, non trovano rincontro nella Storia.
Eppure l’Europa non si commove, e mentre mostra ribrezzo di orrore per i sanguinosi annali della Francia del 1893, mira con filosofica indifferenza i giornalieri eccidi nel napolitano da tre anni in quà!…. Con differenza, che da quelle ecatombe si ottenne un gran passo nell’ordine sociale, perchè la società liberata dal, feudalismo, e surta dal brago di sangue in cui erasi affondata, nel mentre che, si trovava colpevole, si vide più bella e pronta a migliorarsi. Non così oggidì: giacchè se quegl’infami principi ritornassero a vita novella, (al che si tende) si distruggerebbero i benefici ottenuti in 70 anni, nel quale tempo i Principi legittimi hanno indefessamente faticato, per migliorare la sorte dei popoli, che loro Iddio diede a governare. Guai però a’Sovrani, se non smorzano l’incendio nella casa altrui, perchè o presto,o tardi s’avranno la sorte stessa, in pena dell’oscitanza e della indifferenza!… Quando la stampa rivoluzionaria ci racconta il fiero procedere di Murawieff, noi ci addoloriamo, ma ci vediamo pure una gherminella, perche ognuno sa, esser dovere della libera stampa mettere a nudo la piaga del proprio paese, e non nasconderla; ed a noi pesa un grave delitto dimenticarsi di se, per accorrere con zelo farisaico ad ajutare gli altri.

La stampa Torinese che si affaccenda a rimproverare Murawieff, perché non si prende anche la cura di tramandare maledetto alla più tarda posterità il nome del Deputato Castagnola?! il quale convinto del ritorno di FRANCESCO II e della impossibilità assoluta, di distruggere il brigantaggio con tutta la legge di Pica, (che farà negli avvenire compagnia ad Erostrato,) ebbe con ardire satanico a ripetere in pubblico parlamento di Torino: PRIA DI TORNARE NEL PASSATO, SI BRUCIA LA STESSA NAPOLI E SI SPARGANO LE CENERI AL VENTO. Onta e maledizione eterna all’infame!!,,, al nemico del proprio tetto L. Eppure quel nobile EROE, quel tradito, ma non mai vinto FRANCESCO II, sempre di animo cavalleresco, abbenchè Poteva accogliere Garibaldi coi cannoni di S.Elmo, A RISPARMIARE ALLA SUA PATRIA GLI ORRORI DEI DISORDINI INTERNI, ED I DISASTRI DELLA GUERRA si allontanava da Napoli; spesso ripetendo: SI PERDA IL TRONO E LA REGIA, MASI LASCI NAPOLI, E SI SALVI. Ed intanto Castagnola ne vuole spargere le ceneri al vento!..!..
La Marmora la vuol distruggere col Cannone se si lagna; Vittorio Emmanuele per essere progressista vuole incendiarla, come fece Nerone a Roma. E noi consigliamo loro di tuzzar col capo vicino al Vesuvio, fin che si sfonda, e colle sue lave di fuoco incenerisca tutto, non però ciò che é nazionale, ma ciò che è estraneo a quella terra benedetta, oggi calpestata da un orda di scomunicati, dei quali bisogna riguardar la fine!….
Oh quanto altro avressimo ad esporre alla pubblica conoscenza!.. Ma la penna ci cade di mano essendocisi troppo toccato il cuore per le raccontate atrocità consumate dal Piemonte nella terra, ove ebbimo la culla, ove le ossa degli avi nostri fremono per essere calpestate, da impuro e lubbrico piede.

Da quanto abbiamo detto, crediamo che il lettore siasi persuaso, che non vi fu, e né vi sarà mai al Mondo un tiranno per le atrocità, un mostro per empietà, ed iniquità, un nemico alla Chiesa Cattolica, un ambizioso, un Conculcatore del dritto e della Giustizia, come al Re, così detto dai rivoluzionarî, per derisione, il GALANTUOMO, che per dar prove del suo galantomismo, ha ridotta l’Italia lacera e scarna da destare la pietà ai suoi stessi nemici, spingendo i diversi popoli che sono ad abitarla a stare l’uno contro l’altro armato, ed a scannarsi a vicenda.
Noi però siamo certi, o sofferenti Italiani, che la mano di Dio non tarderà ad intervenire in soccorso, e già i segnali, ne precedono, perchè ESSA non aderì mai al proclamato principio del non intervento, che è stato la causa della caduta di tanti Troni, dell’ipocrita persecuzione della Chiesa, e del tanto sangue sparso, il quale riverserà terribile e minaccioso sul capo di Colui, che col grido d’Italia una ed indipendente, le ha rapito pace, libertà, ricchezze, morale, religione, ed onore.

fonte

Pontelandolfo 1861, memoria di un eccidio. Intorno al brigantaggio e all’annessione

Views: 1

Snap 2016-05-21 at 15.39.06
strage a Pontelandolfo
di Giacomo Bianco
«Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno portato due volte i Borbone sul trono di Napoli. É possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120.000 uomini? Ho visto una città di 5000 abitanti completamente distrutta e non dai briganti».[1]La città di cui parla nella sua relazione il deputato milanese, Giuseppe Ferrari, è Pontelandolfo, nella quale di persona si recò mesi dopo, per constatare con i suoi occhi come il paese fu distrutto e bruciato. Vittima di una violenta repressione, il grazioso borgo medievale in provincia di Benevento, è appunto tristemente noto a storici e appassionati di storia risorgimentale, per i fatti di sangue avvenuti nei roventi giorni d’agosto nell’estate del 1861.
In breve. Il giorno della festa del patrono, il 7 agosto del 1861, durante la processione in onore del santo, irruppero nella scena religiosa un gruppo di briganti. Appoggiati da parte della popolazione e dall’arciprete don Epifanio De Gregorio, i reazionari diedero vita ad una dura sedizione, inneggiando al ritorno del re Francesco II. Il casus belli della rappresaglia avvenne quattro giorni più tardi, la sera dell’11 agosto, quando a Casalduni, a due passi da Pontelandolfo, furono uccisi in un’imboscata, dai filo-borbonici e dai legittimisti, 45 bersaglieri del nuovo esercito italiano, comandati dal tenente Bracci. Erano stati inviati dal colonello Negri per una perlustrazione, per avere conferma e informazioni sulla rivolta in atto.
La reazione punitiva non tardò ad arrivare contro i due comuni e infatti, qualche giorno dopo, il generale Cialdini, informato dei fatti dal cavalier Jacobelli della Guardia Nazionale, diede il triste ordine: «che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra» [2]. Contro Casalduni fu incaricato l’ufficiale Melegari, mentre la marcia su Pontelandolfo fu affidata al colonnello Negri. Tutto era pronto e, all’alba del 14 agosto 1861, partirono per compiere la disumana missione. A Casalduni, l’ufficiale Melegari, non trovò che un paese abbandonato perchè gli abitanti erano stati avvisati dal sindaco e rifugiati tra i monti. A Pontelandolfo invece la strage fu piena e i civili colti nel sonno. Improvvisamente esplose l’ordine d’assalto in raffiche di fucili, in furibonde scorrerie, vennero abbattute le porte e le finestre. La sparatoria non risparmiò nessuno: caddero sotto i colpi giovani e vecchi, donne e fanciulle, chi uscì dalle case professando la propria innocenza e chi cercò di difendere i più piccoli e le donne. Fu un’azione costellata di assassinii, violenze, sopraffazioni, razzie. Dopo ci furono solo corpi e case che bruciarono fino alle prime luci dell’alba. L’indomani il Giornale officiale di Napoli, il 16 agosto del 1861, rese pubblico il dispaccio telegrafico con il quale Negri informava Cialdini che «ieri, all’alba, giustizia fu fatta per Pontelandolfo e Casalduni»[3].
In questo modo, due dei protagonisti dei fatti, ricordano l’accaduto pochi giorni dopo:
«Le notizie delle province continuano a non essere molto liete. Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò in paese, uccise quanti ne erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il foco al villaggio intero, che venne completamento distrutto. La stessa sorte toccò a Casaldone, i cui abitanti erano uniti a quelli di Pontelandolfo. Sembra che gli aizzatori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti; in tutte le province, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e abusando infamamente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte son mossi dalla miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati, il castigo sarebbe più giustamente inflitto, e i risultati più sicuri e più pronti…»

[4].
Snap 2016-05-21 at 15.39.28Il generale Cialdini e lo Stato Maggiore
Queste le parole del tenente Negri, la sua denuncia anticlericale in una delle tante corrispondenze con la famiglia; più avanti, sempre in una lettera al padre, dirà come è stato frustrante per lui combattere questa guerra infamante fatta di imboscate, sortite e rappresaglie. Lui, come molti altri, l’avevano immaginata in un’altro modo la guerra di liberazione dell’Italia. Le parole che seguono sono invece del bersagliere Carlo Margolfo, del sesto Battaglione seconda Compagnia quarto Corpo d’Armata, comandato dal generale Cialdini. Egli con cinismo ammette come mentre i poveri diavoli bruciavano, i soldati facevano razzie di cibo:
«Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo. Difatti un po’ prima di entrare al paese incontrammo i briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano avanti a noi, entrammo nel paese subito abbiamo incominciato a fucilare i Preti ed uomini quanti capitavan indi il solfato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, abita da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare non si poteva mangiare per la grande stanchezza della marcia di tredici ore» [5].
Proprio così, il bersagliere aveva perso l’appetito, non davanti allo spettacolo del raccapricciante incendio del paese, ma a causa della stanchezza della dura marcia.
Anche, e per fortuna, nella Camera dei Deputati si discusse intorno ai fatti di sangue di Pontelandolfo e Casalduni. Le dichiarazione dell’onorevole Giuseppe Ferrari, milanese, tenute alla Camera il 2 dicembre 1861, a poco più di tre mesi dall’eccidio, sono alla stesso tempo testimonianza della gravità dei fatti dell’agosto dello stesso anno e un grido d’accusa contro la gestione della repressione del brigantaggio, da parte dell’esercito e del governo. La sua requisitoria inizia dichiarandosi «letteralmente inorridito per i soprusi, le prepotenze le angherie, le incomprensioni, che con leggerezza pari all’iniquità furono riservate alla italianissima, generosissima, negligissima, civilissima Napoli». Elenca poi «più di ottanta paesi…taglieggiati, sconvolti, insanguinati, abbandonati in preda al saccheggio» e prosegue:
«nel turbinìo degli avvenimenti, le morti si moltiplicano nella immaginazione del volgo, il terrore prende mille forme, il silenzio paralizza la lingua del cittadino napoletano che reclamando, teme d’esser sospetto, e la confusione giunge a tal punto che io a Napoli, non potevo sapere come Pontelandolfo, città di cinquemila abitanti, fosse trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare i fatti con gli occhi miei. Mai potrò esprimere i sentimenti che mi invasero in presenza di quella città incendiata…vie abbandonate, a destra e sinistra le case erano vuote e annerite : si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e le fiamme avevano divorato i tetti »[6].
Non furono certo pagine edificanti nella storia dell’Italia nascente, quelle che raccontano i fatti dei due comuni del Sannio e da queste memorie muove un interrogativo: fu giusto etichettare questi due paesi del beneventano come paesi di briganti o responsabili dell’eccidio stesso? É stato giustificato il silenzio delle istituzioni sull’eccidio, per un secolo e mezzo? Pagine di sangue, dunque, ma non per questo da nascondere, o da usare contro qualcuno per recriminare gli errori commessi, ma solo pezzi di storia apocrifa da ricordare, da togliere dall’oblio. E ricorda Pontelandolfo. Infatti la cittadinanza già circa 50 anni fa, dopo le celebrazioni in occasione del centenario dell’Unità, fece sentire la propria voce e rivendicato i propri diritti di città martire del Risorgimento, con una serie di petizioni ed istanze [7], volte a fare di questo piccolo centro uno dei luoghi della memoria del Risorgimento italiano. Forse un gesto da parte delle Autorità della Stato sarebbe stato doveroso, ma non ci fu mai nessun riconoscimento ufficiale, negli anni a venire, nonostante le molte voci che si sono levate, di storici, letterati, cronisti, intellettuali.
Snap 2016-05-21 at 15.39.53Briganti, 1862

Bisognerà attendere il 14 agosto 2011, esattamente 150 anni dopo, perché gli sforzi dei Pontelandolfesi siano premiati con una cerimonia solenne [8], quando Giuliano Amato, in veste di Presidente dei Garanti dell’Unità tecnica di Missione per le celebrazioni dell’anniversario, ha dichiarato Pontelandolfo uno dei “Luoghi della Memoria” della storia unitaria. Oggi, grazie ad un’accurata riflessione storica, si è cercato di fare luce sui tumultuosi eventi di quegli anni. Ciò che è stato riduttivamente chiamato brigantaggio dalla classe politica del tempo, è stata in realtà una vera e propria guerra civile. Le bande di reazionari e legittimisti del sud Italia si ingrossarono rapidamente, raggiungendo ciascuna migliaia di componenti, macchiandosi di episodi raccapriccianti di violenza e giungendo all’occupazione di centri urbani popolosi. Il Regno d’Italia rispose con uno stato di guerra. La legge Pica del 1863 stabilì una giustizia sommaria, incaricata di condannare a morte quei briganti che fossero stati catturati con le armi in pugno, e ai lavori forzati a vita, quelli che non avessero opposto resistenza, e in più coloro che avessero aiutato in qualche modo i briganti stessi: potenzialmente tutta la popolazione. Questa si trovò tra due fuochi: da una parte la paura dei briganti e i reazionari che chiedevano ai locali protezione e sostentamento; e dall’altra la paura dello Stato italiano che puniva severamente chi li aiutava.
Tuttavia molti cominciarono ad appoggiare la causa dei legittimisti, poichè se grande era stata la partecipazione e l’entusiasmo con cui la popolazione meridionale aveva accolto i garibaldini – era stata massiccia infatti la presenza di meridionali nell’esercito delle camicie rosse – altrettanto grande era stata la disillusione per le promesse non mantenute. Con l’unificazione, nel giro di qualche anno, non solo – come è noto – furono inasprite le tasse e introdotto un servizio di leva più rigido, ma furono inoltre soppresse le forme di proprietà comune della terra, gli usi civici, che da sempre permettevano ai poveri di sopravvivere, raccogliendo la legna nei boschi o portando al pascolo le bestie. L’annessione, infatti, fu troppo affrettata, la cancellazione nel Meridione dell’apparato amministrativo-legislativo borbonico, troppo irrazionale. Con molta leggerezza furono abolite tutte le leggi e i codici napoletani, e impiantata la legislazione piemontese. Aver fatto ciò, prima di arrivare ad elaborare un Codice italiano, fu un grave errore, che compromise il rapporto e l’unione identitaria delle “due Italie”. Da qui dunque il risentimento dei meridionali che videro il loro paese vilipeso, tradito e trattato non meglio di una colonia, in una sola parola: “piemontesizzato”. Non fu certo quello che la gente del Mezzogiorno si aspettava di ottenere, dopo tanti sacrifici e dopo l’aiuto generosamente mostrato alla causa italiana. Il popolo dell’ex Regno delle Due Sicilie, infatti, aiutò e collaborò alla cacciata del Borbone, non per far posto ad uno stato d’assedio e ad un esercito di conquista, come si dimostrò in fondo quello piemontese. Questo stato di guerra mise in ginocchio l’economia meridionale che, nonostante il pesante sistema protezionistico borbonico, non era così deficitaria. Tutto ciò naturalmente avvicinò, come detto, molta gente alle bande dei cosiddetti briganti, che andavano da veri e propri eserciti organizzati a piccole associazioni di delinquenza locale.
Snap 2016-05-21 at 15.40.11Banda Giordano, Cerreto Sannita

É altresì vero, però, che non si può parlare di una vera e propria insurrezione contro il neonato Stato, poichè non ci fu mai unità d’intenti nel popolo, come non ci fu mai un appoggio totale alla causa reazionaria. Non si crearono insomma, in nessun modo, i presupposti per una coesa e decisa ribellione. Inoltre il ceto medio-alto meridionale era del tutto liberale e pro-unità. Da tempo in lotta contro il protezionismo dei Borboni, i proprietari terrieri del sud, tramite manifestazioni modernizzatrici e di stampo liberiste, come l’associazionismo agrario [9], dimostrarono la loro voglia di partecipare al libero scambio economico delle nazioni, vietato dal vecchio governo, accogliendo dunque con favore la rivoluzione del processo unitario. Il popolo si trovò diviso in due, tra reazione e rivoluzione. L’unica cosa comune a tutti in quegli anni bui, fu invece, quella di fare i conti con la più nera miseria, causata da una guerra mai dichiarata, nascosta e sempre minimizzata.
In conclusione, molti storici sostengono [10] – anche se molti altri non concordano – che la superficiale annessione del Sud al Regno d’Italia e la dura repressione del brigantaggio siano state l’origine e la causa del divario, nonchè della spaccatura socio-culturale, che divide tutt’oggi l’Italia in due parti. Infatti, a causa della manifesta diversità politica, strutturale e culturale fra regioni meridionali e regioni settentrionali, fu impossibile compiere il processo di unificazione senza controversie e conflitti. La religione civile, il senso di appartenenza alla nazione, alla patria, si sarebbe cercato di realizzarli più avanti; in quel momento, interessava solo mettere assieme tutti i “pezzi” dell’Italia, come tasselli di un puzzle, neanche troppo difficile da completare. L’aforisma di D’Azeglio diventa un ritornello che torna sempre comodo – e rischia di farci inciampare in una banale retorica – quando si parla di Risorgimento italiano: prima si è fatta l’Italia e poi si è cercato di fare gli italiani.
Da qui muove la sequela di pregiudizi che hanno accompagnato la storia post-unitaria del nostro Paese. Da una parte i settentrionali che, mentre proclamarono il loro amore per la patria, disprezzarono una parte della nazione, ritenendosi portatori di una civiltà superiore rispetto a quella dei meridionali, affetta da primitivismo selvaggio. D’altra parte, i meridionali, per cui il contatto coi piemontesi costituì, al di là dell’iniziale entusiasmo, motivo di delusione e di risentimento. E ancora mentre l’immagine che i settentrionali si erano fatti del napoletano era connotata dall’apatia e dall’indolenza, i piemontesi apparirono «superbi e arroganti» ai napoletani, quelli che pur dichiarandosi «amici e liberatori», li trattarono «ora con disprezzo ora con ischerno, come avrebbero fatto con plebi avvilite e abbiette» [11]. Certi pregiudizi, dall’una e dall’altra parte, sono ancora difficili da estirpare appunto perchè hanno ben salde radici.
Tuttavia gesti come il riconoscimento di Pontelandolfo a “Luogo della Memoria” – anche se dopo colpevole ritardo – aiutano la tanto ricercata coesione identitaria, l’appartenenza di un popolo ad una nazione che ascolta e ammette i propri errori del passato. Certo non può cancellare, come con un colpo di spugna, tutte le divisioni, le fratture, le incomprensioni, le differenze, che hanno contrassegnato l’identità stessa del nostro Paese. Ci sono sempre state due Italie, due civiltà, due stili di vita e di pensiero differenti. Ma la presenza del corpo dei bersaglieri dell’esercito italiano, nella cerimonia di Pontelandolfo per il 150 esimo anniversario della strage, ha forse aperto una nuova strada, la strada della riconciliazione:una Italia ha porto la mano all’altra.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Note
________________________________________
[1] Documento: Atti parlamentari, tornata del 2 dicembre 1861:.82
[2] Luisa Sangiuolo, Il brigantaggio nella provincia di Benevento: 1860-1880, De Martino, Benevento 1975: 105
[3] Documento: Giornale officiale di Napoli, 16-08-1861, n.194
[4] Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’unità d’Italia, 3. ed., Roma, Editori Riuniti, 2005: 26
[5] Mi toccò in sorte il numero 15. Episodi della vita militare del bersagliere Margolfo Carlo, introduzione e note di Laura Meli Bassi e Gino Fistolera , edizione a cura del Comune e della Pro Loco di Delebio, 1992.
[6] Documento: Atti parlamentari, 1861: 79-89
[7] Pontelandolfo per ricordare e non dimenticare, a cura di Renato Rinaldi, II edizione 2010, Grafiche Iuorio, Benevento: 238-263
[8] Da ufficio stampa di Pontelandolfo, in Pontelandolfo news.it, 16 agosto 2011
[9] Vedi: Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione: 39-62
[10] Questi studiosi costituiscono il “canone antirisorgimentale” che tanta fortuna ha avuto intorno alle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’unificazione. Vedi introduzione di Alberto De Bernardi a: Antirisorgimento. Appropriazioni, critiche, delegittimazioni, a cura di Maria Pia Casalena; Centocinquantanni di discorsi antirisorgimentali di M.P. Casalena: 3-26 e Editoria e revisionismi, 2000-2011 di M. P. Casalena: 246-257
[11] Luigi Anelli, Storia d’Italia dal 1814 al 1863 , Milano, Francasco Vallardi, 1863-1864:253
Riferimenti bibliografici
Luigi Anelli, Storia d’Italia dal 1814 al 1863, Milano, Francasco Vallardi, 1863-1864.
Alberto Mario Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma Bari Laterza, 2011.
Francesco Barra, Il brigantaggio in Campania, in “Archivio storico per le province napoletane” Napoli, a.XXII, 1983.
Rocco Boccarino, Memorie dei giorni roventi dell’agosto 1861, in “Samnium” Napoli a. XLVI, 1923 , n.1-2.
Federico Chabod, L’idea di nazione, Roma Bari Laterza, 2011.
Antonio Ciano, Le stragi e gli eccidi dei Savoia (esecutori e mandanti), Formia Graficat, 2006.
Comune di Pontelandolfo, Pontelandolfo per ricordare e non dimenticare, a cura di Renato Rinaldi, II edizione 2010, Benevento, Grafiche Iuorio.
Aldo de Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’unità d’Italia, 3. ed., Roma, Editori Riuniti, 2005.
Gigi Di Fiore, Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato, Napoli, Grimaldi, 1998.
Paolo Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, Il Mulino, 2012.
Vincenzo Mazzacane, Memorie storiche di Cerreto Sannita, Cerreto Sannita, Tip. ed. Telesina, 1911.
Vincenzo Mazzacane, I fatti di Pontelandolfo, in “Rivista storica del Sannio”, a.IX ,1923, n.3.
Marta Petrusewicz, Come il meridione divenne una questione, Catanzaro, Rubettino editore, 1998.
Luisa Sangiuolo, Il brigantaggio nella provincia di Benevento: 1860-1880, Benevento, De Martini stampa, 1975.
Nicolina Vallillo, L’incendio di Pontelandolfo, in “Rivista storica del Sannio”, Benevento, a. X, 1919, n.6

fonte

Pietrarsa 150 anni fa fuoco sugli operai in sciopero: 4 morti

Views: 1

Risultati immagini per Pietrarsa 150 anni fa fuoco sugli operai

ACCADDE il 6 agosto 1863. Da un lato, un gruppo di operai in sciopero, i primi dell’ Italia appena unita. Dall’ altro un battaglione di bersaglieri del Regio esercito. Alle 14 il capitano Martinelli ordinò di aprire il fuoco sui manifestanti, e quattro lavoratori delle officine di Pietrarsa, ex stabilimento borbonico di locomotive e materiale ferroviario, caddero sotto il fuoco delle baionette. Fu la prima strage operaia in Italia, avvenuta 23 anni prima dei fatti di Chicago, molto simili, poi ricordati nella festa del Primo maggio. Stasera alle 21, centocinquant’ anni dopo, l’ associazione “Circolomassimo” ricorda l’ eccidio con “Pietra arsa” (ingresso 5 euro) rappresentazione teatrale con Rosaria De Cicco e Roberto Capasso, diretta da Aldo Vella. La performance, sullo spiazzale dello stesso opificio borbonico a Portici sarà preceduto alle 18 dall’ apertura del Museo ferroviario e da un’ esposizione di prodotti tipici con la deposizione di una corona al monumento dei caduti di Pietrarsa, forgiata nel 1995 dallo scultore Bruno Galbiati. A chiudere la serata, un concerto folk delle compagnie “Terra nostra” e “Unavantaluna”. «Raccontiamo una pagina tragica della nostra storia – spiega Vella – spesso dimenticata dai più». Cosa accadde di preciso in quel tragico pomeriggio del 1863 è testimoniato dai rapporti della Questura conservati nell’ Archivio di Stato di Napoli. In quel periodo a Pietrarsa (la cui area si trova tutt’ oggi tra i comuni di Portici, San Giorgio a Cremano e San Giovanni a Teduccio) lavoravano più di 1000 persone. In passato era stato uno stabilimento all’ avanguardia. Persino lo zar Nicola I di Russia, in visita a Napoli nel 1845, ne chiese una pianta per realizzarne uno simile a Kronstadt. Le cose cambiarono con l’ Unità d’ Italia, durante le prime politiche industriali del Governo di Umberto Rattizzi. Nel Paese c’ erano due grandi poli industriali: Pietrarsa e l’ Ansaldo a Genova. Quale salvare? La scelta cadde su quest’ ultima, ritenuta più flessibile per futuri ampliamenti e meglio collegata ai principali snodi europei. Una decisione che sancì il definitivo crollo delle officine campane. Furono così affittate da un privato, Jacopo Bozza, per 46 mila lire l’ anno. Il neoproprietario aumentò le ore dei turni e iniziò con i licenziamenti in tronco: gli operai scesero a 800. La situazione divenne per loro sempre più insostenibile, e precipitò il 6 agosto 1863 quando, oberati di lavoro e senza stipendio da mesi, decisero di incrociare le braccia. Fu allertata la polizia, per “minacce” e “atteggiamenti ostili” dei manifestanti, ma su sollecitazione dell’ allora contabile dell’ azienda, tale Zimmermann fu inviato un gruppo di bersaglieri. La repressione fu violenta, e si fece fuoco sulla folla. Morirono gli operai Luigi Fabbricini, Aniello Marino, Domenico Del Grosso e Aniello Olivieri. E ciò che era nato come legittima protesta di lavoratori non pagati, fu poi dipinto come una sommossa pro borbonica contro il neonato Regno d’ Italia.

PAOLO DE LUCA

fonte

 

I nonni di oggi: com’è cambiato il loro ruolo?

Views: 1

In Italia, secondo valutazioni ISTAT, i nonni sono circa undici milioni e cinquecento mila, pari al 33,3% dei cittadini che hanno dai 35 anni in su. Le donne più degli uomini, 37,5% contro 28,4%. Sebbene il tasso di natalità nel nostro paese sia tra i più bassi nel mondo, i nonni di oggi sono, in proporzione al numero dei nipoti, assai più numerosi di quanto non fossero trent’anni fa. Molti bambini delle ultime generazioni hanno tutti e quattro i nonni, mentre un tempo era considerata una fortuna averne due. Nella famiglie ricomposte, poi, i nonni possono essere addirittura in esubero…

Un altro fatto nuovo è che oggi, a parità di età, nonne e nonni sembrano meno vecchi di una volta. Sono abituati ai cambiamenti, curano il corpo e l’abbigliamento e, se non sono malati, continuano a condurre una vita dinamica. Guidano l’automobile, salgono su treni ed aerei, usano il telefonino, inviano e-mail e, soprattutto, non pensano di essere vecchi, semmai si considerano degli adulti maturi. Secondo una ricerca del Censis sullo stile di vita, gli ultrasessantenni italiani pongono ai primi due posti una vita attiva (51%) e mantenere rapporti con i giovani e i nipoti (46,1%); seguono tenere allenata la mente (45,8 %), avere una fede religiosa (27,6%), essere autonomi (27,5%), essere aperti alle relazioni con gli altri (22,2 %). Questi cambiamenti nella percezione di sé e nell’immagine sociale dell’anziano fanno sì che anche i rapporti con i nipoti siano diversi, improntati a minore austerità e maggiore dinamismo.

Un’altra novità è che se fino a poco tempo fa era quasi esclusivamente la nonna ad occuparsi dei nipotini affiancando la madre nelle cure quotidiane, oggi, che anche i padri non disdegnano di occuparsi dei neonati, anche il nonno può spingere una carrozzina e fare il baby-sitting. Essendo vissuti in un’epoca di radicali e continui cambiamenti, i neononni comprendono le esigenze dei genitori di oggi e sono più sciolti e disponibili di quanto non fossero i loro padri. Non pensano più di svolgere un ruolo “femminile” se si prendono cura dei piccoli, devono però sentirsi autorizzati a farlo. Questo concetto può sembrare strano e tuttavia gli uomini devono essere incoraggiati, altrimenti tendono a restare sullo sfondo e a non entrare in scena.

Una pluralità di funzioni

Se i nonni di oggi sono diversi da quelli di ieri, anche i figli e i nipoti lo sono. Le mamme casalinghe sono poche e in molte famiglie entrambi i genitori lavorano fuori casa mattino e pomeriggio, con la conseguenza che i figli hanno bisogno, dopo la scuola, di essere accuditi e seguiti da altri adulti. Se poi i genitori sono separati, i nonni rappresentano la continuità familiare per i nipoti e possono diventare punti di riferimento importanti nei momenti più critici.

La funzione dei nonni, però, non si esaurisce certo nel tappare le falle o nell’intervenire nei momenti difficili. La presenza di un nonno o di una nonna nella vita di un nipote ha già di per sé l’effetto di allargare i confini della famiglia nucleare. Gli anziani ringiovaniscono a contatto con i giovani. I giovani dispongono di un maggior numero di modelli di riferimento affidabili e realistici. E quando nell’adolescenza, i rapporti con papà e mamma si fanno burrascosi, è attraverso i nonni che un nipote può ritrovare a volte quell’ancoraggio di cui, nonostante tutto, sente ancora il bisogno.

Nella realtà i nonni sono assai meno stereotipati e convenzionali di come in genere vengono rappresentati. E’ quanto emerge dalle testimonianze dei nipoti. La memoria può indebolirsi, i movimenti rallentare e i riflessi non essere più quelli di una volta, ma l’esperienza, la sensibilità e il sapere accumulati nel corso degli anni consentono di svolgere svariate funzioni. Molti nonni sono aperti alle novità e flessibili. Possono essere consiglieri in alcuni momenti, alleati e amici in altri. <<E’ la mia migliore amica, mi da sempre dei buoni consigli>> (Giulia, 11 anni). <<Facciamo lunghe chiacchierate. Gli racconto molte cose perché so che lui non mi giudica>> (Fabio, 12 anni). Sanno assecondare i giochi e le fantasie dei nipotini, insegnano a fantastiche. <<Ci raccontava di strane creature che vivevano sulle montagne. Ciò che diceva con voce misteriosa non era del tutto falso ma nemmeno del tutto vero. Lui esagerava sempre un po’. Ci lasciava credere quello che volevamo e noi bambini fantasticavamo a lungo su quelle strane creature>> (Michela, ormai ventenne). Trasmettono interessi e assecondano hobby. <<Con lui mi diverto perché è uno sportivo. Giochiamo a basket e mi insegna i trucchi>> (Pietro, 10 anni). <<Cucina benissimo, io lo aiuto e poi mi fermo a pranzo>> (Susanna, 8 anni). <<Alla nonna piace viaggiare e qualche volta mi porta con sé>> (Chiara, 13 anni). Possono sostituire i genitori nella routine quotidiana: <<La nonna per me è una seconda mamma>> (Chiara, 6 anni). A volte sono maestri, altre volte allievi. <<Quando non capisco un problema telefono al nonno>> (Marisa, 11 anni). <<Gli ho insegnato ad usare l’e-mail, e ora ci scriviamo>> (Simone, 7 anni).

Non c’è un modo standard di fare il nonno o la nonna. Si può essere nonni in tanti modi diversi.

Da genitore a nonno

L’entrata nel nuovo ruolo raramente è immediata e senza scosse. Il ruolo di nonno è molto più semplice e tranquillo di quello di genitore, eppure richiede un riassestamento legato alla nuova collocazione nel sistema famiglia. D’ora in avanti i genitori sono il figlio e la nuora (o genero e figlia). Bisogna passare il testimone alla generazione di mezzo e accettare di aver fatto ingresso nella terza età. Il primo “lavoro” psicologico che nonni e nonne devono fare nel momento in cui in famiglia arriva il primo nipotino, non è tanto nei confronti di quest’ultimo quanto di se stessi. Verranno chiamanti nonno e nonna e guardati con occhi diversi.

All’inizio si può anche avere l’impressione di non disporre di tempo da dedicare ai piccoli. Non tutti sono in pensione, alcuni hanno ancora un lavoro che li assorbe. Altri hanno assunto un ritmo di vita più rilassato, viaggiano, sono abituati a trascorrere molto tempo con gli amici. E’ bene che i cambiamenti avvengano in modo graduale e in rapporto alle proprie forze, impegni e disponibilità. Ci sono nonni a tempo parziale – incontrano i nipoti una o più volte a settimana e fanno baby-sitting di tanto in tanto – nonni a tempo pieno – vedono i nipoti tutti i giorni o quasi e integrano le mansioni dei genitori in modo sostanziale e nonni a tempo limitato. Si può essere buoni nonni anche a distanza e dare affetto tra una visita e l’altra mantenendo i contatti per telefono ed e-mail. Il fattore critico è il clima che si crea con i propri familiari: i nipoti e i loro genitori.

Le relazioni familiari

La famiglia è un sistema, non una semplice somma di individui, cosicché se ci sono delle forti tensioni tra due persone è tutto il sistema a risentirne. Se i nonni vogliono avere dei rapporti sereni con i nipoti, devono cercare di averli anche con i genitori. Alcune cautele sono d’obbligo. La prima consiste nel rispettare la coppia e la sua autonomia. Molti conflitti tra generazioni nascono per invasioni indebite. Atteggiamenti assillanti e intrusivi, tentativi di sostituirsi ai genitori presso i nipoti, sono facilmente all’origine di conflitti con i figli, ma ancor di più lo sono con generi e nuore che, essendo cresciuti in un’altra famiglia, sono meno disposti a scusare o comprendere. Per esempio, da quando mondo è mondo i nonni tendono a “viziare” i nipoti. Viziare un po’ i nipoti però non significa porsi in aperto contrasto con i principi educativi dei genitori scalzandone l’autorità

E’ anche irrealistico e controproducente continuare a trattare i propri figli come se fossero dei bambini dipendenti, chiedere loro un’obbedienza, un tipo di confidenza o dei “doveri” che possono mettere in crisi il rapporto di coppia. I figli adulti devono svincolarsi dalla propria famiglia d’origine per formarne una propria. I genitori devono facilitarli in questo compito. Un figlio adulto può ascoltare i consigli dei genitori, ma deve decidere in proprio. Si raggiunge questa forma di maturità se ci sono dei confini chiari tra le persone: se si sa (opinioni, scelte, sentimenti ecc.) quel che è mio e quel che è tuo, che cosa si può fare per venirsi incontro senza mettere in discussione l’autonomia di ognuno; quali no si possono dire con fermezza, oppure quali si senza aver paura di apparire deboli o sottomessi.

Compito dei nonni è cercare di risolvere i conflitti invece di acuirli e di trovare un modus vivendi evitando la guerriglia permanente. Capita a volte di scontrarsi su taluni argomenti non tanto perché si hanno delle forti convinzioni in materia, ma per vincere, per segnare un punto a proprio vantaggio, per gratificare l’amor proprio. Per andare d’accordo nell’ambito della parentela, bisogna invece tenere a freno l’impulso ad essere sempre in posizione preminente, voler avere sempre ragione. E se ci sono delle incompatibilità evidenti non è necessario frequentarsi con assiduità, né esternare provocatoriamente le proprie dissonanze. <<Non mi piacciono i suoceri di mia figlia, lui fa battute volgari, lei si lamenta sempre di tutto>> spiega un nonno <<ma non posso fare nulla per cambiare le cose, né voglio creare problemi. Ho scelto di vivere e lasciar vivere>>. Saggezza significa anche concedersi una tregua.

Il fatto che i propri genitori o suoceri siano stati invadenti o dispotici non è una buona ragione per portare avanti, di generazione in generazione, un modo di fare che è all’origine di incomprensioni. E’ sempre possibile cambiare, anche all’età sessant’anni.

Nonni-guardiani

La saggezza e la disponibilità dei nonni può rappresentare un baluardo nei confronti di una deriva molto preoccupante di questi ultimi anni: la precocizzazione dell’infanzia.

Con lusinghe di vario genere, oggi un numero crescente di preadolescenti vengono iniziati a stili di vita inadatti e pericolosi in una età in cui dovrebbero invece aprirsi al mondo e ai sentimenti in maniera graduale, nel rispetto del proprio corpo e di quello altrui. Il mercato e il mondo dello spettacolo propongono a getto continuo mode e comportamenti volti a fare entrare sempre più presto i bambini non solo nell’adolescenza, ma anche nel mondo adulto, accelerandone lo sviluppo. Se i genitori sono distratti, troppo impegnati nel lavoro oppure assorbiti dai loro problemi sentimentali, i nonni possono invece, con la loro presenza ed esperienza, con l’affetto che li lega ai nipoti, con i loro tempi lenti e pacati, ricreare una atmosfera sana e riflessiva, più consona alle esigenze della crescita.

Possono anche rappresentare una importante rete di protezione nei confronti di tutti quegli “orchi” che cercano con ogni mezzo e lusinga di iniziare all’alcol, alla droga e al sesso i loro nipoti preadolescenti; un fenomeno in aumento secondo le più recenti statistiche, potenziato dalle discoteche pomeridiane, dalla moda delle veline e delle cubiste-bambine nonché dai numerosi siti porno a cui oggi hanno accesso anche i bambini.

Nonni delle comunità

Alcuni Comuni hanno inventato una nuova figura: quella del nonno e della nonna della comunità. Anziani in buona salute, con molto tempo libero, senza nipoti o con nipoti ormai grandi, si mettono a disposizione, nella loro città o quartiere, per doposcuola, accompagnamenti, attività del tempo libero e così via. Un ruolo che può essere svolto in maniera del tutto informale anche da vicini di casa, nell’ambito dello stesso palazzo o caseggiato, come avveniva più di frequente un tempo.

Diventare nonno o nonna della comunità può dare un senso alle proprie giornate e molte soddisfazioni. Inutile ricordare che il contatto con le nuove generazioni aiuta a vivere meglio: obbliga ad aggiornarsi, a tenere in allenamento la mente, consente di coltivare nuovi e diversi legami affettivi. La difficoltà a svolgere questo ruolo è quasi sempre e soltanto iniziale, ossia nel decidersi a compiere il primo passo e nel superare una visione soltanto familistica dei legami di solidarietà. D’altronde, si può anche investire un po’ del proprio danaro e delle proprie energie nelle adozioni a distanza, mantenendo una corrispondenza con bambini e ragazzi di altri paesi, bisognosi non solo di assistenza ma anche di qualcuno che, credendo in loro, trasmetta fiducia e speranza nel futuro.

Di  |

Su questo argomento si consiglia la lettura del libro “Arrivano i nonni!”

fonte

Facebook2k
585
X (Twitter)5k
Visit Us
Follow Me