Assegno ordinario di invalidità e assegno di invalidità civile

Views: 0

 Nell’approfondimento che segue ci soffermeremo su due forme assistenziali in grado di garantire alcuni fondamentali diritti dei cittadini  che spesso vertono in condizioni svantaggiate: Assegno mensile di invalidità civile e Assegno ordinario di invalidità.

Prima di esaminare tali fattispecie, offriremo brevi cenni introduttivi relativi all’art. 38 della nostra Costituzione che rappresenta, senza alcun dubbio, il principio ispiratore dell’argomento trattato.

  Cenni di introduzione

L’articolo 38 della Costituzione Italiana ha riconosciuto ad “ogni cittadino inabile e sprovvisto dei mezzi necessari” il “diritto al mantenimento e all’assistenza sociale”. Una  garanzia che si spinge, nel secondo comma,  a stabilire nei confronti dei lavoratori il “diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria”.

Con il primo comma viene evidenziato come lo Stato si fa carico in prima persona dell’assistenza sociale, cioè di quelle misure che servono a garantire un adeguato tenore di vita anche a chi è titolare di un reddito inferiore ad una certa soglia e non può procurarsi altre entrate, ad esempio perché invalido di guerra o inabile al lavoro per malattia.

Queste misure si sostanziano, tra le altre, in corresponsione di pensioni di invalidità e guerra o in agevolazioni per la fruizione di servizi.

Il secondo comma, del suindicato articolo costituzionale, si occupa, invece,  della previdenza sociale che, a differenza dell’assistenza, concerne i soli lavoratori.

Essa si sostanzia in prestazioni economiche e sanitarie per tutelare il lavoratore, oltre che dai rischi lavorativi di infortuni, invalidità anche da eventi naturali quali la vecchiaia: si tratta quindi di una previdenza sociale obbligatoria, che grava in parte sullo Stato ed in parte sui datori di lavoro, salvo che i lavoratori scelgano di integrare queste misure con forme private di tutela.

Pertanto, lo scopo della previdenza sociale è teso a riconoscere o meglio consentire al soggetto una vita dignitosa.

Nel tempo si sono susseguite numerose disposizioni di legge volte a limitare o condizionare il diritto a queste forme di tutela e tali interventi sono stati ritenuti legittimi per la necessità di contemperare questo diritto con le risorse finanziarie disponibili.

Un’ ulteriore  considerazione risulta necessaria al fine di evidenziare come il principio che ispira l’art.38 della nostra Costi­tuzione non discrimini i soggetti in base alla loro na­zionalità o provenienza, ma, al contrario, comprenda nel concetto di “cittadino inabile” l’individuo presente sul territorio dello Stato senza distinzioni di razza o nazionalità, pur se in ogni caso in presenza di determinati requisiti.

Sul piano concreto tali forme di assistenza hanno as­sunto, nel corso degli anni e per effetto di normative che si sono via via adeguate alle circostanze, natura e agevolazioni sia di tipo economico che di tipo non economico. Alle prime fanno riferimento, per esem­pio, le prestazioni di invalidità civile e quelle di inabi­lità. Alle seconde appartengono tutte quelle agevo­lazioni di tipo fiscale o altre forme di sostegno come l’assistenza sanitaria, i permessi ex L. n.104/92, le quali, seppur non monetizzate per il cittadino, rap­presentano pur sempre un costo per lo Stato.

In particolare, tra le prestazioni di tipo economico figurano l’Asse­gno mensile di invalidità civile e l’Assegno ordinario di invalidità (AOI).

La sostanziale distinzione fra que­sti due tipi di assegno consiste nel fatto che il pri­mo è un assegno slegato dal requisito contributivo o assicurativo e concesso a fronte del solo requisito sanitario ai soggetti che si trovano in uno stato di bi­sogno e, pertanto, con redditi personali al di sotto di determinati limiti, mentre il secondo (AOI) è una prestazione che lega al requisito sanitario anche la sussistenza del requisito contributivo, con un’eviden­te e conseguente differenza di importo e di natura.

Assegno mensile di invalidità civile

L’Assegno mensile di invalidità civile è una prestazio­ne concessa a tutti i cittadini, sia italiani che stranieri, che non hanno o non possono far valere periodi con­tributivi o assicurativi sufficienti ad accedere ad altri tipi di prestazione.

L’art.13, co.1, L. n.118/71, e successive modifiche, ha stabilito che: “Agli invalidi civili di età compresa fra il diciot­tesimo e il sessantaquattresimo anno nei cui con­fronti sia accertata una riduzione della capacità lavorativa, nella misura pari o superiore al 74 per cento, che non svolgono attività lavorativa e per il tempo in cui tale condizione sussiste, è conces­so, a carico dello Stato ed erogato dall’INPS, un assegno mensile di euro 279,471 per tredici men­silità, con le stesse condizioni e modalità previste per l’assegnazione della pensione di cui all’arti­colo 12″.

Si tratta, pertanto, di una prestazione di tipo assi­stenziale, non reversibile, concessa in presenza es­senzialmente di due requisiti ossia la parziale riduzione della capacità lavorativa e lo stato di bisogno economico rappresentato dal possesso di redditi assoggettabili all’Irpef inferio­ri a una determinata soglia stabilita annualmente per legge, il cui limite per il corrente anno 2016 è fissato in € 4.800,38.

Altri requisiti necessari per l’ottenimento della pre­stazione sono il requisito anagrafico, che da gennaio di quest’anno deve essere di età compresa fra i 18 e i 65 anni e sette mesi, oltre alla cittadinanza italiana.

Al compimento del 65° anno di età e sette mesi, l’As­segno di invalidità civile si trasforma in Assegno so­ciale. Possono accedere alla prestazione e alle stes­se condizioni economiche e sanitarie dei cittadini italiani anche i cittadini stranieri comunitari iscritti all’anagrafe del comune di residenza, ai sensi del D.L. n.30/07, e i cittadini extracomunitari legalmente sog­giornanti nel territorio dello Stato italiano, titolari del permesso di soggiorno di almeno un anno, anche se privi del permesso di soggiorno CE di lungo periodo.

Tuttavia, considerato che si tratta di una pre­stazione di tipo assistenziale non derivante da dirit­ti contributivi, risulta obbligatoria per tutti la residenza stabile e abituale sul territorio nazionale e l’assenza di svolgi­mento di attività lavorativa.

Ai fini dell’accertamento della condizione di as­senza di svolgimento di attività lavorativa, non è più necessaria l’iscrizione nelle liste speciali di collocamento, essendo sufficiente che l’interes­sato produca annualmente all’Inps una dichiarazione sostitutiva che attesti lo svolgimen­to o meno di prestazioni lavorative. Ciò è previsto dall’articolo 46 e se­guenti del testo unico di cui al decreto del Presi­dente della Repubblica 28 dicembre 2000, n. 445. Qualora tale con­dizione venga meno, lo stesso è tenuto a darne tempestiva comunicazione all’INPS.

È equiparato al mancato svolgimento di attività la­vorativa anche l’impiego presso cooperative sociali ai sensi della L. n.68/99, successivamente modificata dall’art.1, co.37, L. n.247/07, che regola l’inserimen­to lavorativo temporaneo con finalità formative non­ché la trasformazione, ai sensi del D.L. n.276/03, del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale relativamente ai lavoratori affetti da patologie on­cologiche e, infine, anche lo svolgimento di attività lavorativa, purché produca un reddito non superiore alla soglia di reddito individuale annualmente stabi­lita dalla legge, menzionata prima.

Va specificato che il requisito sanitario deve essere accer­tato dall’apposita commissione medica istituita presso il Centro medico legale dell’Inps territorialmente  competente.

La concessione dell’Assegno mensile di invalidità civi­le si genera obbligatoriamente dal rilascio del certifi­cato medico introduttivo prodotto dal proprio medi­co di base. Una volta ottenuto questo, successivamente, va presentata la domanda esclusivamente on-line e, indipendentemente dal momento in cui il requisito sanitario viene accertato, la prestazione decorre dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda, posto che ovviamente siano soddi­sfatti anche i requisiti amministrativi.

Tuttavia, bisogna precisare che,  se nel corso dell’iter di concessione mutano le condizioni di salute, anche a fronte di un peggioramento, non è possibile presen­tare una nuova domanda finché non si sia comple­tato il corso della prima istanza. A tale vincolo non soggiace la domanda di aggravamento presentata da paziente oncologico.

Nel caso di impugnazione di eventuale diniego da­vanti al giudice ordinario, unica strada possibile di opposizione al mancato riconoscimento da esercita­re entro e non oltre sei mesi dalla comunicazione di reiezione della domanda, l’ipotetica nuova domanda deve attendere che si sia concluso l’iter giudiziario e la sentenza sia passata in giudicato.

Altro aspetto fondamentale sul quale risulta necessario o meglio doveroso soffermarsi riguarda l’incompatibilità dell’assegno mensile di invalidità civile con qualsiasi pensione diretta di invalidità erogata a carico dell’assicurazione generale obbligatoria (AGO) delle gestioni sosti­tutive, esonerative ed esclusive, delle gestioni dei lavoratori autonomi, e delle altre Casse e Fondi di previdenza, compresi quelli dei liberi professioni­sti. Tale incompatibilità si estende, ai sensi della L. 412/1991, anche a tutte le prestazioni pensio­nistiche di invalidità contratte per cause di guer­ra, di lavoro o di servizio e, pertanto, anche con le rendite Inail.

In questo caso il titolare di rendita Inail può esercitare la facoltà di opzione se l’Assegno è più conveniente, senza perderne il diritto, opzione che quindi può esse­re rivista in qualunque momento. L’onere della comu­nicazione all’Inps di eventuale incompatibilità spetta al titolare invalido, anche se tale circostanza si verifica successivamente alla concessione dell’assegno.

Assegno ordinario di invalidità

L’Assegno ordinario di invalidità (AOI), istituito con la L. n.222/84, si basa su presupposti totalmente diversi dall’assegno mensile di invalidità civile, essendo una pre­stazione legata al principio della riduzione della ca­pacità lavorativa superiore ai 2/3 e alla presenza di un certo numero di contributi previdenziali, almeno cinque anni nell’intero arco lavorativo, di cui almeno tre nei cinque anni che precedono la presentazione della domanda. Anche in questo caso si tratta di una prestazione non reversibile, e cioè non trasferibile ai familiari superstiti, sebbene nel caso di decesso del titolare sia possibile per loro richiedere una pensio­ne indiretta.

Quindi possiamo confermare che l’AOI è una prestazio­ne che si rivolge ai lavoratori dipendenti, ai lavo­ratori autonomi e ai lavoratori parasubordinati. Non è prevista, invece, per i dipendenti del pub­blico impiego, per i quali sono state istituite altre forme di assistenza.

Inoltre, a differenza dell’Assegno di invalidità civile, l’AOI non è legato al requisito dell’età, ma vincolato, come det­to, alla sussistenza del requisito sanitario e ammini­strativo.

Per una maggiore chiarezza sul punto si osserva che, un lavoratore che abbia diritto all’AOI dal 1° giugno 2016 deve aver maturato almeno cinque anni di contributi nell’intera sua car­riera lavorativa, di cui almeno tre nel periodo compreso fra il 1° giugno 2011 e il 1° giugno 2016.

Sul merito del requisito sanitario, va chiarito che il concetto della riduzione della capacità lavorati­va di almeno 2/3 non è sovrapponibile al più ge­nerico concetto di invalidità.

Da ciò deriva che le tabelle di riferimento per la valu­tazione medico legale dell’invalidità civile non sono utili ai fini della concessione dell’AOI, poiché è  ne­cessario che la Commissione medica preposta valuti la riduzione della capacità di lavoro del richiedente in relazione a occupazioni confacenti le attitudini specifiche dell’assicurato. Ne consegue che tale cri­terio è strettamente correlato alla particolare situazione dell’individuo e che il giudizio medico le­gale deve tenere presente, oltre alla condizione pu­ramente sanitaria, anche un complesso di elementi relativi alla personalità e alla storia del lavoratore, come sesso, età, livello raggiunto, adattabilità e, non ultimo, l’usura lavorativa in relazione alle attività possibili e non soltanto in relazione al lavoro effetti­vamente prestato.

Per quanto riguarda invece il requisito contributivo, dal calcolo dei periodi utili vanno esclusi i periodi di congedo parentale, il lavoro subordinato eventual­mente prestato all’estero, se non coperto da assicu­razioni in convenzioni internazionali, il servizio milita­re per il periodo eventualmente eccedente il servizio di leva, la malattia superiore ai dodici mesi e i periodi di iscrizione a forme obbligatorie di previdenza che non producano il diritto a pensione. In presenza di tali circostanze, i periodi interessati sono considerati neutri, con l’effetto di dilatare il quinquennio di rife­rimento per il periodo neutro corrispondente.

Come per l’assegno mensile di invalidità civile, anche per l’AOI la prestazione decorre, indipenden­temente dal momento in cui il requisito sanitario vie­ne accertato, dal primo giorno del mese successivo alla presentazione della domanda.

Va fatto notare che l’AOI ha carattere temporaneo e una durata inizialmente triennale, può essere confer­mato solo su domanda dell’interessato, da presentar­si entro sei mesi dalla scadenza naturale della presta­zione e dopo tre conferme consecutive, compreso il primo riconoscimento, l’AOI diviene definitivo.

Ai sensi dell’art.9, co.1, L. n.222/84, l’Ente erogato­re dell’assegno, in questo caso l’Inps, può disporre però in ogni momento un nuovo accertamento, in­dipendentemente sia prima della scadenza naturale dell’assegno che successivamente all’avvenuta con­ferma definitiva. In ogni caso la revisione sanitaria è d’obbligo qualora il titolare dell’AOI abbia prodotto un reddito da lavoro dipendente, autonomo, pro­fessionale o d’impresa superiore a tre volte il tratta­mento minimo, poco più di € 1.500,00 per il corrente anno 2016, nell’anno precedente all’erogazione del­la prestazione.

L’AOI, come si è appena visto, è compatibile con l’attività lavorati­va, e ciò deriva anche dal fatto che la norma argina il requisito sanitario per la concessione a 2/3 della ca­pacità lavorativa, riconoscendo pertanto un possibi­le spazio residuo per svolgere altra attività retribuita.

Non è invece compatibile con il trattamento di disoccupazione la c.d. NASpI. È tuttavia possibile per il lavoratore esercitare la facoltà di opzione per il trattamento più conveniente.

Vale la pena segnalare, però, che se il lavoratore che ha optato per il trattamento di disoccupazio­ne rinuncia alla NASpI e ottiene il ripristino dell’A­OI, tale scelta ha carattere irreversibile e non è più possibile accedere alla trattamento di disoc­cupazione eventualmente residuo non goduto.

Spunti conclusivi

In riferimento a tali forme assistenziali assistiamo ad una trasformazione della concezione mutualistica dell’assistenza sociale. Infatti, tale forma di assistenza in passato era riservata solo ad una circoscritta  categoria di lavoratori o di soggetti assicurati.

Attualmente, invece, ci troviamo di fronte ad una concezione più inclusiva, basata piuttosto sul principio della solidarietà di tutti nei confronti di quegli individui più svantaggiati, con l’obiettivo di costruire uno stato sociale che tuteli la dignità umana e assicuri a tutti i suoi componenti, indipendentemente  dalla loro condizione contributiva e assicurativa, forme di assistenza tali da garantire un sostegno economico e una reale partecipazione alla vita sociale della comunità.

scritto il 17/06/2016 da Studio Cafasso

http://www.cafassoefigli.it/notizie/2456/assegno-ordinario-di-invalidit-e-assegno-di-invalidit-civile

Invalidi civili – Incompatibilità dell’assegno mensile di assistenza

Views: 1

Incompatibilità e cumulabilità dell’assegno mensile d’invalidità civile con altre prestazioni pensionistiche erogate a titolo d’invalidità.

 Hanno diritto all’assegno mensile di assistenza gli invalidi civili a cui sia stata riconosciuta un’infermità fisica o mentale tale da provocare una riduzione della capacità di lavoro, con percentuale pari o superiore al 74% fino al 99%.

L’assegno mensile di invalidità civile è incompatibile con:

  • le pensioni dirette di invalidità erogate a qualsiasi titolo dall’assicurazione generale obbligatoria per la invalidità, vecchiaia e superstiti dei lavoratori (INPS), e da altri enti, ai lavoratori   dipendenti e autonomi (art. 9, Legge 26 febbraio 1982, n. 54 ; art.1, comma 12, Legge 12 giugno 1984, n. 222 ).
  • pensioni dirette di invalidità per causa di guerra, di lavoro (INAIL) o di servizio,  quindi anche con la rendita INAIL (Circolare INAIL, n. 54/93 – art. 3 Legge 407/90 – art. 12, Legge n. 412/91 – Decreto 553/92)
  • indennità di accompagnamento INAIL, INPS e altri Enti

Scelta fra diverse provvidenze economiche opzionabili:
Nel caso di incompatibilità con altre provvidenze economiche, è possibile operare una scelta fra le diverse provvidenze economiche opzionabili: è infatti data facoltà all’interessato di optare per il trattamento economico più favorevole. La facoltà di opzione deve essere esercitata entro trenta giorni dalla notifica del provvedimento del trattamento pensionistico incompatibile (D.M. 553/92).

Solo nel caso di pluriminorazioni, l’assegno è cumulabile con:

  • la pensione dei ciechi assoluti
  • l’indennità di accompagnamento per ciechi assoluti
  • la pensione dei ciechi parziali
  • l’indennità speciale per ciechi parziali
  • la pensione dei sordi civili
  • indennità di comunicazione per sordi civili

Differenza tra assegno mensile per invalidità civile e assegno ordinario di invalidità (IO)

L’assegno mensile per invalidi civili, pur essendo materialmente erogato dall’INPS, non è subordinato alla presenza di requisiti contributivi, trattandosi di una prestazione assistenziale.

Infatti, possono essere considerati invalidi civili tutte le persone, indipendentemente dall’età, e dall’attività lavorativa, in presenza di una qualsiasi menomazione: perdita o anomalia di una struttura o di una funzione, sul piano anatomico, fisiologico, psicologico. La visita medica per l’accertamento dell’invalidità civile è effettuata dalle commissioni mediche dell’ASL.

L’assegno ordinario di invalidità (Categoria IO), invece, pur basandosi sugli stessi requisiti di stato di salute (infermità fisica o mentale tale da provocare una riduzione permanente della capacità di lavoro, non inferiore a due terzi), è subordinato anche alla presenza del seguente requisito: contribuzione pari a 5 anni, di cui almeno 3, versati nei cinque anni precedenti la domanda; essere assicurato presso l’INPS da almeno 5 anni. Si tratta, dunque, di una prestazione previdenziale e la visita per l’accertamento dell’invalidità viene effettuata dalla commissione medica dell’INPS. In altre parole, questo beneficio può essere richiesto soltanto da coloro che svolgono attività lavorativa.

Incompatibilità tra le due provvidenze economiche
Si tratta, dunque, di due provvidenze economiche distinte e incompatibili fra loro. Pertanto, chi percepisce l’assegno mensile di invalidità civile non ha diritto all’assegno ordinario di invalidità (IO), così come chi percepisce l’assegno ordinario di invalidità non ha diritto all’assegno mensile concesso per invalidità civile. Resta salvo il diritto di opzione.
RIFERIMENTI NORMATIVI

  • Legge 26 febbraio 1982, n. 54: Conversione in legge e modifica del Decreto Legge 22.12.1981, n. 791, art. 9: Disposizioni in materia previdenziale (G.U. del 01.03.1982, n. 58)
  • Legge 12 giugno 1984, n. 222: Revisione della disciplina dell’invalidità pensionabile (Pubblicata nella G. U. del 16 Giugno 1984 , n. 165)
  • Legge 29 dicembre 1990, n. 407: Disposizioni diverse per l’attuazione della manovra di finanza pubblica 1991-1993 (G.U. del 31.12.1990, n. 303)
  • Legge 30 dicembre 1991, n. 412: Disposizioni in materia di finanza pubblica (G.U. del 31.12.1991, n. 305)
  • Ministero dell’Interno – Decreto Ministeriale 31 ottobre 1992, n. 553 :Regolamento recante disposizioni per l’accertamento delle condizioni reddituali e degli obblighi di comunicazione da parte dei mutilati ed invalidi civili, dei ciechi civili e dei sordomuti, nonché per l’eventuale revoca delle prestazioni e per la disciplina del diritto di opzione, in attuazione dell’art. 3, comma 2, della legge 29 dicembre 1990, n. 407 (G.U. n. 24 del 30 gennaio 1993)
  • Circolare n. 54 del 9 dicembre 1993Legge 29 dicembre 1990, n. 407, articolo 3 – Decreto Ministeriale n. 553 del 31 ottobre 1992. Incompatibilità dell’assegno mensile erogato dal Ministero dell’interno agli invalidi civili parziali con le prestazioni ed i trattamenti pensionistici di invalidità erogati da Enti e gestioni previdenziali. Facoltà di opzione.

 

di Gabriela Maucci

https://www.superabile.it/cs/superabile/invalidi-civili–incompatibilita-dellassegno-mensile-di-assi.html

 

Quando la polizia postale blocca il computer

Views: 0

Molti utenti di internet si sono trovati alle prese con un “programma maligno” (malware)che ha reso inservibile il proprio computer. Poiché nella schermata compare il logo della polizia postale, si è indotti a credere che siano state proprio le autorità a bloccare il sistema, probabilmente perché in presenza di un reato. Il timore, pertanto, non è legato tanto all’inutilizzabilità del pc, quanto alla paura di essere incorsi in un crimine. In realtà non è così. Vediamo quando e se la polizia postale blocca il computer.

La polizia postale: cos’è

La polizia postale e delle comunicazioni è un corpo specializzato della Polizia di Statoche si occupa di reprimere i reati legati all’utilizzo dei mezzi di comunicazione (internet in primis) e di tutelare, più in generale, la sicurezza e la regolarità dei servizi delle telecomunicazioni. Gli agenti di questo corpo sono reclutati tra coloro che dimostrano una forte propensione all’utilizzo delle tecnologie e una grande attitudine al mondo dell’informatica, oltre che una seria preparazione.

Tra gli altri, la polizia postale si occupa di combattere i seguenti reati:

  • Pedopornografia: diffusione del materiale pedopornografico attraverso la rete telematica; acquisto e commercializzazione del materiale illecito; detenzione dello stesso. La polizia postale è l’unica delegata all’acquisto simulato di materiale, per scoprire chi si nasconde dietro un sito contenete immagini pedopornografiche.
  • Cyberterrorismo:diffusione di virusmalware o comunque di tutti quei programmi che possono ledere la privacy o creare danni economici; attività di hackeraggio;
  • Download illegale: violazione del diritto di copyright delle opere dell’ingegno attraverso circuiti di condivisione di file (cosiddetti file-sharing) o altri metodi;
  • Truffe sui conti on line: la polizia postale cerca di impedire le truffe che consentono ad estranei di accedere ai conti di home banking (come avviene, ad esempio, con il phishing);
  • Giochi e scommesse on line: monitoraggio della rete al fine di scovare siti dedicati al gioco d’azzardo non autorizzato dal Ministero delle Finanze – Amministrazione autonoma monopoli di Stato

La polizia postale, inoltre, collabora costantemente con le autorità estere al fine di fronteggiare i crimini legati al mondo di internet (cosiddetto cybercrime) che, per loro natura, non hanno confini. Fondamentale, poi, nell’attività di repressione dei reati informatici, la collaborazione con i gestori dei servizi di telecomunicazione, degli Internet Service Provider, dei fornitori di connettività e degli altri operatori della rete.

La polizia postale può bloccare il computer?

Contrariamente a quanto si possa pensare, la polizia postale non può bloccare il computer di un cittadino attraverso l’utilizzo di virus che lo rendano inservibile. Sarebbe un paradosso: la polizia postale combatte proprio la diffusione dei “programmi maligni” (cosiddetti malware) trattandosi di condotta costituente reato (si va dall’accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico al danneggiamento di informazioni, dati e programmi informatici).

Esclusa questa possibilità, va subito detto che la polizia postale, se ritiene che nel corso della sua attività si trovi in presenza di un fatto costituente reato, può procedere direttamente con la perquisizione e l’eventuale sequestro del computer. Secondo il codice di procedura penale,  quando vi è fondato motivo di ritenere che dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato si trovino in un sistema informatico o telematico, ne viene disposta la perquisizione, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione [1]. La perquisizione è disposta con decreto motivato dell’autorità giudiziaria, salvo nei casi di particolare urgenza o di flagranza di reato: in tali circostanze, infatti, gli ufficiali di polizia giudiziaria, adottando misure tecniche dirette ad assicurare la conservazione dei dati originali e ad impedirne l’alterazione, procedono alla perquisizione di sistemi informatici o telematici, quando hanno fondato motivo di ritenere che in questi si trovino occultati dati, informazioni, programmi informatici o tracce comunque pertinenti al reato che possono essere cancellati o dispersi [2]. In questo caso la polizia redige accurato verbale da trasmettere entro quarantotto ore al pubblico ministero competente, il quale avrà a sua volta altre quarantotto ore di tempo per convalidare le operazioni.

Le tecniche di indagine della polizia postale

Accertato che la polizia postale non blocca alcun computer, vediamo brevemente quali tecniche utilizza per svolgere le sue indagini. La polizia postale si avvale di intercettazioni di comunicazioni informatiche e telematiche ; duplicazione delle caselle di posta elettronica utilizzate dall’indagato, in modo da rilevarne il contenuto; perquisizione e successivo eventuale sequestro del materiale (non solo computer, ma anche supporti rigidi come pen drive e compact disc); ispezione volta solamente ad ottenere la masterizzazione delle tracce di reato presenti sul computer. In buona sostanza, quindi, la polizia postale utilizza gli stessi strumenti concessi dall’ordinamento giuridico ad ogni altro corpo di polizia.

note

[1] Art. 247 cod. proc. pen.

[2] Art. 352 cod. proc. pen.

Autore immagine: Pixabay.com

Bollo auto: prescrizione arretrati a tre, cinque o dieci anni?

Views: 5

È sempre caldo il tema della prescrizione degli arretrati del bollo auto: oltre all’incertezza di fondo che ha da sempre caratterizzato l’argomento – un po’ per le alterne decisioni della giurisprudenza, un po’ per le diverse discipline regionali – ora si è aggiunta anche la disposizione inserita nella bozza della legge di bilancio 2018 che vorrebbe portare la prescrizione a 10 anni. Una notizia che, come prevedibile, ha allarmato i contribuenti e fatto gridare allo scandalo: in gioco c’è la violazione delle basilari norme di diritto, visto che il Governo calpesterebbe l’interpretazione più favorevole agli automobilisti fornita, di recente, dalle Sezioni Unite, interpretazione che vorrebbe la scadenza della tassa automobilista sempre in tre anni. Cerchiamo allora di dipanare la matassa e vedere, allo stato attuale, se la prescrizione degli arretrati del bollo auto è di tre, cinque o 10 anni.

 

Bollo auto: la prescrizione è di tre anni

Il punto da cui partire è sempre la legge. La normativa in materia di bollo auto stabilisce che la tassa automobilistica si prescrive in tre anni [1]. Il termine inizia a decorrere dal 1° gennaio dell’anno successivo a quello in cui è dovuto il pagamento. Così il bollo da versare nel 2017 si prescrive il 31 dicembre 2020, con la conseguenza che ogni richiesta di pagamento pervenuta dal 1° gennaio 2021 in poi è illegittima.

Bollo auto: la decadenza è di due anni

Se l’automobilista non versa spontaneamente il bollo auto, la Regione gli invia un avviso di pagamento con la «mora» (nelle Regioni a Statuto speciale la competenza è dell’Agenzia delle Entrate). Se l’inadempimento persiste, la Regione iscrive a ruolo l’importo e delega l’Agente della Riscossione (Agenzia Entrate Riscossione) al recupero coattivo delle somme. Tradotto in termini pratici, significa che arriva la cartella di pagamento e, successivamente, si passa eventualmente al fermo auto e al pignoramento.

La cartella di pagamento deve essere notificata al contribuente entro massimo 2 anni da quando l’ente titolare del credito (Regione o Agenzia Entrate) iscrive a ruolo l’imposta non versata. Se questo termine viene superato e la cartella viene notificata successivamente, il diritto di riscossione si considera «decaduto» e nulla è più dovuto dal contribuente.

Per verificare la data di iscrizione a ruolo dell’imposta basta consultare il dettaglio della cartella esattoriale.

Bollo auto: la prescrizione della cartella di pagamento

A questo punto viene l’incertezza. Il dubbio che si è posto è se, una volta notificata la cartella esattoriale, la prescrizione del bollo resta di tre anni o è più lunga. In buona sostanza, cosa succede se, dopo la notifica della cartella esattoriale, l’Agente della Riscossione resta diversi anni con le braccia conserte e non avvia alcun pignoramento né notifica altri atti? Quando scade la cartella esattoriale del bollo auto? L’incertezza deriva dal fatto che nessuna legge stabilisce i termini di prescrizione dei tributi erariali. Sul punto si sono confrontati diversi orientamenti.

Prescrizione del bollo auto a 10 anni

Un primo orientamento, sposato ovviamente da Equitalia, riteneva che il bollo auto dovesse prescriversi in 10 anni una volta notificata la cartella e non impugnata nei 60 giorni. Questo perché la cartella non contestata, e quindi divenuta definitiva, sarebbe equiparabile a una sentenza e, come tutte le sentenze, avrebbe una prescrizione di 10 anni. Questa tesi è stata condivisa in passato anche dalla Cassazione con un isolato precedente [2].

Prescrizione del bollo auto a 5 anni

Ci sono stati anche giudici [3] che hanno ritenuto che la prescrizione degli arretrati del bollo auto sia di cinque anni e ciò in virtù del fatto che, a norma del codice civile [4], tutti i debiti che vanno pagati almeno una volta all’anno si prescrivono sempre in cinque anni. E non c’è dubbio che il bollo vada pagato tutti gli anni.

Prescrizione del bollo auto a 3 anni

Per risolvere questi dubbi, a fine 2016 è intervenuta finalmente la Cassazione a Sezioni Unite che ha detto: gli arretrati del bollo auto si prescrivono in 3 anni anche dopo la notifica della cartella esattoriale e anche se quest’ultima non viene impugnata nei 60 giorni. Ciò perché la cartella è un atto amministrativo e, anche se diventa definitiva, non può mai essere equiparata a un atto del giudice. Con la conseguenza che la scadenza del bollo è sempre la stessa sia prima che dopo la notifica della cartella di pagamento.

Questa tesi è stata di recente condivisa da numerosi giudici e, da ultimo, dalla Commissione Tributaria Regionale della Sardegna [6].

Bollo auto: prescrizione e riforma

Tutto ciò che abbiamo appena detto è tutt’ora valido. Quindi, al momento, tra tutte le tesi, quella della prescrizione di tre anni del bollo auto è sicuramente quella più certa e accreditata. Non conta il fatto che ogni Regione possa avere delle proprie regole. La prescrizione è uguale in qualsiasi parte d’Italia.

Tuttavia, il Governo vorrebbe inserire una norma di «interpretazione autentica» – e quindi con valore retroattivo, efficace anche per i debiti pregressi – che porterebbe la prescrizione del bollo auto a 10 anni una volta notificata la cartella di pagamento. Almeno per i debiti anteriori al 31 dicembre 2017. Il risultato sarebbe che, chi riteneva di essersi già liberato del tributo per avvenuta prescrizione, ritornerebbe ad essere debitore. Perché ciò possa considerarsi definitivo, però, bisognerà valutare i successivi sviluppi della legge di bilancio 2018.

note

[1] Art. 5, co 51, Dl 953/1982.

[2] Cass. sent. n. 4283/2010 secondo il quale l’assenza di una norma che stabilisca i termini di prescrizione dei tributi erariali renderebbe applicabile il termine ordinario decennale: a sostegno di questa tesi si richiama l’articolo 2946 cod. civ., secondo il quale «salvi i casi in cui la legge dispone diversamente, i diritti si estinguono per prescrizione con il decorso di dieci anni».

[3] Ctp Avellino, sent. n. 267/2017; Ctr Catanzaro sent. n. 173/16.

[4] Art. 2948, n. 4) cod. civ.

[5] Cass. S.U. sent. n. 23397/2016

[6] Ctr Sardegna sent. n. 221/5/2017.

Autore immagine: 123rf com

In arrivo la tassa per comprare frutta e verdure

Views: 6

Dal 1 gennaio 2018 si dovrà pagare una tassa anche sui sacchetti trasparenti dove si infilano frutta e verdure. Multe per i negozi che non si adeguano

Quanto a tasse, nel mondo, non ci invidia davvero nessuno. Qualsiasi cosa si voglia fare in Italia, c’è sempre dietro una qualche tassa o imposta da pagare. È vero, per respirare non si pagano tasse, ciononostante il Fisco ci insegue proprio “fino alla morte”. Ed infatti, è  attualmente all’esame del Senato un disegno di legge sulla disciplina delle attività funerarie, volto all’introduzione della “macabra” tassa sulla morte. Per approfondimenti sul punto leggi: In arrivo la macabra “tassa sulla morte”. Si era pensato addirittura di introdurre una tassa sull’ombra. Non è uno scherzo: avete capito bene, proprio sull’ombra, quella proiettata sul suolo pubblico dalle insegne e dalla cartellonistica di negozi e attività commerciali. Ma le sorprese non sono finite qui. Da gennaio 2018, si dovrà mettere mano al portafoglio anche per pagare i sacchetti della spesa. Attenzione: non quelli disponibili alle casse dei vari supermercati, che il più delle volte vengono già fatti pagare. Stiamo parlando di una cosa diversa e cioè dei sacchetti trasparenti ed ultraleggeri dove si infilano frutta e verdure per poi pesarli, ritirare lo scontrino, incollarlo sul sacchetto e recarsi alla cassa. Si tratta di un nuovo balzello introdotto dal cosiddetto decreto Mezzogiorno [1]

La tassa sui sacchetti ultraleggeri per l’ortofrutta

Dal 1 gennaio 2018 si dovranno pagare i sacchetti trasparenti ed ultraleggeri. La spesa, in concreto, non sarà eccessiva.  I consumatori però saranno comunque costretti a svuotare ulteriormente le proprie tasche per rimpinguare le casse dell’amministrazione finanziaria. Si tratterà di pochi centesimi a sacchetto, l’ipotesi è di 10 centesimi l’uno. Ma considerando che per ogni tipo di frutta e ortaggio occorrerà utilizzare un singolo sacchetto, in quanto i diversi prodotti hanno ovviamente prezzi differenti, si capisce subito quali potenzialità di introito ha il nuovo tributo.  Quindi, se si vuole riempire il frigorifero con mele, pomodori, patate, insalata e carote occorreranno cinque sacchetti e il consumatore pagherà cinque volte. Dunque, anche se si tratta di spiccioli, rimane il fatto che bisognerà mettere mano al portafoglio e poiché si tratta di consumo alimentare la spesa sarà inevitabile. Ognuno di noi, dunque, lascerà qualche euro in più rispetto ad oggi per la propria spesa, con i “migliori ringraziamenti” da parte del Ministro delle Finanze. Ciò in quanto, il ricavato è incassato dal supermercato o dal negozio, ma poi finirà in parte allo Stato sotto forma di Iva e di imposta sul reddito.

La tassa sui sacchetti e gli imprenditori del settore

Rivolgendosi agli imprenditori del settore, la legge che entrerà in vigore tra circa tre mesi precisa che le nuove buste non potranno essere distribuite gratuitamente e il prezzo di vendita dovrà risultare dallo scontrino o dalla fattura di acquisto delle merci. La nuova normativa è molto severa e prevede per il punto-vendita che non si adegui multe che partono da 2.500 euro e arrivano a 100mila nel caso in cui la violazione dovesse riguardare un ingente quantitativo di consumatori.

Addio alle vecchie buste

Per chi fa la spesa sarà vietato, per motivi di igiene, portarsi le buste “da casa” e ben presto le vecchie buste già presenti nei supermercati non potranno essere più utilizzate. Infatti, in accordo con l’Unione Europea, il Ministero dell’Ambiente ha emanato delle direttive secondo le quali dal 1 gennaio 2018 potranno essere utilizzati solamente sacchetti con un contenuto di materiale biodegradabile non inferiore al 40%. Percentuale che salirà fino al 60% nel 2021. Tutto ciò, se visto in un ottica ambientale è lodevole ed encomiabile, ma influirà inevitabilmente  sui costi di produzione dei sacchetti, che aumentando andranno ad incidere negativamente sulle nostre tasche e positivamente per quelle dello Stato.

note

[1] D.l. n. 91 del 20.06.2017 conv. dalla l. n. 123 del 03.08.2017 (in G.U. 12.08.2017 n. 188).

Autore immagine: Pixabay.com

In arrivo la macabra “tassa sulla morte”

Views: 0

«La morte non è male: perché libera l’uomo da tutti i mali» scriveva Giacomo Leopardi. Ebbene, questa consolatoria quanto brutale affermazione sembra oggi essere smentita da un disegno di legge che si trova attualmente all’esame del Senato. È possibile, infatti, che a breve venga introdotta una tassa sulla morte. Nemmeno il nostro decesso, quindi, ci libererà dal male del Fisco! Vediamo insieme in cosa consiste la macabra “tassa sulla morte”.

Tassa sulla morte: il disegno di leggeIn arrivo la macabra “tassa sulla morte”

Il data 10 settembre 2014 è stato presentato il disegno di legge (d.d.l.) sulla “Disciplina delle attività funerarie“, il quale è attualmente all’esame del Senato.  Il provvedimento è stato voluto da alcuni esponenti del Pd e reca la firma principale di Stefano Vaccari. Ma qual è l’obiettivo di questo bizzarro disegno di legge? L’obiettivo, si legge nel documento, è plurimo: si tratta di definire i soggetti che possono operare nel settore; si intende, inoltre, “moralizzare” l’ambito funebre e cimiteriale; combattere l’evasione fiscale; riordinare il sistema cimiteriale; regolamentare le installazioni di crematori; individuare linee di azione in grado di apportare un profondo e rapido cambiamento del settore. Sorge allora spontanea la domanda: come realizzare tutto ciò? Ebbene, la risposta sorprenderà: tassando ogni singola operazione funebre e cimiteriale!

Il cittadino dovrà pagare le tasse anche sulla morte?

Se il disegno di legge dovesse passare l’esame del Senato verrà, quindi, introdotta la macabra “tassa sulla morte”. Tra gli articoli del disegno di legge, infatti, quello che più attira l’attenzione del povero cittadino (tristemente abituato, oramai, a questi ed ad altri “scherzi” da parte del legislatore) riguarda le misure fiscali. Le spese funebri e cimiteriali non saranno più esentate dalla pressione fiscale, come avviene attualmente, ma saranno anch’esse assoggettate a Iva, benché ad aliquota ridotta. Anche su tali spese, pertanto, il cittadino dovrà pagare l’imposta sul valore aggiunto, con aliquota del 10%. Verrà, inoltre, modificato il limite di detrazione dall’Irpef, ampliando la tipologia di spese detraibili e stabilendo una percentuale di detraibilità pari al 50% delle spese, in luogo dell’attuale 100%. A tale ultima previsione farà da contromisura l’introduzione di agevolazioni delle specifiche forme assicurative relative all’ambito funebre. Vi sarà, poi, un elevamento della tassa fissa fino a 30 euro, che verrà annualmente rivalutata secondo gli indici Istat, per ogni operazione cimiteriale. Inoltre, i Comuni dovranno destinare una quota del gettito annuale della Tasi, non inferiore al 20%, alla manutenzione dei cimiteri monumentali: ciò potrebbe comportare il rischio per il cittadino di subire un aggravio delle aliquote delle tasse locali, dovendo il Comune trovare un modo per far fronte a questo nuova e pensate spesa.

Nemmeno la morte ferma il Fisco!

Anche per morire, pertanto, occorre avere i soldi o, meglio, occorre che i familiari superstiti, già affranti dalla perdita di un loro caro, abbiano i soldi. Qual è, dunque, la conclusione cui giunge lo sventurato cittadino che si imbatte nella lettura del bizzarro disegno di legge sulla “Disciplina delle attività funerarie”? La conclusione è la seguente: nemmeno la morte ferma il Fisco!

note

Autore Immagine: Pixabay.com

Tassa rifiuti: come chiedere il rimborso Iva

Views: 1

Le tasse che il contribuente è tenuto a pagare sono sempre più numerose e sempre più assurde. Sicuramente non si può dire che, in merito, al nostro legislatore manchi la fantasia. Ed infatti, presto pagheremo la tassa sui sacchetti della spesa per comprare frutta e verdure (per un approfondimento sul punto leggi: In arrivo la tassa per comprare frutta e verdure). Si è molto discusso della tassa sull’ombra, di quella sul tricolore. Si pensi, inoltre, alla tassa sulla raccolta funghi ed alla tassa sulle paludi. L’elenco di tasse attualmente vigenti o delle quali si discute a proposito della possibile introduzione potrebbe procedere all’infinito o quasi. Tra le più assurde e macabre si pensi anche alla “tassa sulla morte” prevista da un disegno di legge, che attualmente è all’esame del Senato (in proposito leggi: In arrivo la macabra “tassa sulla morte”). Insomma, sebbene nella vita siano poche le certezze su cui possiamo fare affidamento, una di queste è indubbiamente la seguente: il Fisco è un fedele compagno di viaggio che sta sempre al nostro fianco e che non ci abbandona mai, nemmeno nel momento del nostro trapasso a miglior vita! Tuttavia, non sempre le tasse che siamo costretti a pagare sono legittime. Esaminiamo di seguito la cosiddetta “tassa sulle tasse“. Ci si riferisce all’Iva versata sulla tassa rifiuti, dichiarata illegittima sia dalla Corte Costituzionale[1] che dalla Corte di Cassazione ed il cui rimborso sta suscitando tanti disagi al povero contribuente. Ma procediamo con ordine e vediamo perché è illegittima l’applicazione dell’Iva sulla tassa rifiuti e a chi spetta il rimborso.

 

Iva sulla tassa rifiuti: la sentenza della Corte di Cassazione

La Corte di Cassazione ha recentemente emanato una sentenza [2] con la quale ha dichiarato illegittima l’applicazione dell’Iva sulla tassa sui rifiuti. È stato ribadito come il divieto di doppia imposizione del prelievo fiscale costituisca principio fondamentale in tema di diritto tributario. In forza di questo principio è stato confermato il divieto di applicare l’Iva su una tassa: nel caso oggetto della nostra attenzione quella pagata al Comune per lo smaltimento dei rifiuti. Ciò in contrapposizione a quanto da sempre affermato dall’Agenzia delle entrate, secondo cui la “Tariffa igiene ambientale” (Tia) non sarebbe una tassa, bensì una somma addebitata a titolo di pagamento per un servizio reso dal Comune ai cittadini.

I cittadini possono chiedere il rimborso

Nonostante i giudici della Corte Costituzionale e della Corte di Cassazione si siano pronunciati sulla illegittimità dell’applicazione dell’Iva sulla tassa dei rifiuti, sono ancora molti i Comuni che continuano indebitamente ad avanzare una simile richiesta al cittadino. A tale applicazione corrisponde il diritto del cittadino di chiedere il rimborsodell’Iva indebitamente pagata sulla tassa sui rifiuti. In altre parole, in seguito all’illegittimo versamento dell’Iva pari al 10% sulla tassa rifiuti i contribuenti possono presentare domanda al proprio Comune ed ottenerne il rimborso.

Iva sulla tassa rifiuti: conviene chiedere il rimborso?

Sono molti i contribuenti che si domandano a che condizioni e con che modalità presentare la domanda per ottenere il rimborso delle somme indebitamente pagate nel corso degli anni. In proposito, nel mese di marzo del 2017, Federconsumatori ha pubblicato una nota, nella quale viene specificato:

  • Il rimborso Iva può essere richiesto esclusivamente per la Tia illegittimamente corrisposta negli ultimi due anni. Non è, pertanto, possibile chiedere la restituzione dei restanti importi indebitamente corrisposti, i quali sono ormai caduti in prescrizione.
  • Al fine di conseguire il rimborso è stato, poi, specificato che non è sufficiente la mera presentazione della domanda. Il contribuente deve precedentemente aver vinto una causa collettiva, il cui costo potrebbe comportare un sostanziale azzeramento del beneficio: per rendersi conto di ciò basta mettere a confronto le spese per la causa e l’importo del rimborso. A tale antieconomicità nei confronti del cittadino, che potrebbe dissuaderlo dall’avanzare richiesta di rimborso, corrisponde un ingente guadagno dei Comuni (secondo la stima fatta dall’Associazione Nazionale Comuni Italiani, i rimborsi dovuti alle famiglie ammontano a 993 milioni di euro).

 

Iva sulla tassa rifiuti: come chiedere il rimborso?

Il contribuente che comunque voglia  far valere il proprio diritto ad ottenere il rimborso Iva sulla tassa rifiuti deve:

  • accertarsi che l’imposta gli sia stata effettivamente addebitata negli anni precedenti; in altre parole, si deve procedere ad un esame dettagliato degli importi riportati nella fattura;
  • verificare che tutte le somme illegittimamente addebitate siano state effettivamente corrisposte;
  • in caso di esito positivo del riscontro, il cittadino può presentare domanda al Comune per ottenere il rimborso dell’Iva del 10% non dovuta sulla tassa sui rifiuti, allegando le fatture, le comunicazioni e le ricevute che dimostrino l’addebito e il pagamento dell’Iva;

Dove va presentata la domanda di rimborso Iva?

La domanda di rimborso Iva deve essere presentata presso l’Ufficio tributi del proprio Comune oppure presso gli sportelli delle Associazioni a difesa dei consumatori che si siano in precedenza prodigate per ottenere il legittimo rimborso delle somme indebitamente versate a titolo di Iva sulla tassa sui rifiuti.

Quando è riconosciuto il rimborso?

Per ottenere il rimborso Iva sulla tassa rifiuti, come sopra ricordato, non è necessaria la mera presentazione della domanda ma costituisce condizione imprescindibile la pronuncia favorevole del giudice relativa alla causa collettiva.

note

[1] C. Cost., sent. n. 238 del 24.07.2009.

[2] Cass., sent. n. 5078 del 15.03.2016. In senso conforme Cass., sent. n. 3756 del 08.03.2012.

Autore immagine Pixabay.com

Pignoramento stipendio 2018

Views: 2

Anche se le regole per il pignoramento dello stipendio sono fissate in via generale dal codice di procedura civile, la misura concreta entro cui detto pignoramento può avvenire varia di anno in anno. Infatti, con l’ultima riforma del processo esecutivo, il tetto per l’impignorabilità della busta paga depositata in banca e divenuta ormai deposito del conto corrente, muta in relazione a uno specifico parametro determinato annualmente dall’Inps: l’assegno sociale. Ecco perché, ferme restando le stesse regole, è possibile che chi ha subito un pignoramento dello stipendio in un determinato periodo abbia subito una trattenuta superiore rispetto invece ad altre persone. Detto ciò procediamo con ordine e vediamo, al momento, quali sono le regole per il pignoramento dello stipendio per il 2018.

Pignoramento della busta paga in azienda

Il pignoramento della busta paga, eseguito presso l’azienda, non cambia mai ed è sempre pari allo stesso importo (variabile solo in base allo stipendio). Dopo la notifica dell’atto di pignoramento, che va inviata sia al dipendente che al datore, quest’ultimo trattiene, dal salario mensile, le somme che l’ufficiale giudiziario ha intimato di non versare al dipendente. Il lavoratore riceve quindi lo stipendio già al netto della trattenuta.

Il pignoramento dello stipendio 2018 in azienda è diverso a seconda che si tratti di pignoramenti eseguiti da soggetti privati o dall’Agente della riscossione.

Pignoramento stipendio 2018 fatto da privati

Si prende a riferimento lo stipendio, comprensivo di straordinari e di altri compensi erogati al dipendente, esclusi solo i rimborsi spesa:

  • per i crediti alimentari il pignoramento è pari alla misura autorizzata dal giudice dell’esecuzione;
  • per ogni altro credito privato il pignoramento è di massimo un quinto dello stipendio.

Se vi sono più pignoramenti nello stesso tempo, che attengono a più cause creditorie, il pignoramento può avvenire fino a massimo metà dello stipendio. Le tipologie di credito che costituiscono “classi” diverse e che, quindi, possono concorrere tra loro sono: crediti alimentari (ad es. quelli all’ex moglie o ai figli), crediti per tributi (ad esempio quelli dovuti all’Agenzia delle Entrate, all’Esattore, alla Regione), altri crediti (ad esempio banche, fornitori, spese di soccombenza in giudizio, ecc.) Così, ad esempio:

  • se un soggetto subisce il pignoramento da parte di una banca e di una finanziaria, lo stipendio può essere pignorato fino a massimo un quinto (il secondo che agisce viene accodato al primo e si inizia a soddisfare solo dopo che il primo è stato completamente pagato);
  • se un soggetto subisce il pignoramento da parte dell’ex moglie, dell’Agenzia delle Entrate Riscossione e della banca lo stipendio può essere pignorato fino a massimo metà.

Pignoramento stipendio 2018 fatto dall’Agente della Riscossione

Se ad agire è l’Agenzia Entrate Riscossione, il pignoramento dello stipendio 2018 può avvenire nei seguenti limiti:

  • stipendi fino a massimo 2.500 euro: un decimo dello stipendio;
  • stipendi fino a massimo 5.000 euro: un settimo dello stipendio;
  • stipendi oltre 5.000 euro: un quinto dello stipendio.

Pignoramento dello stipendio fatto in banca

Regole diverse valgono nel caso in cui lo stipendio venga pignorato una volta che è stato accreditato dall’azienda sul conto corrente “dedicato” del lavoratore. In tal caso, come detto, la misura del pignoramento dello stipendio varia a seconda dell’ammontare dell’assegno sociale erogato dall’Inps. L’assegno sociale per il 2017 è pari a 448,07 euro, somma che dovrebbe valere anche per il 2018 salvo modifiche dell’ultimo minuto [1]. In particolare:

  • per le quote di stipendio accreditate in banca prima del pignoramento: è pignorabile l’importo eccedente il triplo dell’assegno sociale. Si fa questa operazione: stipendio mensile – (misura massima assegno sociale mensile x 3) = somma pignorabile. Ad esempio: su uno stipendio di 1500 euro vanno detratti 1344,21 euro (ossia 448,07 x 3). Quindi è possibile pignorare solo 155,79 euro;
  • per le quote di stipendio accreditate dall’azienda dopo la data del pignoramento o successivamente vengono pignorati gli stessi importi che abbiamo visto nel caso della trattenuta della busta paga da parte del datore di lavoro ossia:
  1. per i crediti alimentari, nella misura autorizzata dal presidente del tribunale o dal giudice delegato;
  2. per ogni altro credito nel limite di 1/5;
  3. per il pignoramento in concorso di più cause creditorie (alimenti, tributi, altre cause) fino alla metà dello stipendio.

note

[1] L’assegno sociale per l’anno 2017 (invariato rispetto al 2106) è pari a 5.824,91 euro annui (ossia 448,07 euro mensili per 13 mensilità) (Circolare INPS 17 gennaio 2017 n. 8).

Autore immagine: 123rf com

Facebook2k
585
X (Twitter)5k
Visit Us
Follow Me