Diventa donna e ha diritto di andare prima in pensione

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Secondo l’Avvocato generale della Corte di giustizia [1], la persona che cambia sesso e diventa donna ha diritto ad andare in pensione prima. Queste in estrema sintesi le conclusioni dell’Avvocato generale, il quale ha sostenuto che la persona transgenderche rimanga comunque sposata con il coniuge anche dopo il cambio di sesso ha diritto ad andare in pensione all’età prevista per il nuovo sesso.  Ma vediamo l’origine della vicenda sottoposta all’attenzione della Corte europea.

Cambio sesso e pensione: i fatti

La ricorrente è una cittadina britannica registrata alla nascita come persona di sesso maschile che nel 1974 ha contratto matrimonio. Successivamente ha iniziato a vivere come una donna e nel 1995 si è sottoposta a un intervento chirurgico di mutamento di sesso. Tuttavia la ricorrente non ha mai provveduto a richiedere un certificato attestante il nuovo status, poiché, ai sensi della normativa britannica dell’epoca, richiedere questo tipo di certificato implicava l’annullamento del matrimonio atteso che il matrimonio tra persone dello stesso sesso non era ammesso e le donne non volevano che il loro matrimonio fosse annullato. Successivamente la ricorrente, al compimento del sessantesimo anno di età, provvedeva a presentare la domanda per la pensione statale di vecchiaia. Tuttavia la sua domanda veniva respinta sulla scorta della considerazione per cui la donna doveva attenersi all’età pensionabile prevista per il suo sesso biologico (maschile alla nascita), ovvero 65 anni.

Cambio sesso e pensione: la discriminazione

La donna, però, decideva di non rassegnarsi alla decisione discriminatoria e contraria al diritto europeo assunta dall’amministrazione. Infatti, esiste una direttiva europea [2]che vieta espressamente le discriminazioni fondate sul sesso relativamente alle prestazioni statali. Tuttavia la direttiva consente agli Stati una deroga in ordine alla fissazione del limite di età per la concessione della pensione di vecchiaia e di fine lavoro. Sulla scorta di tale deroga, il Regno Unito, come altri Stati europei, ha fissato – per quanto interessa in questa sede – in 60 anni l’età pensionabile per una donna nata prima del 6 aprile 1950 e in 65 anni quella per un uomo nato prima del 6 dicembre 1953.

Cambio sesso e pensione: il precedente matrimonio

Al caso della ricorrente si aggiungeva altresì la circostanza della vigenza del precedente matrimonio, mai annullato. Per questi motivi il caso giungeva così dinanzi alla Corte europea, chiamata a valutare la compatibilità del diritto inglese con le norme europee. Secondo l’Avvocato generale della Corte, la condizione riguardante le persone transgender di non dover essere coniugate per poter accedere a una pensione stataleè contraria alla direttiva in quanto discriminazione ingiustificata fondata sul sesso.  Infatti, per le persone cisgender (quelle che non hanno effettuato il cambio di sesso) lo stato coniugale non rileva ai fini dell’accesso a una pensione statale, mentre in questo modo rileverebbe per le persone transgender.

note

[1] causa C-451/16.

[2] direttiva 2006/54/Ce.

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Invalidità 75%: agevolazioni

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Dalla maggiorazione dei contributi all’Ape sociale, dalla pensione d’invalidità all’ingresso nelle categorie protette, sino all’esenzione dal ticket: chi ha un’invalidità pari al 75% ha diritto a diverse agevolazioni in campo lavorativo, previdenziale e sanitario. Vediamo i principali benefici.

Assegno ordinario d’invalidità

Innanzitutto, avendo una capacità lavorativa ridotta a meno di un terzo (superiore, cioè, al 66,67%, arrotondato al 67%), se si possiedono i requisiti contributivi minimi si ha diritto all’assegno ordinario di invalidità da parte dell’Inps. Nel dettaglio, si devono possedere, in una delle gestioni facenti capo all’Inps (fondo pensione lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, coltivatori, gestione Separata, ex Inpdap, ex Enpals…) almeno 5 anni di contributi, di cui 3 versati nell’ultimo quinquennio.  L’assegno è calcolato in base ai contributi versati, come se si trattasse della pensione, ma senza maggiorazioni (come invece avviene per la pensione per assoluta e permanente inabilità a qualsiasi attività lavorativa) e viene ridotto se il reddito supera di 4 volte il trattamento minimo (sussistono ancora, per questo trattamento, i limiti di cumulo col reddito da lavoro). L’assegno ordinario d’invalidità è compatibile con l’attività lavorativa, al contrario della pensione per assoluta e permanente inabilità a qualsiasi attività lavorativa.

Pensione d’invalidità

Se non si possiedono i requisiti contributivi minimi elencati, si può aver diritto a un altro assegno a carico dell’Inps collegato allo stato d’invalidità, l’assegno di assistenza. Nel dettaglio, questo trattamento, noto come pensione di invalidità civile, spetta se il proprio reddito risulta inferiore a 4.805,19 euro e l’invalidità riconosciuta supera la percentuale del 74%. L’assegno di assistenza ammonta, per il 2017, a 279,75 euro per 13 mensilità. Si tratta di un reddito esente da Irpef, per il quale, contrariamente all’assegno d’invalidità ordinario, è richiesto lo stato di disoccupazione. Al compimento di 65 anni e 7 mesi, la pensione d’invalidità civile viene convertita in assegno sociale.

Esenzione ticket per invalidità

Col 75% d’invalidità, possedendo quindi un’invalidità superiore ai due terzi, si ha anche diritto all’esenzione totale dal ticket sulle prestazioni specialistiche e di diagnosi strumentale [1]; è possibile inoltre fruire di un’agevolazione per il pagamento dei medicinali prescritti con ricetta medica (a tal proposito è consigliabile rivolgersi direttamente alla propria Asl o alla Regione di residenza).

Scelta prioritaria della sede

In quanto lavoratore con invalidità superiore ai due terzi, chi ha un’invalidità del 75% ed è dipendente pubblico ha diritto di scelta prioritaria tra le sedi di lavoro disponibili.

Maggiorazione contributiva per la pensione

Con un’invalidità del 75%, si ha inoltre diritto al beneficio pensionistico dei contributi figurativi, o maggiorazione contributiva: nel dettaglio, per i lavoratori con invalidità superiore al 74%, per ogni anno lavorato alle dipendenze di un datore di lavoro pubblico o privato sono accreditati 2 mesi di contributi figurativi in più, sino ad un massimo di 5 anni. L’agevolazione può essere riconosciuta dal 2002 in poi. Questo beneficio è riconosciuto, da una nota legge del 2000 [2], a partire dall’anno 2002, ma possono essere presi in considerazione, ai fini della maggiorazione, anche i periodi pregressi, purché successivi al riconoscimento dell’invalidità superiore al 74%.

La maggiorazione è utile anche per raggiungere il requisito contributivo, o la maggiore anzianità in assenza del requisito anagrafico, per la pensione di anzianità o anticipata.

Il beneficio nella misura di due mesi per ogni anno di lavoro fino ad un massimo di cinque anni è riconosciuto entro l’anzianità contributiva massima di 40 anni per il calcolo della pensione con il sistema di calcolo retributivo.

I due mesi di contributi in più non assumono rilevanza nel calcolo della quota di pensione contributiva (per le pensioni a calcolo misto), né nel calcolo della pensione da liquidare integralmente con il sistema contributivo: questo, perché nel calcolo contributivo l’importo della pensione è determinato moltiplicando il montante individuale dei contributi (cioè il totale dei contributi accreditati, rivalutati) per il coefficiente di trasformazione relativo all’età al momento del pensionamento.

Ape social per invalidità

Un altro beneficio previdenziale al quale si può accedere con il 75% d’invalidità è l’Ape sociale: si tratta di un assegno che accompagna il lavoratore dai 63 anni di età (o dalla posteriore data della domanda di prestazione) sino al perfezionamento del requisito della pensione di vecchiaia (dal 2018, 66 anni e 7mesi per tutti).

L’assegno è calcolato allo stesso modo della futura pensione, ma non può superare i 1500 euro mensili.

All’Ape sociale si può accedere con 30 o 36 anni di contributi (tra tutte le gestioni Inps, considerando anche eventuali contributi esteri, come chiarito da un nuovo messaggio Inps), a seconda della categoria di appartenenza.

Coloro che possiedono un’invalidità riconosciuta almeno pari al 74% raggiungono la prestazione con un minimo di 30 anni di contributi. Per ottenere l’Ape sociale si deve cessare l’attività lavorativa; ci si può reimpiegare in seguito, ma non si deve superare il reddito annuo di 8mila euro, se si viene reimpiegati come dipendenti o parasubordinati, o di 4800 euro, se la nuova attività è di lavoro autonomo.

La prestazione è incompatibile con i sussidi di disoccupazione e con qualsiasi pensione diretta.

Congedo per invalidità

In quanto lavoratore con invalidità oltre il 51%, l’invalido al 75% può anche fruire di un congedo per cure relative all’infermità riconosciuta, per un periodo non superiore a 30 giorni l’anno. I costi sono, però, a carico dell’azienda, diversamente da quanto accade per i permessi Legge 104 per i portatori di handicap e per il congedo straordinario, quindi è necessario verificare la possibilità di ottenere il congedo all’interno del contratto collettivo applicato.

Categorie protette

Considerando che l’ invalidità è sopra il 45%, l’invalido al 75% ha la possibilità di usufruire del collocamento mirato [4]. Si tratta dell’accesso ai servizi di sostegno e di collocamento dedicati alle categorie protette: per usufruirne, è necessario recarsi presso il centro per l’impiego, presentando, oltre al verbale di invalidità, la relazione conclusiva rilasciata dalla preposta Commissione dell’Asl.

Ricordiamo che possono iscriversi al collocamento mirato, senza dover richiedere la relazione conclusiva Asl, anche gli invalidi del lavoro con percentuale oltre il 33%, gli invalidi di guerra, gli invalidi civili di guerra e gli invalidi per servizio con minorazioni ascritte dalla prima all’ottava categoria.

L’invalido al 75% può, inoltre, essere incluso dall’azienda nelle quote di riserva relative alla legge sul collocamento obbligatorio, cioè nei posti che l’azienda deve per legge mettere a disposizione delle categorie protette. Considerando che l’invalidità supera il 60%, il lavoratore è incluso nelle quote di riserva a prescindere dall’orario del contratto. Il beneficio non è però riconosciuto se la sua inabilità è stata causata da un inadempimento del datore di lavoro.

Protesi ed ausili

Considerato, poi,  che possiede un’invalidità superiore al 33,33%, l’invalido al 75%  ha diritto a protesi ed ausili eventualmente necessari per la patologia riconosciuta nel verbale di accertamento della commissione medica.

Parcheggi per disabili

La Commissione medica che ha riconosciuto l’invalidità del 75%, a prescindere dalla percentuale di riduzione della capacità lavorativa, può, infine, indicare sul verbale il diritto al contrassegno per usufruire dei parcheggi per disabili. Dipende ovviamente dalla tipologia di menomazione posseduta.

AUTORE

[1] Art.6 DM 1/2/1991.

[2] Art.80, Co.3, L. 388/2000.

[3] Inps Mess. 4170/2017.

[4] L.68/1999.

È legale filmare persone sconosciute?

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Filmare ciò che avviene intorno a noi è divenuto oramai semplicissimo: basta estrarre dalla tasca il fedele smartphone e premere il tasto giusto. Il video finisce immediatamente in rete e circola sui social network. Ma è legale filmare persone sconosciute? Lo è sempre o soltanto in alcuni casi? Vediamo cosa dice la legge.

Filmare persone sconosciute: il codice penale

Il codice penale punisce con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, mediante l’uso di strumenti di ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie o immagini attinenti alla vita che si svolge nei luoghi di privata dimora. La stessa pena è applicata a chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi mezzo di informazione al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei modi indicati [1]. La norma è chiaramente posta a tutela della privacy ed intende proteggere solamente la vita privata all’interno delle abitazioni, cioè tra le mura di casa. Possiamo dire che si tratta di una tutela allargata del domicilio. Quindi, chi riprende di nascosto una persona che si trova nella propria abitazione, convinta di essere lontana da sguardi indiscreti, commette reato.

Filmare persone sconosciute e tutela del domicilio

Dalla disposizione appena riportata si capisce immediatamente che fotografie e videoriprese effettuate alla proprietà del vicino, quando non superino le mura esterne, cioè quando non invadano la vita privata della persona, sono assolutamente legali. In altre parole, il divieto riguarda solo ciò che è nascosto alla vista. Anche secondo la Corte di Cassazione  non ricorre il reato di interferenze illecite nella vita privata quando il vicino abbia protetto la propria dimora da occhi indiscreti come, per esempio, con delle tende. Insomma: quel che è pubblico (come la facciata dell’abitazione) può essere oggetto di riprese fotografiche e filmati. La tutela della proprietà è pertanto limitata a ciò che si compie in luoghi di privata dimora in condizioni tali da renderlo tendenzialmente non visibile ad estranei. Il titolare del domicilio non può recriminare nulla se le sue azioni, pur svolgendosi all’interno della privata dimora, possono essere liberamente osservate dall’esterno senza ricorrere a particolari accorgimenti [2]: emblematico è l’esempio di chi si spogli mettendosi in bella mostra davanti alla finestra spalancata. In questo caso, non c’è ragione di tutelare la riservatezza se l’interessato si è volontariamente esposto alla vista della collettività.

Filmare persone per tutelare un proprio diritto o per denunciare un illecito

Un’ipotesi particolare è quella di chi filma persone per tutelare un proprio diritto oppure per dimostrarne un illecito. La Suprema Corte ha stabilito che non viola la privacy chi effettua riprese fotografiche o filmati dell’attività edificatoria in corso nella proprietà del vicino: la fattispecie concreta era quella della costruzione di un manufatto in prossimità del confine tra due abitazioni che sembrava non rispettare le prescrizioni urbanistiche e civilistiche [3]. Se, infatti, non c’è interferenza illecita nella vita privata riguardo alle riprese pure e semplici dell’altrui abitazione, tanto più ciò vale se l’occhio della telecamera è diretto a riprendere possibili illeciti come, appunto, un abuso edilizio.

Allo stesso modo, in ambito condominiale, la Suprema Corte ha detto che, se scopo del comportamento non è quello di arrecare disturbo alle persone filmate bensì di acquisire prove delle violazioni del regolamento di condominio, agendo per la tutela dei propri diritti, non sussiste alcun reato. È però necessario non attivare un sistema di videosorveglianza continuo e prolungato sulla proprietà altrui, nel qual caso infatti si passerebbe dalla ragione al torto. La condotta di filmare e fotografare il vicino, infatti, non deve essere abituale [4].

La Corte di Cassazione [5] ha stabilito la liceità della condotta di chi filma persone sconosciute, purché non diffonda le immagini per scopi diversi dalla tutela di un diritto proprio o altrui. In pratica, registrare o filmare, di nascosto, una conversazione tra privati, utilizzando un cellulare o un altro apparecchio è lecito anche senza il consenso dell’interlocutore. Tuttavia, non si ha diritto di diffondere o pubblicare il materiale su un social network né si può inviare via mail il file audio contenente le voci delle persone spiate.

Filmare persone sconosciute in pubblico

Veniamo al caso più classico: quello delle riprese effettuate in luogo pubblico. È una condotta legale e, soprattutto, è possibile diffondere il materiale? In effetti, chi decide di frequentare un luogo pubblico (una piazza, ad esempio) accetta il rischio di essere visto e, eventualmente, ripreso.

La legge vieta la diffusione di immagini che non sia autorizzata dal diretto interessato [6]; pertanto, se si effettua un filmato di persone sconosciute, anche se si trovano in luogo pubblico, non potrà essere pubblicato o distribuito senza l’espressa liberatoriadella persona ripresa. Da tanto si evince che il filmato realizzato per uso esclusivamente personale è perfettamente legale, senza che occorra alcun permesso.

Ricapitolando, anche quando le persone, presenziando ad un evento pubblico (politico, sportivo, ecc.), rinunciano in parte al loro diritto alla privacy, per filmarle e diffondere il video sarebbe comunque necessario il loro consenso scritto. Questo ostacolo, tuttavia, può essere facilmente superato facendo solo rapide panoramiche sulla folla, senza soffermarsi sui primi piani (altrimenti occorrerebbe la liberatoria della persona singolarmente inquadrata); oppure, editando l’immagine e rendendo non riconoscibili le persone (ad esempio, oscurando i volti).

Filmare persone famose

Sono invece esenti dalla tutela per la privacy le persone famose: filmare un politico a un comizio e poi condividere il video sui social network non necessita di alcuna liberatoria. La legge sul punto è chiara: «Non occorre il consenso della persona ritratta quando la riproduzione dell’immagine è giustificata dalla notorietà o dall’ufficio pubblico coperto, da necessità di giustizia o di polizia, da scopi scientifici, didattici o culturali, o quando la riproduzione è collegata a fatti, avvenimenti, cerimonie di interesse pubblico o svoltisi in pubblico» [7]; lo stesso articolo, però, afferma anche che «Il ritratto non può essere esposto o messo in commercio quando l’esposizione rechi pregiudizio all’onore, alla reputazione o anche al decoro della persona ritratta». Ciò significa, quindi, che è fatto divieto diffondere immagini che possano danneggiare la fama e la considerazione che il pubblico ha di quella persona: si pensi ad esempio ad una nota star ripresa mentre è ubriaca. Lo stesso vale per la sua sfera privata o intima: anche quest’ultima non potrà essere oggetto di riprese, poiché in quel momento la persona famosa non intende esser vista da altri.

Quanto detto vale per quasi tutte le celebrities, fatta eccezione per alcuni casi in cui il consenso è comunque richiesto. Si tratta delle manifestazioni nelle quali è fatto divieto di riprese: si pensi ai concerti dei cantanti che proibiscono di filmare l’evento.

note

[1] Art. 615-bis cod. pen.

[2] Cass., sent. n. 18035/2012 del 11.05.2012.

[3] Cass., sent. n. 25453/2011 del 24.06.2011.

[4] Cass., sent. n. 18539/2017.

[5] Cass., sent. n. 18908, del 13.05.2011.

[6] Art. 96, legge n. 633/1941.

[7] Art. 97, l. n. 633/1941.

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Pensione con 5 anni di contributi, come fare

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Hai da poco compiuto l’età pensionabile (66 anni e 7 mesi sino al 2018, 67 anni dal 2019) ma non arrivi a 20 anni di contributi? Purtroppo non puoi ottenere la pensione di vecchiaia ordinaria, per la quale sono necessari 20 anni di contributi (15 soltanto se rientri tra i destinatari di alcune deroghe “sopravvissute” alla legge Fornero). Puoi, però, ottenere la pensione di vecchiaia contributiva se possiedi almeno 5 anni di contributi, al raggiungimento di 70 anni e 7 mesi di età (71 anni dal 2019).

Per ottenere questa pensione, però, devi essere assoggettato al calcolo integralmente contributivo della prestazione; se non fai parte di questa categoria, cioè quella dei cosiddetti “contributivi puri”, esistono comunque dei modi per rientrarvi. Ma procediamo per ordine e vediamo, nel dettaglio, come fare per ottenere la pensione con 5 anni di contributi.

Pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi, chi ne ha diritto

Come appena esposto, hanno diritto alla pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi, o pensione di vecchiaia contributiva, tutti i lavoratori la cui prestazione deve essere calcolata col sistema interamente contributivo.

Sono assoggettati a questo sistema di calcolo coloro che:

  • non possiedono contributi versati prima del 1° gennaio 1996;
  • possiedono contributi soltanto nella gestione separata o hanno optato per il computo della contribuzione in questa gestione;
  • hanno optato per il sistema di calcolo contributivo.

In buona sostanza, se non possiedi nemmeno un contributo accreditato alla data del 31 dicembre 1995, oppure se i tuoi contributi risultano versati soltanto alla gestione separata dell’Inps, hai pieno diritto alla pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi.

Ma che cosa può fare chi ha dei contributi accreditati prima del 31 dicembre 1995 e, quindi, non rientra nella categoria dei cosiddetti “contributivi puri”?

Computo nella gestione separata

Se possiedi dei contributi accreditati alla data del 31 dicembre 1995, puoi optare per il computo nella gestione separata. Grazie alla facoltà di computo, infatti, è possibile versare tutta la contribuzione posseduta in diverse gestioni previdenziali, escluse le casse dei liberi professionisti, nella gestione separata. La pensione, nella gestione separata, viene calcolata con il sistema integralmente contributivo, ma viene data la possibilità di accedere ad alcune pensioni agevolate, come la pensione anticipata a 63 anni di età e la pensione di vecchiaia con 5 anni di contributi.

Attenzione, però: chi possiede soltanto 5 anni di contributi non può accedere al computo nella gestione separata. Per beneficiare di questa facoltà, difatti, bisogna possedere i seguenti requisiti:

  • almeno 15 anni di contributi complessivi;
  • almeno 5 anni di contributi versati successivamente al 1 gennaio 1996;
  • almeno un contributo ma non più di 18 anni di contributi versati alla data del 31 dicembre 1995.

Opzione contributiva per ottenere la pensione di vecchiaia con 15 anni di contributi

Pertanto, per chi possiede i requisiti appena esposti è più conveniente avvalersi dell’opzione contributiva ( per la quale i requisiti previsti sono gli stessi del computo nella gestione separata), che consente di pensionarsi con 15 anni di contributiricalcolando l’intero trattamento con il sistema contributivo. L’età pensionabile, però, resta quella valida per la pensione di vecchiaia ordinaria, quindi 66 anni e 7 mesi sino al 31 dicembre 2018 e 67 anni di età dal 2019.

Sistema di calcolo contributivo della pensione

Il sistema di calcolo contributivo, solitamente, risulta maggiormente penalizzante rispetto al sistema di calcolo retributivo. Mentre quest’ultimo, difatti, si basa sulle ultime annualità di stipendio o di retribuzione, il sistema di calcolo contributivo si basa sui contributi effettivamente versati. Non esiste una penalizzazione fissa, in quanto la differenza tra calcolo contributivo e retributivo dipende dalla carriera del lavoratore.  Mediamente si registra una penalizzazione che oscilla dal 25% al 30%, ma non mancano i casi in cui la penalizzazione arrivi al 50% e, al contrario, i casi in cui il sistema retributivo risulti meno favorevole del contributivo, ad esempio quando a fine carriera le retribuzioni o gli stipendi risultano notevolmente più bassi.

Con uno stipendio inferiore a mille euro al mese ti spetta il mantenimento 

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Lo scorso 10 maggio, la Cassazione ha riscritto le regole sul mantenimento dell’ex coniuge [1]. E stato stabilito, in particolare, il diritto all’assegno spetta solo a colei (o colui) che non ha un reddito tale da mantenersi da solo, reddito da rapportare al territorio in cui vive (si deve quindi tenere conto del potere di acquisto del denaro che, in determinate zone e paesi, è più alto che nei grossi capoluoghi). La Corte non ha definito un criterio quantitativo per determinare l’autosufficienza economica, ma ci ha pensato il tribunale di Milano [2]: secondo i giudici meneghini chi raggiunge mille euro al mese dirsi indipendente, mentre chi sta al di sotto di tale soglia può ancora rivendicare l’assegno di mantenimento da parte dell’ex.

Se guadagno meno di mille euro al mese a cosa ho diritto?

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Mille euro al mese: secondo alcune norme di legge è questa, all’incirca, la soglia di povertà delle persone. Chi percepisce uno stipendio inferiore ha diritto a una serie di benefici e contributi (statali e non). Dal diritto al gratuito patrocinio all’assegno di mantenimento dell’ex coniuge, dall’assegno di invalidità all’esenzione dalle tasse universitarie per i figli, dalla quattordicesima all’esenzione del canone RAI. Non esiste tuttavia una norma che fissi un’unica soglia per tutte le svariate agevolazioni disposte dalla legge: ogni materia ha la sua soglia. Ma tutte restano, più o meno, nella stessa orbita. Così, un impiegato con una busta paga di 1.500 euro al mese resta fuori da gran parte degli aiuti. Proprio per cercare di fare il punto della situazione, in questo articolo cercheremo di elencare tutti i benefici che spettano a chi guadagna meno di mille euro al mese e quali sono, con precisione, le relative soglie.

  • Con uno stipendio inferiore a mille euro al mese ti spetta il mantenimento
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro al mese sei esente dal Canone RAI
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro ti spetta il reddito di inclusione
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro al mese ti spetta la Naspi
  • Con una pensione inferiore a mille euro non puoi subire il pignoramento
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro hai l’esenzione dalle tasse universitarie
  • Con una pensione di mille euro al mese hai diritto alla 14ma
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro ti spetta la riduzione della bolletta Telecom
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro ti spettano bonus luce e gas
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro ti spetta l’esenzione dal ticket
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro ti spettano le detrazioni sull’affitto
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro sei fiscalmente a carico
  • Con uno stipendio pari a mille euro ti spettano tutti i contributi
  • Con uno stipendio di mille euro hai diritto alla pensione per intero
  • Con uno stipendio pari a mille euro ti spetta l’assegno di invalidità
  • Con uno stipendio inferiore a mille euro al mese non paghi avvocato e spese di giustizia

LA RICETTA SSN (O RICETTA ROSSA)

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Prima di tutto la penna.

Si bisogna usare la penna nera, qualsiasi altro colore rende nullo il documento. La stampa al PC sarebbe la cosa migliore poiché riduce di molto il rischio di contraffazione ma per i colleghi che prestano servizio in Continuità Assistenziale  la penna nera resta per ora l’unico supporto possibile.
Sulla Ricetta SSN si possono prescrivere tutti i medicinali in Classe A, i farmaci rientranti nelle Note, gli esami strumentali e di laboratorio, le richieste di visite specialistiche, le forniture di materiale sanitario ecc. (vedi immagine in basso).

1. Codici Esenzione: qui vanno inseriti i codici di esenzione tichet per patologia (validi per indigini ed esami nella Regione Molise ma non per i farmaci) oppure quelli per  stato (invalidità C01 C02 C03, reddito E01, E02, E03, E04). Questi codici escludono la partecipazione dell’assistito alle spese per la prestazione richiesta pertanto qualora non utilizzati vanno sempre sbarrate le caselle per impedire che vengano aggiunti da altri soggetti.
2. Spazio per la firma dell’assistito (per autocertificazione stato di reddito)
3. ASL di residenza dell’assistito, qui a Campobasso è CB201,  è l’azienda sanitaria a cui andrà addebitata la prestazione, pertanto va sempre compilato con attenzione onde evitare contestazioni future.
4. Codice Fiscale dell’assistito.
5. Codici aggiuntivi
6. Spazio per la nota. Le note (vedi pagina del sito dedicata) indicano che il farmaco prescritto deve essere concesso in Classe A (a carico del SSN) poiché la patologia del paziente rientra in quelle condizioni contemplate dalla nota stessa.  Ci sono due caselle per le note perché su una ricetta si possono prescrivere due prodotti diversi.  In assenza dei requisiti previsti dalla nota il farmaco è a carico dell’assistito e in realtà andrebbe prescritto su ricetta bianca. Se lo prescrivete sulla ricetta SSN abbiate sempre cura di sbarrare le caselle della nota che nel nostro fac simile sono la 6 e la 7.
7. Seconda casella per la Nota.
8. Priorità della prestazione (Urgente, breve ecc) si mette una croce sulla casella che interessa in caso di richiesta di esami/visite.
9. Fondamentale in questo gruppo di caselle la “S” che vuol dire “suggerita” la casella va spuntata in caso di prescrizione indotta da altra struttura/professionista, è sempre opportuno aggiungere sulla ricetta la dicitura “prescrizione indotta da….” Specificando nel dettaglio l’ente o il professionista suggeritore. Ovviamente se la prescrizione comporta un danno per l’assistito si è comunque responsabili in toto della propria prescrizione, infatti l’utilità di tale casella è limitata a questioni relative al budget prescrittivo del Medico di Medicina Generale convenzionato e non rappresenta assolutamente uno scarico di responsabilità.

Se non si è d’accordo con l’induzione della prescrizione l’unica cosa da fare è rifiutarsi di trascrivere la ricetta.
10. Timbro e Firma del Medico Prescrittore. In caso di sostituzione è corretto apporre il timbro del titolare, il proprio timbro e la propria firma. È opportuno che il timbro contenga il numero di iscrizione all’ordine o il codice regionale in caso di medico convenzionato e il numero di telefono del medico.
11. Data esatta della prescrizione.
12. Tipo di Ricetta.
13. Numero di pezzi/esami.

Nello slideshow in basso troverete alcuni esempi di ricetta medica compilate e stampata al PC a scopo esemplificativo.

Il retro della ricetta è dedicato invece ai “soggetti assicurati da istituzione estere” che altro non sono se non i cittadini residenti all’estero (sempre in ambito CEE) muniti di apposita card contenente tutti i dati richiesti dai campi previsti sul retro della ricetta. E’ necessaria sul retro la firma del medico e dell’assistito per rendere il documento valido. In farmacia richiederanno all’assistito di esibire comunque la tessera di assicurazione estera. Tali campi vanno compilati anche per le visite e sono fondamentali affinché le istituzioni estere rimborsino la prestazione effettuata.

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LA PRESCRIZIONE SECONDO IL DECRETO BALDUZZI

Come tutti voi certamente sapete, dall’agosto 2012 è entrata in vigore la novità della prescrizione secondo principio attivo.  Il Sindacato FIMMG Formazione ha elaborato prontamente un documento molto utile che metto qui a vostra disposizione come file da scaricare e stampare.

In sintesi le novità sono riassunte qui di seguito ma vi consiglio comunque di scaricare il file dal link sottostante per poter vedere gli esempi pratici delle varie fattispecie.

La ricetta cambia solo se sono valide tutte queste condizioni:

1. il farmaco non è per una patologia cronica oppure, se    serve per una patologia cronica, viene prescritto per la prima volta;
2. il medicinale è prescritto su una ricetta del servizio sanitario nazionale;
3. il principio attivo del farmaco ha il brevetto scaduto,  esistono cioè medicinali equivalenti sul mercato.

Le nuove regole non si applicano quando:

1. le terapie sono già in atto;
2. i farmaci vengono prescritti su ricetta bianca (cioè pagati direttamente dal cittadino);
3. per quel medicinale non c’è un farmaco equivalente.

Detrazione del costo del nutrizionista

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Il nutrizionista non è propriamente un medico, ma un biologo: è cioè un professionista che, inserito nel Servizio sanitario nazionale, valuta e studia i bisogni nutritivi ed energetici della persona nonché le abitudini e le necessità alimentari, ed elabora diete ottimali per le persone sane [1]. Non essendo un medico, il corrispettivo che viene pagato dal cliente al nutrizionista  non sarebbe detraibile perché, come noto, solo le spese mediche propriamente intese possono essere detratte dalle tasse.

Tuttavia, nell’epoca moderna caratterizzata spesso da patologie alimentari e da obesità, molti si rivolgono al biologo nutrizionista per farsi consigliare diete o trattamenti per il benessere alimentare.

Ecco allora che a date condizioni è possibile detrarre il costo della prestazione del nutrizionista, cioè i pagamenti fatti per i suoi onorari professionali.

Vediamo a che condizione è detraibile il costo del nutrizionista.

Il compito del biologo nutrizionista ai fini della detrazione

Innanzitutto, proprio perché il nutrizionista non è un medico ma un biologo, è stabilito che egli può prescrivere diete e trattamenti per il benessere alimentare solo a persone sane, non malate. Il nutrizionista può quindi consigliare diete o altri trattamenti similari solo a persone che non siano portatrici di patologie, al fine di migliorarne il complessivo benessere: tutti coloro che sono portatori di patologie devono quindi rivolgersi al medico e non al nutrizionista.

In sostanza quindi il biologo nutrizionista, in quanto esercente una attività professionale non medica ma comunque attinente alla salute delle persone, può prescrivere diete a soggetti sani e soltanto ad essi.

Come si detrae il costo del nutrizionista

Sulla base di questo presupposto – ovvero la prescrizione di diete a soggetto sano da parte di un biologo nutrizionista regolarmente iscritto all’albo – è possibile per il cliente detrarre il costo della prestazione del nutrizionista.

Innanzitutto, la persona può recarsi dal nutrizionista di sua spontanea volontà, senza che – a fini fiscali – sia richiesta una prescrizione medica in tal senso.

Dopodiché, ai fini della corretta detrazione del costo del nutrizionista, è necessario che il nutrizionista rilasci alla fine della visita, un documento che certifichi il corrispettivo ottenuto dal cliente. Il documento rilasciato al cliente dovrà contenere:

  • il titolo professionale del nutrizionista
  • la descrizione della visita nutrizionale effettuata
  • la descrizione della dieta consigliata

 

A quanto ammonta la detrazione del costo del nutrizionista

Una volta che ricorrono questi presupposti, la detrazione del costo del nutrizionista segue le stesse norme previste per la detrazione dei costi delle prestazioni mediche: dunque, il costo del nutrizionista sarà detraibile ai fini Irpef per la quota del 19% sull’eccedente la somma di euro 129,11.

Elaborazione della dieta esente da Iva

Le prestazioni del biologo nutrizionista ed in particolare quella di elaborazione della dieta è esente dal campo di applicazione dell’Iva [2].

note

[1] Art. 3 della L. n. 396/1967.

[2] Art. 1 del D. Min. Sanità del 17.05.2002; Art. 10 del D.P.R. n. 633/1972.

Autore immagine: Pixabay

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