Assegno d’invalidità, quanto spetta?

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L’assegno ordinario d’invalidità spetta alla generalità degli iscritti alle gestioni Inps: ad esempio, spetta a chi è iscritto al fondo pensione lavoratori dipendenti, artigiani, commercianti, gestione separata.

Perché si possa ottenere l’assegno ordinario d’invalidità, nel dettaglio, è necessario possedere:

  • almeno 5 anni di contributi;
  • almeno 3 anni di contributi versati nell’ultimo quinquennio;
  • un’invalidità superiore ai 2/3, ossia la riduzione della capacità lavorativa a meno di 1/3.

Per sapere quanto spetta, bisogna considerare che l’assegno d’invalidità è calcolato allo stesso modo della generalità delle pensioni dirette, cioè:

  • col sistema retributivo sino al 31 dicembre 2011 (che si basa sulla media degli ultimi stipendi), poi contributivo (questo sistema si basa invece sulla contribuzione accreditata e sull’età pensionabile), per chi possiede almeno 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995;
  • col sistema retributivo sino al 31 dicembre 1995, poi contributivo, per chi possiede meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995: si tratta del cosiddetto sistema misto;
  • col sistema integralmente contributivo per chi non possiede contributi versati alla data del 31 dicembre 1995.

Riduzioni dell’assegno d’invalidità

L’assegno ordinario d’invalidità è compatibile con i redditi da lavoro, ma limitatamente. Per i titolari di assegno di invalidità, difatti, la legge prevede una riduzione dell’assegnose il titolare continua a lavorare e supera un determinato limite di reddito. In particolare:

  • se il reddito supera 4 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 25%: in pratica, se il reddito supera 26.098,28 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 501,89 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 4), l’assegno d’invalidità è ridotto di ¼;
  • se il reddito supera 5 volte il trattamento minimo annuo l’assegno d’invalidità si riduce del 50%: in pratica, se il reddito supera 32.622,85 euro annui (che corrispondono al trattamento mensile, 501,89 euro, moltiplicato per 13 mensilità e per 5), l’assegno d’invalidità viene dimezzato.

Il trattamento derivante dal cumulo dei redditi con l’assegno di invalidità ridotto, in ogni caso, non può essere comunque inferiore a quello che spetterebbe qualora il reddito risultasse pari al limite massimo della fascia immediatamente precedente a quella nella quale il reddito posseduto si colloca.

Seconda riduzione dell’assegno d’invalidità

Tuttavia, se l’assegno già ridotto resta lo stesso superiore al trattamento minimo, cioè supera 501,89 euro mensili,  può subire un secondo taglio, in questo caso una trattenuta. L’applicabilità di questa riduzione dipende dall’anzianità contributiva dell’interessato:

  • con almeno 40 anni di contributi non deve essere applicata alcuna trattenuta aggiuntiva: questo sarebbe il Suo caso;
  • con meno di 40 anni di contributi scatta la seconda trattenuta, che varia a seconda che il reddito provenga da lavoro dipendente o autonomo:

o             relativamente al lavoro dipendente, la trattenuta è pari al 50% della quota di assegno che eccede il trattamento minimo, entro comunque l’importo dei redditi da lavoro percepiti (articolo 10, Dlgs 503/1992;

o             relativamente al lavoro autonomo, invece, la trattenuta è pari al 30% della quota eccedente il trattamento minimo, ma non può essere superiore al 30% del reddito prodotto (articolo 72 della legge 388/2000).

Questa seconda riduzione non può essere applicata se:

  • l’ulteriore reddito conseguito è inferiore al trattamento minimo;
  • il lavoratore è impiegato in contratti a termine di durata inferiore a 50 giornate nell’anno solare;
  • il reddito conseguito deriva da attività socialmente utili svolte nell’ambito di programmi di reinserimento degli anziani promossi da enti locali ed altre istituzioni pubbliche e private.

Trasformazione dell’assegno d’invalidità in pensione di vecchiaia

Al compimento dell’età pensionabile, cioè quando l’assegno viene trasformato d’ufficio in pensione di vecchiaia, queste riduzioni non scattano più, in quanto la prestazione di vecchiaia è compatibile pienamente con lo svolgimento di attività lavorativa. In caso di trasformazione dell’assegno in pensione di vecchiaia la pensione è dunque cumulabile con i redditi da lavoro.

L’assegno viene trasformato automaticamente in pensione di vecchiaia al compimento di 66 anni e 7 mesi di età, se si possiedono almeno 20 anni di contributi; il requisito di età dovrebbe aumentare a 67 anni nel 2019, poi a 67 anni e 3 mesi nel 2021, e dovrebbe continuare ad aumentare di 3 mesi ogni biennio.

L’interessato potrebbe comunque chiedere la pensione di vecchiaia anticipata al maturare del requisito di 60 anni e 7 mesi di età, se l’invalidità riconosciuta è almeno pari all’80%: dovrebbe però sottoporsi a una nuova visita da parte di un’apposita commissione medica Inps, in quanto è necessario che sia accertato il possesso dell’invalidità pensionabile (i cui parametri differiscono da quelli dell’invalidità civile [1]) in misura almeno pari all’80%.

La pensione di vecchiaia anticipata viene liquidata dopo 12 mesi dal perfezionamento dei requisiti.

Una volta liquidata la pensione, che si tratti di quella anticipata o di quella di vecchiaia ordinaria, non sarà più applicata alcuna riduzione.

note

[1] L. 222/1984.

Chi chiamo se un cane disturba perché abbaia?

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Se il cane del vicino disturba, perché abbaia durante tutte le ore del giorno, non è di certo competente l’Asl la quale, tutt’al più, potrebbe intervenire nel caso di aree rese insalubri dagli escrementi degli animali. Questo potrebbe essere, ad esempio, il caso di un canile o di un recinto di animali che non viene pulito per come dovrebbe, rendendo l’aria maleodorante e nociva.

Competente a intervenire nel caso del cane del vicino che abbaia non è neanche l’amministratore di condominio, il quale non può gestire le liti personali tra condomini (è il caso, per esempio, delle infiltrazioni d’acqua). Egli può solo far rispettare il regolamento di condominio e quest’ultimo, con la recente riforma, non può più impedire ai proprietari di detenere animali in casa.

Neanche il sindaco può avere poteri in merito alla gestione delle liti tra condomini, anche se il rumore può risultare considerevole e dar fastidio, ad esempio, all’intero quartiere.

Solo nel caso in cui i latrati del cane, per la loro possibilità di diffusione, dovessero dare disturbo a un numero “indeterminabile” di persone, si potrebbe ricorrere alla querela da depositare presso i Carabinieri o presso la Procura della Repubblica, e quindi attivando un procedimento penale. È necessario, tuttavia, per poter procedere in tal senso, che venga disturbato il riposo delle persone e la quiete pubblica, non quindi quella di un solo proprietario. Inoltre, per presentare la querela, non è necessario raccogliere le firme dei vicini di casa, potendosi attivare anche uno solo di essi, quando tutti gli altri preferiscano astenersi dal farlo. E ciò perché le autorità valuteranno la capacità dei rumori, derivanti dall’abbaiare del cane, di irradiarsi intorno all’abitazione del padrone, dando fastidio a tutto il vicinato, a prescindere dalle lamentele dei proprietari di immobili.

Se ti preoccupa presentare la querela perché ritieni di non essere certo che sussistano gli estremi del reato – ossia il disturbo della quiete di un numero indeterminato di persone – non devi temere una controquerela per calunnia: quest’ultima, infatti, scatterebbe solo se tu denunciassi un fatto falso, consapevole che la verità è un’altra.

Viceversa, se gli estremi del reato non sussistono, l’unica tutela che potrai azionare è quella civile del risarcimento del danno. Dovrai, a tal fine, andare da un avvocato che provveda, inizialmente, a inviare una lettera di diffida per tentare una composizione bonaria della lite. Potresti tentare, prima di andare in causa, un tentativo di conciliazione presso un organismo di mediazione, che potrebbe risolvere il problema senza dover andare dinanzi al giudice.

Come dimostrare il fatto? In questi casi, il giudice dispone, di norma, una perizia fonometrica, ma recenti interventi giurisprudenziali consentono di raggiungere la prova anche attraverso semplici testimoni.

Come dimostrare il danno? Per quanto invece attiene alla prova del danno che hai subito per via dei continui latrati, alcune sentenze recenti ti dispensano da questo onere della prova, ritenendo che esso sia dovuto a prescindere da qualsiasi dimostrazione di pregiudizio concreto (gli avvocati, per esprimere questo concetto, dicono che “il danno è in re ipsa”). È chiaro, però, che se il tuo caso è particolare e ritieni di aver subito un pregiudizio superiore alla media (per esempio, sei un cardiopatico o soffri di insonnia e se vieni svegliato poi non riesci più ad addormentarti) dovrai dare prova di tali ulteriori pregiudizi.

Si possono fotografare le vetrine dei negozi?

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Scattare foto, con il cellulare o altro mezzo, in un ristorante, un bar o un negozio integra reato; non però se la foto viene scattata alla vetrina.

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Un negozio ha messo in vetrina un capo di abbigliamento che ti piace: lo vorresti far vedere alle tue amiche in modo da avere il loro consiglio e decidere se comprarlo o meno. Così prendi il cellulare e ti posizioni in modo da scattare una bella foto. L’immagine, peraltro, ti servirà anche per confrontare il vestito e il prezzo praticato dal commerciante con gli altri negozi che hai intenzione di perlustrare in giornata, in modo da fare una scelta assennata. Senonché dall’emporio esce un tale con la faccia seccata che ti blocca: «È vietato fotografare la vetrina del negozio» ti dice. La cosa ti sembra però assurda. A te sembra proprio il contrario: ciò che è esposto al pubblico non può essere sottoposto a restrizioni o a privacy visto che è già alla mercé di tutti, al pari delle facciate dei palazzi. Sempre col cellulare in mano, passi dall’app delle foto al browser di internet e cerchi su Google: si possono fotografare le vetrine dei negozi? Il motore di ricerca ti ha così portato a questo articolo. Nel volerti dare una risposta pratica in tempi brevi e con semplicità, cerchiamo di vedere cosa prevede la legge in proposito. Il muro perimetrale di un edificio è infatti esposto al pubblico e non può certo essere coperto dalla privacy proprio perché fa parte del contesto urbano e da esso è ineliminabile. Sarebbe assurdo fare una foto al centro storico di una città eliminando però tutti gli edifici privati. Chiaramente la foto non potrà contenere riferimenti a persone o alla loro vita privata; si immagini il caso di un condomino che, in quel momento, si trova affacciato dal balcone in pigiama.

La questione se sia possibile fotografare le vetrine dei negozi può essere affrontata non solo sotto il profilo della tutela della riservatezza – tutela che, come abbiamo appena visto, non può essere invocata dal commerciante – ma anche dal punto di vista del diritto d’autore. La creazione di una vetrina è spesso una composizione artistica, creata da tecnici specializzati in allestimento dei negozi, marketing e comunicazione al pubblico. Anche in questo caso, però, la legge non prevede alcuna tutela per le vetrine e, quindi, non c’è alcun divieto di fotografarle.

L’unico caso in cui fotografare una vetrina può essere vietato è quando l’immagine viene utilizzata per scopi illeciti come nel caso di concorrenza sleale: si pensi al rivale del negozio accanto che tenta di copiare la vetrina altrui o a chi pubblica lo scatto sul proprio sito internet di e-commerce facendo credere che si tratti del proprio punto vendita.

Diverso è il discorso in cui la fotografia viene scattata all’interno del negozio. Qui siamo già nell’ambito della proprietà privata e il titolare è ben libero di imporre le proprie regole cui i clienti dovranno attenersi. Secondo la Cassazione, scattare foto a una persona all’interno di un negozio integra reato [1].

Il dubbio potrebbe porsi, infine, per un centro commerciale chiuso. La struttura è privata, ma all’interno di essa, vi sono le vetrine. A dover imporre il divieto di fotografare i negozi è quindi non già il commerciante, ma il titolare del centro commerciale, imponendo appositi divieti con cartelli ben in mostra.

note

[1] Cass. sent. n. 10444/2005.

Cartelle esattoriali: il Governo resuscita i debiti estinti

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Sembra un incubo quello che sta per abbattersi su gran parte dei contribuenti e, in particolar modo, su quelli che hanno ricevuto, negli anni passati, almeno una cartella esattoriale di Equitalia. Nella bozza della legge di bilancio, in via di approvazione, è contenuta una norma volta a resuscitare tutti i debiti con l’Agente della Riscossione benché ormai prescritti e, quindi, estinti. In buona sostanza, la nuova disposizione ridefinisce, in via retroattiva, la prescrizione di tutte le cartelle di pagamento, elevandola sempre a dieci anni, anche per i tributi che, per legge, hanno un termine di scadenza più breve. In questo modo i termini di prescrizione delle cartelle relative a multe stradali, Imu, Tasi, bollo auto, contributi Inps e Inail, imposta sui rifiuti vengono tutti raddoppiati (per il bollo auto il termine è addirittura triplicato). Il tutto per concedere l’ulteriore privilegio al nuovo esattore in fase di riscossione: pignoramenti, ipoteche e fermi auto potranno estendersi anche ai debiti che ormai i contribuenti avevano ritenuto morti e sepolti. Il paradosso è che, se la norma non verrà modificata, chi non ha fatto richiesta di rottamazione delle vecchie cartelle perché le riteneva ormai prescritte, e quindi non dovute, si vedrà ora pignorare ugualmente la casa, lo stipendio o la pensione posto che quel debito verrà automaticamente resuscitato. Cerchiamo di capire meglio cosa sta succedendo e perché la disposizione è da considerare un vero e proprio attacco alla democrazia.

Chi credeva di non dover più nulla allo Stato si sbagliava…

Per diversi anni, Equitalia ha sostenuto, nelle proprie difese in tribunale, una tesi ritenuta però errata da gran parte dei giudici. Secondo l’ex esattore, le cartelle di pagamento, se non contestate nei 60 giorni dalla notifica, sarebbero da considerarsi al pari di sentenze definitive. Ebbene, per le sentenze «passate in giudicato» (questo il termine tecnico) la prescrizione è sempre di 10 anni; quindi tale sarebbe anche la prescrizione per le cartelle non impugnate. In verità la Cassazione, da ultimo con una sentenza delle Sezioni Unite di novembre scorso [1], ha detto l’esatto contrario: le cartelle, anche se non più contestabili (per decorso dei 60 giorni), restano atti amministrativi e la prescrizione è quella tipica del tributo stabilita dalla legge speciale. Ad esempio, per le cartelle del bollo auto la prescrizione è di 3 anni, quelle per Imu, Tasi, multe stradali, contributi Inps e Inail di 5 anni; Iva e Irpef di 10 anni.

Ora però nella legge di Bilancio è stata inserita una norma “di interpretazione autentica” che ha effetti retroattivi. Secondo il testo (che riportiamo qui in nota [2]), la cartella di pagamento non contestata si prescrive sempre in 10 anni a prescindere dal tipo di importo richiesto. Questo per i ruoli fino al 31 dicembre 2017; invece per quelli a partire dal 1° gennaio 2018 varrà di nuovo la sentenza delle Sezioni Unite e quindi la prescrizione torna ad essere quella tipica di ciascun tributo. Con buona pace di quanto hanno detto le Sezioni Unite della Cassazione.

Qual è l’incredibile conseguenza di tale disposizione? Che chi riteneva di essere ormai libero dai debiti per intervenuta prescrizione – e magari proprio per questo non ha presentato domanda di rottamazione – si troverà invece di nuovo lo spettro del pignoramento. Né ci sarà per lui la possibilità di chiedere la rimessione in termini nell’istanza di definizione agevolata dei ruoli, essendo ormai scaduti i termini. Insomma, il Governo vuol far tornare debitori migliaia di italiani.

note

[1] Cass. S.U. sent. n. 23395/16.

[2] Alla pag. 22 della bozza della finanziaria c’è testualmente scritto: «6. Gli articoli 49 e 50 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 602, si interpretano nel senso che il diritto alla riscossione dei carichi affidati all’agente della riscossione si prescrive con il decorso di dieci anni, quando riguardo ad essi è stata notificata e non opposta nei termini la cartella di pagamento ovvero uno degli atti di cui agli articoli 29, comma 1, lettera a), e 30, comma 1, del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, e all’articolo 9, comma 3-bis, del decreto legge 2 marzo 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla legge 26 aprile 2012, n. 44.

7. Per i titoli resi esecutivi dal 1° gennaio 2018 il diritto alla riscossione di cui al comma 6 si prescrive con il decorso del termine stabilito dalla legge per la prescrizione di ciascuno dei relativi diritti di credito. …».

Telecamera privata: c’è bisogno di autorizzazioni?

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Non c’è bisogno di autorizzazioni della polizia per le telecamere domestiche se non riprendono anche spazi pubblici.

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Se hai paura che i ladri possano entrare in casa, che il vicino possa compiere atti di vandalismo sul tuo pianerottolo o più semplicemente che qualche curioso possa avvicinarsi alla tua porta di casa per origliare, sei libero di installare una o più telecamere di videosorveglianza sul pianerottolo, eventualmente acquistando il prodotto su internet e installandolo da solo oppure affidandoti a una delle tante società specializzate del settore. La buona notizia è che per la telecamera privata non c’è bisogno di autorizzazioni: né da parte della polizia, né dell’assemblea di condominio. È quanto chiarito dal Garante della Privacy con un recente parere [1].

L’Autorità Garante, ribadendo quanto già espresso in passato, afferma che il privato che desidera installare un impianto domestico di videosorveglianza non deve rispettare tutte le formalità previste dal codice privacy ma deve solo evitare di riprendere le zone soggette a pubblico passaggio. In questo caso scattano tutte le limitazioni previste dalla legge anche in materia di conservazione dei dati e informazione all’utenza. Così, ad esempio, se la telecamera di videosorveglianza viene installata sul pianerottolo dell’appartamento è necessario evitare che, nel raggio di azione dell’inquadratura possano finire anche gli spazi prospicienti le altre abitazioni, in modo da non riprendere i vicini che entrano o escono dalle proprie case; se la telecamera di videosorveglianza viene fissata sul muro esterno del palazzo o della villetta è opportuno fare in modo di non riprendere la strada comunale o gli altri spazi aperti al pubblico. Quand’anche non si possa fare a meno di far cadere, nell’occhio della telecamera, eventuali altri soggetti, bisognerà fare in modo di impedire il loro riconoscimento, limitando il raggio della ripresa alle sole scarpe.

Rispettate tali condizioni, l’installazione della telecamera privata è libera anche se questa è strutturata in modo tale da registrare le immagini catturate.

Se l’installazione di un impianto viene effettuato da privati «per fini esclusivamente personali, la disciplina del codice della privacy non trova quindi applicazione qualora i dati non siano comunicati sistematicamente a terzi ovvero diffusi, risultando comunque necessaria l’adozione di cautele a tutela dei terzi». In pratica il privato che decide di installare telecamere, con o senza registrazione delle immagini, non ha alcun particolare obbligo di richiedere autorizzazioni, né al Comune né al condominio. L’assemblea, in particolare, non può impedire l’uso delle parti comuni dell’edificio se ciò non impedisce agli altri condomini di farne pari uso.

L’unica condizione di cui il Garante raccomanda il massimo rispetto è che la telecamera non riprenda spazi pubblici perché in tal caso sarà necessario procedere all’oscuramento delle immagini oppure alla modifica dell’angolo visuale delle telecamere. Diversamente, conclude il parere centrale, scatteranno tutti gli obblighi previsti dal codice privacy configurandosi un trattamento di dati per finalità diverse da quelle esclusivamente personali.

note

[1] Garante privacy, parere n. drep/ac/113990 del 7.03.2017.

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Multe autovelox: dal 1° agosto potrebbero essere nulle

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Il Ministero dei trasporti, con parere, ha confermato che dal 1° agosto 2017 le regole per effettuare la taratura degli autovelox sono diverse, per cui occorre verificare se gli apparecchi sono stati tarati nel rispetto delle prescrizioni
autovelox multe contravvenzioni

di Valeria Zeppilli – Con decreto del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti numero 282 del 13 giugno 2017 il sistema di taratura e di impiego dei misuratori elettronici della velocità ha subito alcune modifiche, operative dal 1° agosto 2017, che, sebbene in generale non abbiano cambiato di molto la prassi precedente, su un particolare aspetto stanno iniziando a destare alcune perplessità, tali da mettere in discussione alcune delle più recenti multe elevate per eccesso di velocità.

Autovelox: le nuove regole sulla taratura degli apparecchi

In particolare, con riferimento al campo di velocità nel quale vengono eseguiti i test di taratura periodica degli autovelox utilizzati dalle pattuglie mobili, le velocità che i veicoli utilizzati per le misurazioni di prova devono raggiungere nei passaggi richiesti (da 50 a 100) sono comprese tra i 30km/h e i 230 km/h.

Sono velocità molto più elevate rispetto al passato, quando il loro raggiungimento non era tassativo e i test arrivavano più o meno a 200 km/h.

Il parere richiesto al MIT

Il dubbio che tale prassi sia proseguita anche dopo il 1° agosto deriva da un quesito inviato al Ministero delle infrastrutture e dei trasporti dall’Unione lombarda dei Comuni di Basiano e Masate, al quale il MIT ha risposto con il parere n. 6169 dell’11 ottobre 2017 (qui sotto allegato) ribadendo che, ai fini del rilascio del certificato periodico di corretta taratura, gli strumenti mobili per il controllo della velocità dei veicoli devono essere verificati annualmente con mezzi che raggiungono la velocità di 230 km/h.

Chi ha ricevuto una multa con autovelox dal 1° agosto cosa può fare?

Pertanto, chi ha ricevuto una multa per eccesso di velocità rilevato con un autoveloxsottoposto a controllo periodico di taratura successivo al 31 luglio 2017, potrà decidere di verificare che effettivamente il test necessario per il certificato sia stato eseguito nel rispetto delle prescritte velocità, rivolgendosi al corpo di polizia competente.

Si sottolinea, però, che tale verifica non sempre è agevole, posto che il certificato di taratura generalmente non specifica la velocità alla quale sono state effettivamente eseguite le prove.

Parere MIT 11 ottobre 2017 

Lecita la telecamera puntata su strada a tutela della sicurezza delle case

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La Corte di Giustizia dice sì alla compressione della privacy dei passanti se c’è un interesse alla protezione di beni come la vita della famiglia, la salute e la proprietà.

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Regole sulla privacy riviste da parte della Corte di Giustizia Europea. In una sentenza pubblicata poche ore fa [1], i giudici di Lussemburgo hanno detto che il proprietario di casa può ben puntare una telecamera sul suolo pubblico, in direzione di una strada dove i passanti circolano quotidianamente, anche senza il consenso degli interessati: a condizione che, a monte di ciò, vi sia l’esigenza di proteggere valori come la salute, la vita propria e dei familiari, ma anche la proprietà privata.

In questi casi, posto il peso che hanno detti beni, è lecito il trattamento di dati personali di soggetti terzi anche se questi non abbiano mai fornito alcuna autorizzazione.

Videosorveglianza senza limiti

La direttiva sulla tutela dei dati personali [2] permette, in linea di principio, di trattare dati di tal genere solo se l’interessato ha dato il proprio consenso. Tale direttiva non si applica però ai trattamenti aventi ad oggetto la pubblica sicurezza, la difesa, la sicurezza dello Stato e le attività dello Stato in materia di diritto penale. Allo stesso modo, non si applicano ai trattamenti di dati personali effettuati da una persona fisica per l’esercizio di attività a carattere esclusivamente personale o domestico: tipico esempio è la telecamera puntata sul proprio garage o sulla porta del proprio appartamento per prevenire il rischio di ladri.

La sentenza però precisa che la videosorveglianza che si estende allo spazio pubblico, quella cioè installata dal privato e diretta al di fuori della sua sfera privata, non si considera un’attività esclusivamente personale o domestica. Ciò, tuttavia, che in astratto è illegittimo, può essere considerato lecito se, secondo il giudice nazionale, nel caso concreto, vi sia un legittimo interesse del responsabile del trattamento alla protezione dei propri beni come la salute, la vita propria o della sua famiglia, la proprietà privata. In tali casi, il trattamento di dati personali può essere effettuato senza il consenso dell’interessato, ma solo se ciò è strettamente necessario alla realizzazione dell’interesse del responsabile del trattamento.

La Corte poi precisa che, ricorrendo tali condizioni, le persone non devono necessariamente essere informate del trattamento dei loro dati, se tale informazione si rivela impossibile o implica sforzi sproporzionati. Ben potrebbe, allora, l’interessato, posizionare un cartello su strada per indicare che la zona è videosorvegliata.

Gli Stati membri possono, comunque, limitare la portata degli obblighi e dei diritti previsti dalla direttiva, quando una siffatta limitazione è necessaria per salvaguardare la prevenzione, la ricerca, l’accertamento e il perseguimento di infrazioni penali o la tutela dei diritti e delle libertà altrui.

note

[1] C. Giust. UE causa C-212/13 dell’11.12.2014.

[2] Direttiva sulla tutela dei dati personali n. 95/46/CE del 24.10.1995.

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Consulenza legale: la può dare chi non è avvocato?

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Quando gli avvocati hanno l’esclusiva

La legge impone l’iscrizione all’albo degli avvocati solo quando è necessario agire in giudizio, ossia fare una causa. Dinanzi al tribunale e, per le cause superiori a 1.100 euro anche davanti al giudice di pace, il cittadino non può né difendersi da solo, né ricorrere all’ausilio di professionisti che non siano avvocati abilitati (quindi, tanto per fare un esempio, non ci si può far difendere da un commercialista anche se la pratica implica nozioni di diritto commerciale o fiscale). Oggi l’avvocato, per essere tale, non deve solo aver superato l’esame di abilitazione all’esito del periodo di tirocinio, ma deve anche essere iscritto all’albo e alla Cassa forense, nonché avere una propria partita Iva .

L’avvocato ha quindi l’esclusiva su tutte le prestazioni di carattere «giudiziario», ossia quelle che implicano la difesa in giudizio e quelle a ciò collegate come, ad esempio:

  • la redazione degli atti di causa: un praticante non può redigere la citazione, farsi pagare, e poi lasciare la successiva fase della difesa in udienza a un collega abilitato;
  • l’esecuzione forzata e i pignoramenti;
  • l’assistenza dinanzi all’organismo di mediazione nelle ipotesi in cui la mediazione è obbligatoria. In tal caso infatti si tratta di una attività propedeutica alla causa e, quindi, collegata ad essa.

Quando gli avvocati non hanno l’esclusiva

Per tutte le altre attività gli avvocati non hanno “l’esclusiva” benché si tratti spesso di questioni che solo chi è professionista da diversi anni è in grado di risolvere. Ciò però non toglie che un commercialista, un ingegnere, un sindacalista o un idraulico che ne sappia quanto un avvocato non possa fornire un parere legale. Attenzione però: quando l’attività viene fornita a pagamento, chi fornisce la consulenza si assume anche la responsabilità di un eventuale errore e, quindi, sarà tenuto a risarcire il danno al cliente cui abbia consigliato qualcosa di sbagliato (ad esempio, facendo prescrivere un diritto al risarcimento del danno).

Tanto per fare qualche esempio, ecco le attività che possono essere compiute da chi non è avvocato:

  • consulenze e pareri legali, purché non finalizzati alla successiva difesa in giudizio;
  • redazione di contratti;
  • diffide, contestazioni e messa in mora;
  • risposta a lettere di diffida, contestazioni e messa in mora;
  • querele e denunce;
  • redazione di accordi e transazioni;
  • conciliazioni laddove la presenza dell’avvocato non è richiesta obbligatoriamente dalla legge;
  • richiesta di risarcimento all’assicurazione per un incidente stradale.

Del resto è principio della Comunità europea quello della libertà della prestazione di servizi, rispetto al quale l’imposizione del requisito dell’iscrizione ad albi e Ordini costituisce l’eccezione da interpretarsi sempre in senso restrittivo. Per cui la regola è che le prestazioni professionali possono essere erogate da chiunque, senza perciò rispondere del reato di «esercizio abusivo della professione», salvo nei casi in cui la legge espressamente attribuisce dette attività esclusivamente agli iscritti all’albo.

In apertura abbiamo fatto riferimento a una sentenza della Cassazione [1]. La Suprema Corte ha detto che la «prestazione di opera intellettuale nell’ambito dell’assistenza legale è riservata agli iscritti agli albi forensi solo nei limiti della rappresentanzaassistenza e difesa delle parti in giudizio e, comunque, della diretta collaborazione con il Giudice nell’ambito del processo. Al di fuori di tali limiti, l’attività di assistenza e consulenza legale non può considerarsi riservata agli iscritti agli albi professionali». Pertanto ha «diritto al compenso colui che la esercita anche in difetto di qualsiasi abilitazione specifica». Nel caso di specie i giudici hanno riconosciuto al segretario di un sindacato il diritto al pagamento della parcella per l’attività stragiudiziale da questi svolta in favore di un lavoratore nei confronti del datore di lavoro.

Il diritto alla parcella per chi non è avvocato

La sentenza appena citata riconosce quindi il diritto al compenso per attività di consulenza paralegale fornita da persona non iscritta all’Ordine degli avvocati.

Secondo il codice civile [2] l’esercizio di talune professioni richiede l’iscrizione in albi appositi, con la conseguenza che lo svolgimento di dette attività da parte di soggetti non iscritti – che può addirittura configurare il reato di esercizio abusivo di professione – non dà diritto a compenso, neanche qualora la prestazione sia stata utile al cliente, o abbia raggiunto il risultato da questi desiderato. Il cliente può anzi chiedere la restituzione di quanto eventualmente versato, mentre il professionista non può richiedere neanche il rimborso delle spese sostenute [3].

Tuttavia, secondo il generale principio di libertà nello svolgimento delle professioni, le attività subordinate all’iscrizione a un albo devono essere tassativamente indicate dalla legge. Sono quindi leciti i contratti aventi ad oggetto attività che, sebbene solitamente svolte da professionisti abilitati, non sono espressamente a questi riservate dalla legge, con la sola conseguenza che, in questo caso, non potranno trovare applicazione le tariffe professionali forensi, vincolanti solo per gli iscritti agli albi.

Per quanto attiene specificamente all’attività di consulenza legale, per giurisprudenza costante si ritiene pienamente legittimo il contratto con cui un soggetto non avvocato si impegni a fornire assistenza stragiudiziale, in quanto l’iscrizione è richiesta dalla legge solo per lo svolgimento dell’attività di rappresentanza e difesa in giudizio e non per altre forme di consulenza [4]. La prestazione d’opera intellettuale nell’àmbito dell’assistenza legale è riservata agli iscritti negli albi forensi solo nei limiti della rappresentanza, assistenza e difesa delle parti in giudizio e comunque di diretta collaborazione con il giudice nell’àmbito del processo mentre, al di fuori di tali limiti, l’attività di assistenza e consulenza legale, sia che si svolga mediante il compimento di atti difensivi o di semplici pareri, sia pure che comporti contatti con l’altra parte e tentativi di componimento stragiudiziale, non può considerarsi riservata agli iscritti all’albo degli avvocati e procuratori legali. Conseguentemente dà diritto al compenso a favore di colui che la esercita.

note

[1] Cass. sent. n. 12840/2006.

[2] Artt. 2229 e 2231 cod. civ.

[3] Cass. sent. n. 3794/1982.

[4] Cass. sent. n. 2233/1955, n. 1474/1968, n. 5906/1987.

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