In arrivo la tassa per comprare frutta e verdure

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Dal 1 gennaio 2018 si dovrà pagare una tassa anche sui sacchetti trasparenti dove si infilano frutta e verdure. Multe per i negozi che non si adeguano

Quanto a tasse, nel mondo, non ci invidia davvero nessuno. Qualsiasi cosa si voglia fare in Italia, c’è sempre dietro una qualche tassa o imposta da pagare. È vero, per respirare non si pagano tasse, ciononostante il Fisco ci insegue proprio “fino alla morte”. Ed infatti, è  attualmente all’esame del Senato un disegno di legge sulla disciplina delle attività funerarie, volto all’introduzione della “macabra” tassa sulla morte. Per approfondimenti sul punto leggi: In arrivo la macabra “tassa sulla morte”. Si era pensato addirittura di introdurre una tassa sull’ombra. Non è uno scherzo: avete capito bene, proprio sull’ombra, quella proiettata sul suolo pubblico dalle insegne e dalla cartellonistica di negozi e attività commerciali. Ma le sorprese non sono finite qui. Da gennaio 2018, si dovrà mettere mano al portafoglio anche per pagare i sacchetti della spesa. Attenzione: non quelli disponibili alle casse dei vari supermercati, che il più delle volte vengono già fatti pagare. Stiamo parlando di una cosa diversa e cioè dei sacchetti trasparenti ed ultraleggeri dove si infilano frutta e verdure per poi pesarli, ritirare lo scontrino, incollarlo sul sacchetto e recarsi alla cassa. Si tratta di un nuovo balzello introdotto dal cosiddetto decreto Mezzogiorno [1]

La tassa sui sacchetti ultraleggeri per l’ortofrutta

Dal 1 gennaio 2018 si dovranno pagare i sacchetti trasparenti ed ultraleggeri. La spesa, in concreto, non sarà eccessiva.  I consumatori però saranno comunque costretti a svuotare ulteriormente le proprie tasche per rimpinguare le casse dell’amministrazione finanziaria. Si tratterà di pochi centesimi a sacchetto, l’ipotesi è di 10 centesimi l’uno. Ma considerando che per ogni tipo di frutta e ortaggio occorrerà utilizzare un singolo sacchetto, in quanto i diversi prodotti hanno ovviamente prezzi differenti, si capisce subito quali potenzialità di introito ha il nuovo tributo.  Quindi, se si vuole riempire il frigorifero con mele, pomodori, patate, insalata e carote occorreranno cinque sacchetti e il consumatore pagherà cinque volte. Dunque, anche se si tratta di spiccioli, rimane il fatto che bisognerà mettere mano al portafoglio e poiché si tratta di consumo alimentare la spesa sarà inevitabile. Ognuno di noi, dunque, lascerà qualche euro in più rispetto ad oggi per la propria spesa, con i “migliori ringraziamenti” da parte del Ministro delle Finanze. Ciò in quanto, il ricavato è incassato dal supermercato o dal negozio, ma poi finirà in parte allo Stato sotto forma di Iva e di imposta sul reddito.

La tassa sui sacchetti e gli imprenditori del settore

Rivolgendosi agli imprenditori del settore, la legge che entrerà in vigore tra circa tre mesi precisa che le nuove buste non potranno essere distribuite gratuitamente e il prezzo di vendita dovrà risultare dallo scontrino o dalla fattura di acquisto delle merci. La nuova normativa è molto severa e prevede per il punto-vendita che non si adegui multe che partono da 2.500 euro e arrivano a 100mila nel caso in cui la violazione dovesse riguardare un ingente quantitativo di consumatori.

Addio alle vecchie buste

Per chi fa la spesa sarà vietato, per motivi di igiene, portarsi le buste “da casa” e ben presto le vecchie buste già presenti nei supermercati non potranno essere più utilizzate. Infatti, in accordo con l’Unione Europea, il Ministero dell’Ambiente ha emanato delle direttive secondo le quali dal 1 gennaio 2018 potranno essere utilizzati solamente sacchetti con un contenuto di materiale biodegradabile non inferiore al 40%. Percentuale che salirà fino al 60% nel 2021. Tutto ciò, se visto in un ottica ambientale è lodevole ed encomiabile, ma influirà inevitabilmente  sui costi di produzione dei sacchetti, che aumentando andranno ad incidere negativamente sulle nostre tasche e positivamente per quelle dello Stato.

note

[1] D.l. n. 91 del 20.06.2017 conv. dalla l. n. 123 del 03.08.2017 (in G.U. 12.08.2017 n. 188).

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In arrivo la macabra “tassa sulla morte”

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«La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali» scriveva Giacomo Leopardi. Ebbene, questa consolatoria quanto brutale affermazione sembra oggi essere smentita da un disegno di legge che si trova attualmente all’esame del Senato. È possibile, infatti, che a breve venga introdotta una tassa sulla morte. Nemmeno il nostro decesso, quindi, ci libererà dal male del Fisco! Vediamo insieme in cosa consiste la macabra “tassa sulla morte”.

Tassa sulla morte: il disegno di leggeIn arrivo la macabra “tassa sulla morte”

Il data 10 settembre 2014 è stato presentato il disegno di legge (d.d.l.) sulla “Disciplina delle attività funerarie“, il quale è attualmente all’esame del Senato.  Il provvedimento è stato voluto da alcuni esponenti del Pd e reca la firma principale di Stefano Vaccari. Ma qual è l’obiettivo di questo bizzarro disegno di legge? L’obiettivo, si legge nel documento, è plurimo: si tratta di definire i soggetti che possono operare nel settore; si intende, inoltre, “moralizzare” l’ambito funebre e cimiteriale; combattere l’evasione fiscale; riordinare il sistema cimiteriale; regolamentare le installazioni di crematori; individuare linee di azione in grado di apportare un profondo e rapido cambiamento del settore. Sorge allora spontanea la domanda: come realizzare tutto ciò? Ebbene, la risposta sorprenderà: tassando ogni singola operazione funebre e cimiteriale!

Il cittadino dovrà pagare le tasse anche sulla morte?

Se il disegno di legge dovesse passare l’esame del Senato verrà, quindi, introdotta la macabra “tassa sulla morte”. Tra gli articoli del disegno di legge, infatti, quello che più attira l’attenzione del povero cittadino (tristemente abituato, oramai, a questi ed ad altri “scherzi” da parte del legislatore) riguarda le misure fiscali. Le spese funebri e cimiteriali non saranno più esentate dalla pressione fiscale, come avviene attualmente, ma saranno anch’esse assoggettate a Iva, benché ad aliquota ridotta. Anche su tali spese, pertanto, il cittadino dovrà pagare l’imposta sul valore aggiunto, con aliquota del 10%. Verrà, inoltre, modificato il limite di detrazione dall’Irpef, ampliando la tipologia di spese detraibili e stabilendo una percentuale di detraibilità pari al 50% delle spese, in luogo dell’attuale 100%. A tale ultima previsione farà da contromisura l’introduzione di agevolazioni delle specifiche forme assicurative relative all’ambito funebre. Vi sarà, poi, un elevamento della tassa fissa fino a 30 euro, che verrà annualmente rivalutata secondo gli indici Istat, per ogni operazione cimiteriale. Inoltre, i Comuni dovranno destinare una quota del gettito annuale della Tasi, non inferiore al 20%, alla manutenzione dei cimiteri monumentali: ciò potrebbe comportare il rischio per il cittadino di subire un aggravio delle aliquote delle tasse locali, dovendo il Comune trovare un modo per far fronte a questo nuova e pensate spesa.

Nemmeno la morte ferma il Fisco!

Anche per morire, pertanto, occorre avere i soldi o, meglio, occorre che i familiari superstiti, già affranti dalla perdita di un loro caro, abbiano i soldi. Qual è, dunque, la conclusione cui giunge lo sventurato cittadino che si imbatte nella lettura del bizzarro disegno di legge sulla “Disciplina delle attività funerarie”? La conclusione è la seguente: nemmeno la morte ferma il Fisco!

note

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Tassa rifiuti: come chiedere il rimborso Iva

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Le tasse che il contribuente è tenuto a pagare sono sempre più numerose e sempre più assurde. Sicuramente non si può dire che, in merito, al nostro legislatore manchi la fantasia. Ed infatti, presto pagheremo la tassa sui sacchetti della spesa per comprare frutta e verdure (per un approfondimento sul punto leggi: In arrivo la tassa per comprare frutta e verdure). Si è molto discusso della tassa sull’ombra, di quella sul tricolore. Si pensi, inoltre, alla tassa sulla raccolta funghi ed alla tassa sulle paludi. L’elenco di tasse attualmente vigenti o delle quali si discute a proposito della possibile introduzione potrebbe procedere all’infinito o quasi. Tra le più assurde e macabre si pensi anche alla “tassa sulla morte” prevista da un disegno di legge, che attualmente è all’esame del Senato (in proposito leggi: In arrivo la macabra “tassa sulla morte”). Insomma, sebbene nella vita siano poche le certezze su cui possiamo fare affidamento, una di queste è indubbiamente la seguente: il Fisco è un fedele compagno di viaggio che sta sempre al nostro fianco e che non ci abbandona mai, nemmeno nel momento del nostro trapasso a miglior vita! Tuttavia, non sempre le tasse che siamo costretti a pagare sono legittime. Esaminiamo di seguito la cosiddetta “tassa sulle tasse“. Ci si riferisce all’Iva versata sulla tassa rifiuti, dichiarata illegittima sia dalla Corte Costituzionale[1] che dalla Corte di Cassazione ed il cui rimborso sta suscitando tanti disagi al povero contribuente. Ma procediamo con ordine e vediamo perché è illegittima l’applicazione dell’Iva sulla tassa rifiuti e a chi spetta il rimborso.

 

Iva sulla tassa rifiuti: la sentenza della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha recentemente emanato una sentenza [2] con la quale ha dichiarato illegittima l’applicazione dell’Iva sulla tassa sui rifiuti. È stato ribadito come il divieto di doppia imposizione del prelievo fiscale costituisca principio fondamentale in tema di diritto tributario. In forza di questo principio è stato confermato il divieto di applicare l’Iva su una tassa: nel caso oggetto della nostra attenzione quella pagata al Comune per lo smaltimento dei rifiuti. Ciò in contrapposizione a quanto da sempre affermato dall’Agenzia delle entrate, secondo cui la “Tariffa igiene ambientale” (Tia) non sarebbe una tassa, bensì una somma addebitata a titolo di pagamento per un servizio reso dal Comune ai cittadini.

I cittadini possono chiedere il rimborso

Nonostante i giudici della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione si siano pronunciati sulla illegittimità dell’applicazione dell’Iva sulla tassa dei rifiuti, sono ancora molti i Comuni che continuano indebitamente ad avanzare una simile richiesta al cittadino. A tale applicazione corrisponde il diritto del cittadino di chiedere il rimborsodell’Iva indebitamente pagata sulla tassa sui rifiuti. In altre parole, in seguito all’illegittimo versamento dell’Iva pari al 10% sulla tassa rifiuti i contribuenti possono presentare domanda al proprio Comune ed ottenerne il rimborso.

Iva sulla tassa rifiuti: conviene chiedere il rimborso?

Sono molti i contribuenti che si domandano a che condizioni e con che modalità presentare la domanda per ottenere il rimborso delle somme indebitamente pagate nel corso degli anni. In proposito, nel mese di marzo del 2017, Federconsumatori ha pubblicato una nota, nella quale viene specificato:

  • Il rimborso Iva può essere richiesto esclusivamente per la Tia illegittimamente corrisposta negli ultimi due anni. Non è, pertanto, possibile chiedere la restituzione dei restanti importi indebitamente corrisposti, i quali sono ormai caduti in prescrizione.
  • Al fine di conseguire il rimborso è stato, poi, specificato che non è sufficiente la mera presentazione della domanda. Il contribuente deve precedentemente aver vinto una causa collettiva, il cui costo potrebbe comportare un sostanziale azzeramento del beneficio: per rendersi conto di ciò basta mettere a confronto le spese per la causa e l’importo del rimborso. A tale antieconomicità nei confronti del cittadino, che potrebbe dissuaderlo dall’avanzare richiesta di rimborso, corrisponde un ingente guadagno dei Comuni (secondo la stima fatta dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani, i rimborsi dovuti alle famiglie ammontano a 993 milioni di euro).

 

Iva sulla tassa rifiuti: come chiedere il rimborso?

Il contribuente che comunque voglia  far valere il proprio diritto ad ottenere il rimborso Iva sulla tassa rifiuti deve:

  • accertarsi che l’imposta gli sia stata effettivamente addebitata negli anni precedenti; in altre parole, si deve procedere ad un esame dettagliato degli importi riportati nella fattura;
  • verificare che tutte le somme illegittimamente addebitate siano state effettivamente corrisposte;
  • in caso di esito positivo del riscontro, il cittadino può presentare domanda al Comune per ottenere il rimborso dell’Iva del 10% non dovuta sulla tassa sui rifiuti, allegando le fatture, le comunicazioni e le ricevute che dimostrino l’addebito e il pagamento dell’Iva;

Dove va presentata la domanda di rimborso Iva?

La domanda di rimborso Iva deve essere presentata presso l’Ufficio tributi del proprio Comune oppure presso gli sportelli delle Associazioni a difesa dei consumatori che si siano in precedenza prodigate per ottenere il legittimo rimborso delle somme indebitamente versate a titolo di Iva sulla tassa sui rifiuti.

Quando è riconosciuto il rimborso?

Per ottenere il rimborso Iva sulla tassa rifiuti, come sopra ricordato, non è necessaria la mera presentazione della domanda ma costituisce condizione imprescindibile la pronuncia favorevole del giudice relativa alla causa collettiva.

note

[1] C. Cost., sent. n. 238 del 24.07.2009.

[2] Cass., sent. n. 5078 del 15.03.2016. In senso conforme Cass., sent. n. 3756 del 08.03.2012.

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Pignoramento stipendio 2018

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Anche se le regole per il pignoramento dello stipendio sono fissate in via generale dal codice di procedura civile, la misura concreta entro cui detto pignoramento può avvenire varia di anno in anno. Infatti, con l’ultima riforma del processo esecutivo, il tetto per l’impignorabilità della busta paga depositata in banca e divenuta ormai deposito del conto corrente, muta in relazione a uno specifico parametro determinato annualmente dall’Inps: l’assegno sociale. Ecco perché, ferme restando le stesse regole, è possibile che chi ha subito un pignoramento dello stipendio in un determinato periodo abbia subito una trattenuta superiore rispetto invece ad altre persone. Detto ciò procediamo con ordine e vediamo, al momento, quali sono le regole per il pignoramento dello stipendio per il 2018.

Pignoramento della busta paga in azienda

Il pignoramento della busta paga, eseguito presso l’azienda, non cambia mai ed è sempre pari allo stesso importo (variabile solo in base allo stipendio). Dopo la notifica dell’atto di pignoramento, che va inviata sia al dipendente che al datore, quest’ultimo trattiene, dal salario mensile, le somme che l’ufficiale giudiziario ha intimato di non versare al dipendente. Il lavoratore riceve quindi lo stipendio già al netto della trattenuta.

Il pignoramento dello stipendio 2018 in azienda è diverso a seconda che si tratti di pignoramenti eseguiti da soggetti privati o dall’Agente della riscossione.

Pignoramento stipendio 2018 fatto da privati

Si prende a riferimento lo stipendio, comprensivo di straordinari e di altri compensi erogati al dipendente, esclusi solo i rimborsi spesa:

  • per i crediti alimentari il pignoramento è pari alla misura autorizzata dal giudice dell’esecuzione;
  • per ogni altro credito privato il pignoramento è di massimo un quinto dello stipendio.

Se vi sono più pignoramenti nello stesso tempo, che attengono a più cause creditorie, il pignoramento può avvenire fino a massimo metà dello stipendio. Le tipologie di credito che costituiscono “classi” diverse e che, quindi, possono concorrere tra loro sono: crediti alimentari (ad es. quelli all’ex moglie o ai figli), crediti per tributi (ad esempio quelli dovuti all’Agenzia delle Entrate, all’Esattore, alla Regione), altri crediti (ad esempio banche, fornitori, spese di soccombenza in giudizio, ecc.) Così, ad esempio:

  • se un soggetto subisce il pignoramento da parte di una banca e di una finanziaria, lo stipendio può essere pignorato fino a massimo un quinto (il secondo che agisce viene accodato al primo e si inizia a soddisfare solo dopo che il primo è stato completamente pagato);
  • se un soggetto subisce il pignoramento da parte dell’ex moglie, dell’Agenzia delle Entrate Riscossione e della banca lo stipendio può essere pignorato fino a massimo metà.

Pignoramento stipendio 2018 fatto dall’Agente della Riscossione

Se ad agire è l’Agenzia Entrate Riscossione, il pignoramento dello stipendio 2018 può avvenire nei seguenti limiti:

  • stipendi fino a massimo 2.500 euro: un decimo dello stipendio;
  • stipendi fino a massimo 5.000 euro: un settimo dello stipendio;
  • stipendi oltre 5.000 euro: un quinto dello stipendio.

Pignoramento dello stipendio fatto in banca

Regole diverse valgono nel caso in cui lo stipendio venga pignorato una volta che è stato accreditato dall’azienda sul conto corrente “dedicato” del lavoratore. In tal caso, come detto, la misura del pignoramento dello stipendio varia a seconda dell’ammontare dell’assegno sociale erogato dall’Inps. L’assegno sociale per il 2017 è pari a 448,07 euro, somma che dovrebbe valere anche per il 2018 salvo modifiche dell’ultimo minuto [1]. In particolare:

  • per le quote di stipendio accreditate in banca prima del pignoramento: è pignorabile l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale. Si fa questa operazione: stipendio mensile – (misura massima assegno sociale mensile x 3) = somma pignorabile. Ad esempio: su uno stipendio di 1500 euro vanno detratti 1344,21 euro (ossia 448,07 x 3). Quindi è possibile pignorare solo 155,79 euro;
  • per le quote di stipendio accreditate dall’azienda dopo la data del pignoramento o successivamente vengono pignorati gli stessi importi che abbiamo visto nel caso della trattenuta della busta paga da parte del datore di lavoro ossia:
  1. per i crediti alimentari, nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o dal giudice delegato;
  2. per ogni altro credito nel limite di 1/5;
  3. per il pignoramento in concorso di più cause creditorie (alimenti, tributi, altre cause) fino alla metà dello stipendio.

note

[1] L’assegno sociale per l’anno 2017 (invariato rispetto al 2106) è pari a 5.824,91 euro annui (ossia 448,07 euro mensili per 13 mensilità) (Circolare INPS 17 gennaio 2017 n. 8).

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Assegno d’invalidità, quanto spetta?

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L’assegno ordinario d’invalidità spetta alla generalità degli iscritti alle gestioni Inps: ad esempio, spetta a chi è iscritto al fondo pensione lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, gestione separata.

Perché si possa ottenere l’assegno ordinario d’invalidità, nel dettaglio, è necessario possedere:

  • almeno 5 anni di contributi;
  • almeno 3 anni di contributi versati nell’ultimo quinquennio;
  • un’invalidità superiore ai 2/3, ossia la riduzione della capacità lavorativa a meno di 1/3.

Per sapere quanto spetta, bisogna considerare che l’assegno d’invalidità è calcolato allo stesso modo della generalità delle pensioni dirette, cioè:

  • col sistema retributivo sino al 31 dicembre 2011 (che si basa sulla media degli ultimi stipendi), poi contributivo (questo sistema si basa invece sulla contribuzione accreditata e sull’età pensionabile), per chi possiede almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995;
  • col sistema retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, per chi possiede meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995: si tratta del cosiddetto sistema misto;
  • col sistema integralmente contributivo per chi non possiede contributi versati alla data del 31 dicembre 1995.

Riduzioni dell’assegno d’invalidità

L’assegno ordinario d’invalidità è compatibile con i redditi da lavoro, ma limitatamente. Per i titolari di assegno di invalidità, difatti, la legge prevede una riduzione dell’assegnose il titolare continua a lavorare e supera un determinato limite di reddito. In particolare:

  • se il reddito supera 4 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 25%: in pratica, se il reddito supera 26.098,28 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 501,89 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 4), l’assegno d’invalidità è ridotto di ¼;
  • se il reddito supera 5 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 50%: in pratica, se il reddito supera 32.622,85 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 501,89 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 5), l’assegno d’invalidità viene dimezzato.

Il trattamento derivante dal cumulo dei redditi con l’assegno di invalidità ridotto, in ogni caso, non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe qualora il reddito risultasse pari al limite massimo della fascia immediatamente precedente a quella nella quale il reddito posseduto si colloca.

Seconda riduzione dell’assegno d’invalidità

Tuttavia, se l’assegno già ridotto resta lo stesso superiore al trattamento minimo, cioè supera 501,89 euro mensili,  può subire un secondo taglio, in questo caso una trattenuta. L’applicabilità di questa riduzione dipende dall’anzianità contributiva dell’interessato:

  • con almeno 40 anni di contributi non deve essere applicata alcuna trattenuta aggiuntiva: questo sarebbe il Suo caso;
  • con meno di 40 anni di contributi scatta la seconda trattenuta, che varia a seconda che il reddito provenga da lavoro dipendente o autonomo:

o             relativamente al lavoro dipendente, la trattenuta è pari al 50% della quota di assegno che eccede il trattamento minimo, entro comunque l’importo dei redditi da lavoro percepiti (articolo 10, Dlgs 503/1992;

o             relativamente al lavoro autonomo, invece, la trattenuta è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo, ma non può essere superiore al 30% del reddito prodotto (articolo 72 della legge 388/2000).

Questa seconda riduzione non può essere applicata se:

  • l’ulteriore reddito conseguito è inferiore al trattamento minimo;
  • il lavoratore è impiegato in contratti a termine di durata inferiore a 50 giornate nell’anno solare;
  • il reddito conseguito deriva da attività socialmente utili svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani promossi da enti locali ed altre istituzioni pubbliche e private.

Trasformazione dell’assegno d’invalidità in pensione di vecchiaia

Al compimento dell’età pensionabile, cioè quando l’assegno viene trasformato d’ufficio in pensione di vecchiaia, queste riduzioni non scattano più, in quanto la prestazione di vecchiaia è compatibile pienamente con lo svolgimento di attività lavorativa. In caso di trasformazione dell’assegno in pensione di vecchiaia la pensione è dunque cumulabile con i redditi da lavoro.

L’assegno viene trasformato automaticamente in pensione di vecchiaia al compimento di 66 anni e 7 mesi di età, se si possiedono almeno 20 anni di contributi; il requisito di età dovrebbe aumentare a 67 anni nel 2019, poi a 67 anni e 3 mesi nel 2021, e dovrebbe continuare ad aumentare di 3 mesi ogni biennio.

L’interessato potrebbe comunque chiedere la pensione di vecchiaia anticipata al maturare del requisito di 60 anni e 7 mesi di età, se l’invalidità riconosciuta è almeno pari all’80%: dovrebbe però sottoporsi a una nuova visita da parte di un’apposita commissione medica Inps, in quanto è necessario che sia accertato il possesso dell’invalidità pensionabile (i cui parametri differiscono da quelli dell’invalidità civile [1]) in misura almeno pari all’80%.

La pensione di vecchiaia anticipata viene liquidata dopo 12 mesi dal perfezionamento dei requisiti.

Una volta liquidata la pensione, che si tratti di quella anticipata o di quella di vecchiaia ordinaria, non sarà più applicata alcuna riduzione.

note

[1] L. 222/1984.

Chi chiamo se un cane disturba perché abbaia?

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Se il cane del vicino disturba, perché abbaia durante tutte le ore del giorno, non è di certo competente l’Asl la quale, tutt’al più, potrebbe intervenire nel caso di aree rese insalubri dagli escrementi degli animali. Questo potrebbe essere, ad esempio, il caso di un canile o di un recinto di animali che non viene pulito per come dovrebbe, rendendo l’aria maleodorante e nociva.

Competente a intervenire nel caso del cane del vicino che abbaia non è neanche l’amministratore di condominio, il quale non può gestire le liti personali tra condomini (è il caso, per esempio, delle infiltrazioni d’acqua). Egli può solo far rispettare il regolamento di condominio e quest’ultimo, con la recente riforma, non può più impedire ai proprietari di detenere animali in casa.

Neanche il sindaco può avere poteri in merito alla gestione delle liti tra condomini, anche se il rumore può risultare considerevole e dar fastidio, ad esempio, all’intero quartiere.

Solo nel caso in cui i latrati del cane, per la loro possibilità di diffusione, dovessero dare disturbo a un numero “indeterminabile” di persone, si potrebbe ricorrere alla querela da depositare presso i Carabinieri o presso la Procura della Repubblica, e quindi attivando un procedimento penale. È necessario, tuttavia, per poter procedere in tal senso, che venga disturbato il riposo delle persone e la quiete pubblica, non quindi quella di un solo proprietario. Inoltre, per presentare la querela, non è necessario raccogliere le firme dei vicini di casa, potendosi attivare anche uno solo di essi, quando tutti gli altri preferiscano astenersi dal farlo. E ciò perché le autorità valuteranno la capacità dei rumori, derivanti dall’abbaiare del cane, di irradiarsi intorno all’abitazione del padrone, dando fastidio a tutto il vicinato, a prescindere dalle lamentele dei proprietari di immobili.

Se ti preoccupa presentare la querela perché ritieni di non essere certo che sussistano gli estremi del reato – ossia il disturbo della quiete di un numero indeterminato di persone – non devi temere una controquerela per calunnia: quest’ultima, infatti, scatterebbe solo se tu denunciassi un fatto falso, consapevole che la verità è un’altra.

Viceversa, se gli estremi del reato non sussistono, l’unica tutela che potrai azionare è quella civile del risarcimento del danno. Dovrai, a tal fine, andare da un avvocato che provveda, inizialmente, a inviare una lettera di diffida per tentare una composizione bonaria della lite. Potresti tentare, prima di andare in causa, un tentativo di conciliazione presso un organismo di mediazione, che potrebbe risolvere il problema senza dover andare dinanzi al giudice.

Come dimostrare il fatto? In questi casi, il giudice dispone, di norma, una perizia fonometrica, ma recenti interventi giurisprudenziali consentono di raggiungere la prova anche attraverso semplici testimoni.

Come dimostrare il danno? Per quanto invece attiene alla prova del danno che hai subito per via dei continui latrati, alcune sentenze recenti ti dispensano da questo onere della prova, ritenendo che esso sia dovuto a prescindere da qualsiasi dimostrazione di pregiudizio concreto (gli avvocati, per esprimere questo concetto, dicono che “il danno è in re ipsa”). È chiaro, però, che se il tuo caso è particolare e ritieni di aver subito un pregiudizio superiore alla media (per esempio, sei un cardiopatico o soffri di insonnia e se vieni svegliato poi non riesci più ad addormentarti) dovrai dare prova di tali ulteriori pregiudizi.

Si possono fotografare le vetrine dei negozi?

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Scattare foto, con il cellulare o altro mezzo, in un ristorante, un bar o un negozio integra reato; non però se la foto viene scattata alla vetrina.

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Un negozio ha messo in vetrina un capo di abbigliamento che ti piace: lo vorresti far vedere alle tue amiche in modo da avere il loro consiglio e decidere se comprarlo o meno. Così prendi il cellulare e ti posizioni in modo da scattare una bella foto. L’immagine, peraltro, ti servirà anche per confrontare il vestito e il prezzo praticato dal commerciante con gli altri negozi che hai intenzione di perlustrare in giornata, in modo da fare una scelta assennata. Senonché dall’emporio esce un tale con la faccia seccata che ti blocca: «È vietato fotografare la vetrina del negozio» ti dice. La cosa ti sembra però assurda. A te sembra proprio il contrario: ciò che è esposto al pubblico non può essere sottoposto a restrizioni o a privacy visto che è già alla mercé di tutti, al pari delle facciate dei palazzi. Sempre col cellulare in mano, passi dall’app delle foto al browser di internet e cerchi su Google: si possono fotografare le vetrine dei negozi? Il motore di ricerca ti ha così portato a questo articolo. Nel volerti dare una risposta pratica in tempi brevi e con semplicità, cerchiamo di vedere cosa prevede la legge in proposito. Il muro perimetrale di un edificio è infatti esposto al pubblico e non può certo essere coperto dalla privacy proprio perché fa parte del contesto urbano e da esso è ineliminabile. Sarebbe assurdo fare una foto al centro storico di una città eliminando però tutti gli edifici privati. Chiaramente la foto non potrà contenere riferimenti a persone o alla loro vita privata; si immagini il caso di un condomino che, in quel momento, si trova affacciato dal balcone in pigiama.

La questione se sia possibile fotografare le vetrine dei negozi può essere affrontata non solo sotto il profilo della tutela della riservatezza – tutela che, come abbiamo appena visto, non può essere invocata dal commerciante – ma anche dal punto di vista del diritto d’autore. La creazione di una vetrina è spesso una composizione artistica, creata da tecnici specializzati in allestimento dei negozi, marketing e comunicazione al pubblico. Anche in questo caso, però, la legge non prevede alcuna tutela per le vetrine e, quindi, non c’è alcun divieto di fotografarle.

L’unico caso in cui fotografare una vetrina può essere vietato è quando l’immagine viene utilizzata per scopi illeciti come nel caso di concorrenza sleale: si pensi al rivale del negozio accanto che tenta di copiare la vetrina altrui o a chi pubblica lo scatto sul proprio sito internet di e-commerce facendo credere che si tratti del proprio punto vendita.

Diverso è il discorso in cui la fotografia viene scattata all’interno del negozio. Qui siamo già nell’ambito della proprietà privata e il titolare è ben libero di imporre le proprie regole cui i clienti dovranno attenersi. Secondo la Cassazione, scattare foto a una persona all’interno di un negozio integra reato [1].

Il dubbio potrebbe porsi, infine, per un centro commerciale chiuso. La struttura è privata, ma all’interno di essa, vi sono le vetrine. A dover imporre il divieto di fotografare i negozi è quindi non già il commerciante, ma il titolare del centro commerciale, imponendo appositi divieti con cartelli ben in mostra.

note

[1] Cass. sent. n. 10444/2005.

Cartelle esattoriali: il Governo resuscita i debiti estinti

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Sembra un incubo quello che sta per abbattersi su gran parte dei contribuenti e, in particolar modo, su quelli che hanno ricevuto, negli anni passati, almeno una cartella esattoriale di Equitalia. Nella bozza della legge di bilancio, in via di approvazione, è contenuta una norma volta a resuscitare tutti i debiti con l’Agente della Riscossione benché ormai prescritti e, quindi, estinti. In buona sostanza, la nuova disposizione ridefinisce, in via retroattiva, la prescrizione di tutte le cartelle di pagamento, elevandola sempre a dieci anni, anche per i tributi che, per legge, hanno un termine di scadenza più breve. In questo modo i termini di prescrizione delle cartelle relative a multe stradali, Imu, Tasi, bollo auto, contributi Inps e Inail, imposta sui rifiuti vengono tutti raddoppiati (per il bollo auto il termine è addirittura triplicato). Il tutto per concedere l’ulteriore privilegio al nuovo esattore in fase di riscossione: pignoramenti, ipoteche e fermi auto potranno estendersi anche ai debiti che ormai i contribuenti avevano ritenuto morti e sepolti. Il paradosso è che, se la norma non verrà modificata, chi non ha fatto richiesta di rottamazione delle vecchie cartelle perché le riteneva ormai prescritte, e quindi non dovute, si vedrà ora pignorare ugualmente la casa, lo stipendio o la pensione posto che quel debito verrà automaticamente resuscitato. Cerchiamo di capire meglio cosa sta succedendo e perché la disposizione è da considerare un vero e proprio attacco alla democrazia.

Chi credeva di non dover più nulla allo Stato si sbagliava…

Per diversi anni, Equitalia ha sostenuto, nelle proprie difese in tribunale, una tesi ritenuta però errata da gran parte dei giudici. Secondo l’ex esattore, le cartelle di pagamento, se non contestate nei 60 giorni dalla notifica, sarebbero da considerarsi al pari di sentenze definitive. Ebbene, per le sentenze «passate in giudicato» (questo il termine tecnico) la prescrizione è sempre di 10 anni; quindi tale sarebbe anche la prescrizione per le cartelle non impugnate. In verità la Cassazione, da ultimo con una sentenza delle Sezioni Unite di novembre scorso [1], ha detto l’esatto contrario: le cartelle, anche se non più contestabili (per decorso dei 60 giorni), restano atti amministrativi e la prescrizione è quella tipica del tributo stabilita dalla legge speciale. Ad esempio, per le cartelle del bollo auto la prescrizione è di 3 anni, quelle per Imu, Tasi, multe stradali, contributi Inps e Inail di 5 anni; Iva e Irpef di 10 anni.

Ora però nella legge di Bilancio è stata inserita una norma “di interpretazione autentica” che ha effetti retroattivi. Secondo il testo (che riportiamo qui in nota [2]), la cartella di pagamento non contestata si prescrive sempre in 10 anni a prescindere dal tipo di importo richiesto. Questo per i ruoli fino al 31 dicembre 2017; invece per quelli a partire dal 1° gennaio 2018 varrà di nuovo la sentenza delle Sezioni Unite e quindi la prescrizione torna ad essere quella tipica di ciascun tributo. Con buona pace di quanto hanno detto le Sezioni Unite della Cassazione.

Qual è l’incredibile conseguenza di tale disposizione? Che chi riteneva di essere ormai libero dai debiti per intervenuta prescrizione – e magari proprio per questo non ha presentato domanda di rottamazione – si troverà invece di nuovo lo spettro del pignoramento. Né ci sarà per lui la possibilità di chiedere la rimessione in termini nell’istanza di definizione agevolata dei ruoli, essendo ormai scaduti i termini. Insomma, il Governo vuol far tornare debitori migliaia di italiani.

note

[1] Cass. S.U. sent. n. 23395/16.

[2] Alla pag. 22 della bozza della finanziaria c’è testualmente scritto: «6. Gli articoli 49 e 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, si interpretano nel senso che il diritto alla riscossione dei carichi affidati all’agente della riscossione si prescrive con il decorso di dieci anni, quando riguardo ad essi è stata notificata e non opposta nei termini la cartella di pagamento ovvero uno degli atti di cui agli articoli 29, comma 1, lettera a), e 30, comma 1, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e all’articolo 9, comma 3-bis, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44.

7. Per i titoli resi esecutivi dal 1° gennaio 2018 il diritto alla riscossione di cui al comma 6 si prescrive con il decorso del termine stabilito dalla legge per la prescrizione di ciascuno dei relativi diritti di credito. …».

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