Carta di identità elettronica: come funziona

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Entro il mese di agosto 2018 la carta di identità cartacea sarà sostituita, su tutto il territorio nazionale, dalla carta di identità elettronica (cosiddetta Cie). Si tratta di una smart card, simile alla patente di guida, in cui le informazioni personali sono memorizzate su microchip e su banda ottica.

La carta di identità elettronica è un documento di identificazione: consente di comprovare in modo certo l’identità del titolare, tanto sul territorio nazionale quanto all’estero, ad esclusione della verifica delle impronte (per la lettura delle quali è necessario il rilascio dell’autorizzazione da parte del Ministero dell’Interno).

Vediamo come funziona la carta di identità elettronica.

Carta di identità elettronica: com’è fatta

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La Carta di identità elettronicaèha le dimensioni di una carta di credito ed è caratterizzata da:

a) un supporto in policarbonato personalizzato mediante la tecnica del laser engraving con la foto e i dati del cittadino e corredato da elementi di sicurezza (ologrammi, sfondi di sicurezza, micro scritture, guilloches ecc.);

b) un microprocessore a radio frequenza che costituisce:

  • una componente elettronica di protezione dei dati anagrafici, della foto e delle impronte del titolare da contraffazione;
  • uno strumento predisposto per consentire l’autenticazione in rete da parte del cittadino, finalizzata alla fruizione dei servizi erogati dalle PP.AA.;
  • un fattore abilitante ai fini dell’acquisizione di identità digitali sul Sistema Pubblico di Identità Digitale (Spid)
  • un fattore abilitante per la fruizione di ulteriori servizi a valore aggiunto, in Italia e in Europa.

La carta è contrassegnata da un numero seriale stampato sul fronte in alto a destra ed avente il seguente formato: C<lettera><numero><numero><numero><numero><numero><lettera><lettera> (ad esempio CA00000AA). Questo numero seriale prende il nome di numero unico nazionale.

I dati del titolare presenti sul documento sono:

  • Comune emettitore
  • Nome del titolare
  • Cognome del titolare
  • Luogo e data di nascita
  • Sesso
  • Statura
  • Cittadinanza
  • Immagine della firma del titolare
  • Validità per l’espatrio
  • Fotografia
  • Immagini di 2 impronte digitali (un dito della mano destra e un dito della mano sinistra)
  • Genitori (nel caso di carta di un minore)
  • Codice fiscale
  • Estremi dell’atto di nascita
  • Indirizzo di residenza
  • Comune di iscrizione AIRE (per i cittadini residenti all’estero)
  • Codice fiscale sotto forma di codice a barre

Come richiedere la carta di identità elettronica

La CIE può essere richiesta presso il proprio Comune di residenza o presso il Comune di dimora, portando una fototessera, in formato cartaceo o elettronico, su un supporto USB. La fototessera dovrà essere dello stesso tipo di quelle utilizzate per il passaporto.

È consigliabile, all’atto della richiesta, munirsi di codice fiscale o tessera sanitaria al fine di velocizzare le attività di registrazione.

È inoltre necessario il versamento, presso le casse del Comune, della somma di € 16,79oltre i diritti fissi e di segreteria, ove previsti, quale corrispettivo per il rilascio della CIE. Occorre inoltre conservare il numero della ricevuta di pagamento.

In caso di primo rilascio occorre fornire all’operatore comunale un altro documento di identità in corso di validità (per esempio patente). Se non se ne è in possesso occorre presentarsi al Comune accompagnato da due testimoni.

In caso di rinnovo o deterioramento del vecchio documento, invece, bisogna consegnare quest’ultimo all’operatore comunale.

Al momento della richiesta, l’operatore comunale procede all’acquisizione delleimpronte digitali.

In questa sede il cittadino può fornire, se lo desidera, il consenso o il diniego alla donazione degli organi.
Una volta completata la procedura di richiesta allo sportello, Il cittadino riceverà la CIE, entro 6 giorni lavorativi, all’indirizzo indicato all’operatore comunale. Una persona delegata potrà provvedere al ritiro del documento, purché le sue generalità siano state fornite all’operatore comunale al momento della richiesta.

Se il cittadino non può presentarsi personalmente allo sportello del Comune a causa di malattia grave o altre motivazioni, può delegare un’altra persona (per esempio un familiare) che dovrà recarsi presso il Comune con la documentazione attestante l’impossibilità del delgante a presentarsi presso lo sportello. Il delegato dovrà fornire la carta di identità del titolare o altro suo documento di riconoscimento, la sua foto e il luogo dove spedire la CIE.

Effettuato il pagamento, concorderà con l’operatore comunale un appuntamento presso il domicilio del titolare, per il completamento della procedura.

Carta di identità elettronica: dove è già attiva?

Molti Comuni hanno già attivato la carta di identità elettronica: è possibile verificare se è disponibile la CIE presso il proprio Comune di residenza, cliccando sul seguente link: Comuni in cui è attiva la Carta di identità elettronica.

Servizio rifiuti: il Comune può procedere senza bando?

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Distinzione tra concessione e appalto di servizi

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Il lettore ci chiede se, nel caso di affidamento del servizio ad una società che sopporti i rischi collegati alla prestazione del servizio ed ottiene la sua controprestazione, almeno in parte, dagli utenti del servizio, attraverso la riscossione di un prezzo, si possa parlare di concessione e non di appalto di servizi e se sia possibile l’affidamento senza gara. La giurisprudenza, prima della recente riforma degli appalti, si è lungamente occupata della distinzione tra concessione ed appalto di servizi. Come correttamente rilevato dal Tar Liguria, in una sentenza del 2014 :

  • la differenziazione tra l’appalto e la concessione di servizi costituiva una questione di difficile soluzione;
  • la legislazione non era univoca e le prime ipotesi di assimilazione delle due fattispecie avevano avuto lo scopo di imporre l’applicazione delle regole di trasparenza e concorrenzialità anche alle concessioni;
  • la necessità di una chiara distinzione tre le due ipotesi era derivata soprattutto dalla normativa comunitaria, che alla questione aveva dedicato le direttive del 2004, che gli Stati membri avrebbero dovuto recepire nei rispettivi ordinamenti;
  • il discrimine tra le due figure era soprattutto individuato nel rischio operativo, che doveva sempre gravare sul concessionario e che non sussisteva allorché l’amministrazione pubblica si obbligava a coprire le eventuali perdite occorse nell’esercizio dell’attività esercitata, comunque, nell’interesse pubblico;
  • l’appalto di servizi ricorreva, invece, allorché l’ente aggiudicatore acquisiva, in senso ampio, un vantaggio dall’attività dell’appaltatore, senza con ciò ottenere necessariamente il trasferimento della proprietà di un bene;
  • la giurisprudenza aveva più volte affrontato la questione, giungendo a conclusioni a quella data condivise nel senso che il concessionario avrebbe dovuto remunerarsi erogando il servizio all’utenza, che a sua volta gli avrebbe corrisposto una tariffa nella misura determinata dall’autorità concedente o da un organismo regolatore indipendente, mentre nell’appalto l’imprenditore avrebbe ottenuto dall’amministrazione aggiudicatrice il compenso pattuito senza necessità di avere rapporti negoziali con gli utenti del servizio.

Vi era anche un orientamento giurisprudenziale che poneva l’accento sul corrispettivo. È il caso di alcune pronunce del Tar Lombardia, secondo cui la differenza elaborata fra appalto e concessione di pubblici servizi consiste nel fatto che mentre nel primo si prevede un corrispettivo che è pagato direttamente dall’amministrazione aggiudicatrice al prestatore di servizi; nella concessione la remunerazione del prestatore di servizi proviene non già dall’autorità pubblica interessata, bensì dagli importi versati dai terzi per l’utilizzo del servizio, con la conseguenza che il prestatore assume il rischio della gestione dei servizi in questione. Per concludere questo breve excursus degli orientamenti che hanno preceduto la riforma, è il caso di richiamare una sentenza resa, sull’argomento, nel 2013, dall’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato, la quale ha negato una progressiva assimilazione tra i due istituti (appalto e concessione), con l’obiettivo, di matrice europea, di vincolare i soggetti aggiudicatori a rispettare, anche nelle procedure di affidamento delle concessioni, i principi dell’evidenza pubblica comunitaria.

La concessione nella riforma degli appalti

La normativa [1], da una parte, conferma l’applicazione alle concessioni dei principi dell’evidenza pubblica. Alle procedure di aggiudicazione di contratti di concessione di lavori pubblici o di servizi si applicano, per quanto compatibili, i principi generali, le esclusioni, le modalità e le procedure di affidamento, le modalità di pubblicazione e redazione dei bandi e degli avvisi, i requisiti generali e speciali e ai motivi di esclusione, i criteri di aggiudicazione, le modalità di comunicazione ai candidati e agli offerenti, i requisiti di qualificazione degli operatori economici, i termini di ricezione delle domande di partecipazione alla concessione e delle offerte, le modalità di esecuzione. La riforma conferma l’essenzialità del rischio a carico del concessionario al fine di poter configurare questo tipo di contratto. Per concessione di servizi deve intendersi un contratto a titolo oneroso stipulato per iscritto in virtù del quale una o più stazioni appaltanti affidano a uno o più operatori economici la fornitura e la gestione di servizi, riconoscendo a titolo di corrispettivo unicamente il diritto di gestire i servizi oggetto del contratto o tale diritto accompagnato da un prezzo, con assunzione in capo al concessionario del rischio operativo legato alla gestione dei servizi. Per  rischio operativo deve intendersi il rischio legato alla gestione dei lavori o dei servizi sul lato della domanda o sul lato dell’offerta o di entrambi, trasferito al concessionario, chiarendo che si considera che il concessionario assuma il rischio operativo nel caso in cui, in condizioni operative normali, non sia garantito il recupero degli investimenti effettuati o dei costi sostenuti per la gestione dei lavori o dei servizi oggetto della concessione e che la parte del rischio trasferita al concessionario deve comportare una reale esposizione alle fluttuazioni del mercato tale per cui ogni potenziale perdita stimata subita dal concessionario non sia puramente nominale o trascurabile. Nei contratti di concessione, la maggior parte dei ricavi di gestione del concessionario proviene dalla vendita dei servizi resi al mercato che tali contratti comportano il trasferimento al concessionario del rischio operativo riferito alla possibilità che, in condizioni operative normali, le variazioni relative ai costi e ai ricavi oggetto della concessione incidano sull’equilibrio del piano economico finanziario e, infine, che le variazioni devono essere, in ogni caso, in grado di incidere significativamente sul valore attuale netto dell’insieme degli investimenti, dei costi e dei ricavi del concessionario.

Affidamento ad una società in house

Dopo avere ripercorso la distinzione tra concessione ed appalto, abbiamo visto che, in nome della tendenziale assimilazione tra i due contratti, anche la concessione debba soggiacere ai principi sull’evidenza pubblica. Procedendo con ordine dobbiamo, a questo punto, chiederci cosa accade se la società aggiudicataria dell’affidamento abbia tali caratteristiche per cui potrebbe non essere necessario procedere ad una gara, ricorrendo le condizioni per un affidamento diretto. La riforma degli appalti prevede che una concessione o un appalto pubblico, nei settori ordinari o speciali, aggiudicati da un’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore a una persona giuridica di diritto pubblico o di diritto privato, non rientrino nell’ambito di applicazione del codice quando sono soddisfatte tutte le seguenti condizioni:

  1. l’amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore esercita sulla persona giuridica di cui trattasi un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi;
  2. oltre l’80% delle attività della persona giuridica controllata è effettuata nello svolgimento dei compiti ad essa affidati dall’amministrazione aggiudicatrice controllante o da altre persone giuridiche controllate dall’amministrazione aggiudicatrice o da un ente aggiudicatore di cui trattasi;
  3. nella persona giuridica controllata non vi è alcuna partecipazione diretta di capitali privati, ad eccezione di forme di partecipazione di capitali privati previste dalla legislazione nazionale, in conformità dei trattati, che non esercitano un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata.

Un’amministrazione aggiudicatrice o un ente aggiudicatore esercita su una persona giuridica un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi qualora essa eserciti un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della persona giuridica controllata. Aggiunge che tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, a sua volta controllata allo stesso modo dall’amministrazione aggiudicatrice o dall’ente aggiudicatore. Per determinare la percentuale delle attività, deve prendersi in considerazione il fatturato totale medio, o una idonea misura alternativa basata sull’attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione. Una considerazione particolare merita la terza tra le condizioni poste dalla norma che ammette, con una disposizione innovativa, la possibilità che nella persona giuridica controllata vi sia una partecipazione diretta di capitali privati, purché non esercitino un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata ossia sulle scelte strategiche e gestionali.

L’affidamento ad una società mista

La legge prende, infine, in esame la possibilità di affidamento ad una società mista, prevedendo che, nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e gestione di un’opera pubblica o per l’organizzazione e la gestione di un servizio di interesse generale, la scelta del socio privato debba avvenire con procedure di evidenza pubblica.Circa, in particolare, la possibilità dell’affidamento ad una società mista della gestione del servizio di raccolta e gestione del ciclo dei rifiutipuò essere utilmente richiamato un parere reso, nel 2013, dalla Corte dei Conti, Sezione regionale di controllo per la Lombardia. La Corte, tra i modelli astrattamente esperibili per gestione del servizio detto, indica l’affidamento del servizio con socio appaltatore. La scelta mediante procedura di evidenza pubblica del socio privato non è, tuttavia, sufficiente perché si possa procedere ad affidamento diretto in favore della società mista. Sul punto può essere richiamata una decisione del Consiglio di Stato del 2010. Osserva il Collegio:

  • che il principio generale è sempre quello della gara e che l’affidamento diretto è sempre una deroga a tale principio;
  • che tale deroga è consentita in casi di stretta interpretazione, per cui la società mista si giustifica quale forma di partenariato pubblico-privato costituito per la gestione di uno specifico servizio per un tempo determinato;
  • che non si ha in questi casi una esenzione dal principio della gara ma muta l’oggetto della gara che deve sempre essere esperita ma non più per trovare il terzo gestore del servizio, bensì il partner privato con cui gestire il servizio;
  • che appare, pertanto, evidente che le società miste cosiddette aperte, costituite cioè per finalità specifiche ma indifferenziate, non possono essere affidatarie dirette in quanto non soddisfano le condizioni a cui è ancorata la deroga.

Una più recente sentenza del Consiglio di Stato consente di cogliere, con chiarezza, la distinzione tra affidamento a società in house ed a società mista. Secondo la decisione del Collegio:

  • la differenza tra la società in house e la società mista consiste nel fatto che la prima agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione dal punto di vista sostanziale, mentre la diversa figura della società mista a partecipazione pubblica, in cui il socio privato è scelto con una procedura ad evidenza pubblica, presuppone la creazione di un modello nuovo, nel quale interessi pubblici e privati trovino convergenza;
  • in quest’ultimo caso, l’affidamento di un servizio ad una società mista è ritenuto ammissibile a condizione che si sia svolta una unica gara per la scelta del socio e l’individuazione del determinato servizio da svolgere, delimitato in sede di gara sia temporalmente che con riferimento all’oggetto. La Corte di Giustizia ha, infatti, ritenuto l’ammissibilità dell’affidamento di servizi a società miste, a condizione che si svolga in unico contesto una gara avente ad oggetto la scelta del socio privato (socio non solo azionista ma soprattutto operativo) e l’affidamento del servizio già predeterminato con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l’intera durata della concessione;
  • la chiave di volta del sistema è rappresentata dal fatto che l’oggetto sia predeterminato e non genericamente descritto, poiché altrimenti, è evidente, sarebbe agevole l’aggiramento delle regole pro-competitive a tutela della concorrenza.

La sezione richiama una propria precedente decisione , nella quale, pur affermando, in quel caso, alla stregua dei principi comunitari e della loro interpretazione desumibile dalla giurisprudenza nazionale che l’affidamento diretto di un servizio a una società mista non fosse incompatibile con il diritto comunitario, a condizione che la gara per la scelta del socio privato della società affidataria fosse stata espletata nel rispetto dei principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza, aveva anche ribadito che i criteri di scelta del socio privato dovessero essere riferiti non solo al capitale da quest’ultimo conferito, ma anche alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire, in guisa da potersi inferire che la scelta del concessionario risultasse indirettamente da quella del socio medesimo.

Conclusioni

Alla luce di quanto sottoposto, riteniamo di poter dire, in risposta al quesito posto, che nel caso in esame, ove il rischio d’impresa faccia carico al concessionario, si può parlare di concessione e che l’affidamento della concessione alla società mista (distinta dalla società in house per quanto detto) possa essere ammissibile a condizione che vi sia una unica gara per la scelta del socio e l’individuazione del determinato servizio da svolgere, delimitato, in sede di gara, sia temporalmente che con riferimento all’oggetto, con obbligo della società mista di mantenere lo stesso oggetto sociale durante l’intera durata della concessione.

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Emanuele Carta

note

[1] Contenuta nel d.lgs n. 50 18.04.2016.

Abitare in un posto diverso dalla residenza è legale?

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Residenza e dimora sono due concetti giuridici diversi ma ben possono essere sdoppiati e non coincidere con lo stesso posto.
Per varie ragioni hai intenzione di spostare la tua residenza nella vecchia casa dei tuoi genitori ormai in parte disabitata, pur vivendo in un’altra abitazione con la tua compagna. Le ragioni sono varie: un po’ per questioni di carattere fiscale, un po’ perché non vuoi ricevere la corrispondenza nel luogo in cui abitualmente vivi e, in particolar modo, le visite dell’ufficiale giudiziario qualora qualcuno decidesse di farti un pignoramento. In questo modo, nessuno saprebbe dove abiti e non ci sarebbe il rischio di vedersi sottrarre beni come il divano, la televisione e l’ultimo computer. Ma che succede se, a seguito di un controllo, la polizia municipale non dovesse trovarti nel luogo che hai indicato come nuova residenza? In altri termini è legale abitare in un posto diverso dalla residenza? Cerchiamo di scoprirlo qui di seguito. Con un’importante precisazione preliminare: se un tempo per poter cambiare la residenza era necessario prima un controllo delle autorità che, presentandosi “a sorpresa” presso la nuova abitazione, verificavano se il richiedente viveva effettivamente là, oggi le cose vanno diversamente: il Comune automaticamente dispone il mutamento di residenza e, nei successivi 45 giorni, può disporre i controlli per verificare l’effettiva corrispondenza con quanto dichiarato. In caso di esito negativo l’interessato riceve un «preavviso di diniego» e ha 10 giorni di tempo per presentare le proprie osservazioni scritte, al fine di evitare l’annullamento della residenza e il ripristino della precedente situazione anagrafiche. In caso di dichiarazioni mendaci sarà data informativa alla Procura della Repubblica.

Che differenza c’è tra domicilio, dimora e residenza

Per poter comprendere se abitare in un posto diverso dalla residenza è legale o meno bisogna prima spiegare cosa si intende con domicilio, cosa con dimora e cosa invece, con residenza:

il domicilio è il luogo nel quale la persona ha il centro dei suoi interessi (ad esempio l’ufficio, l’azienda, ecc.). Si distingue dalla dimora che è il luogo nel quale la persona si trova in via del tutto occasionale, e dalla residenza che è il luogo nel quale la persona abita stabilmente. Residenza e domicilio possono coincidere;
la dimora è il luogo nel quale una persona si trova in via del tutto occasionale (ad esempio la casa vacanze o un appartamento in affitto per un anno per un trasferimento lavorativo);
la residenza è il luogo nella quale la persona abita stabilmente.
Il Comune può rifiutare la residenza?

Se, dagli accertamenti effettuati dalla polizia municipale, non risultano elementi che provino che la persona risieda effettivamente dove ha dichiarato di abitare, l’ufficiale di anagrafe emette un provvedimento di diniego di residenza che viene comunicato all’interessato al suo vecchio indirizzo. Egli ha 10 giorni di tempo per contrastare questa decisione e fare ricorso al Prefetto.

In ogni caso, nulla impedisce a chi ha già ottenuto un rifiuto di presentare una nuova richiesta.

Abitare in un posto diverso dalla residenza è legale?

Da quanto finora detto si comprende agilmente che abitare in un posto diverso dalla residenza non è legale. Lo è solo se tale situazione è provvisoria e momentanea. La residenza è, infatti, il luogo di «abituale dimora»: in altri termini il luogo ove si vive più di frequente deve essere necessariamente la residenza e non un altro posto. Certo, questo non toglie che la persona possa spendere gran parte della giornata nel luogo di lavoro (l’ufficio, lo studio, il negozio, ecc.) ma la residenza rimane il posto ove questi si reca per dormire, dove sta quando non lavora, dove pranza o riceve la posta. La ragione è abbastanza semplice: ogni cittadino ha l’obbligo di essere reperibile e, perciò, è tenuto a fornire alle autorità (nella specie l’ufficio anagrafe e residenza) il luogo ove vive abitualmente. Ciò non toglie che, per periodi di tempo più o meno prolungati, purché sporadici, egli si possa allontanare (è il caso di chi si deve trasferire per qualche mese per lavoro o va a vivere per qualche mese nella casa vacanze).

note
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Shopping: l’affitto fashion è il futuro

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Perchè comprare quando si può noleggiare? È il motto di una famosa azienda americana che sta rivoluzionando l’idea di shopping

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Un’azienda americana ha fatto del noleggio di abiti e accessori la sua fortuna. Si chiama Rent the Runway la società newyorkese che ha deciso di lanciare una nuova idea di shopping. La sua fortuna ha delle solide basi antropologiche: infatti è un dato indiscusso che la società contemporanea si è dematerializzata. Non ci tiene a possedere fisicamente e concretamente qualcosa a lungo termine. Le esigenze sono estemporanee. Le necessità momentanee e mutevoli. Questo fenomeno è trasversale e comune a tantissimi beni di consumo. Si pensi ai film o ai libri. In passato era frequente avere il desiderio di possedere fisicamente un certo film (in Vhs prima e Cd o Dvd dopo), un libro, o un’auto. Poi sono arrivati Netflix, gli e-book, i noleggi di autovetture a lungo termine.

Il consumismo ha preso altre pieghe e altre modalità e l’abilità della società americana è stata certamente quella di intercettarla e saperla cavalcare.

Rent the Runway è stata fondata nel 2009 a New York. Inizialmente il suo sito web offriva solo abiti eleganti e da passerella. Più di recente ha pensato di far tremare grandi colossi della moda come Zara ed H&M e di lanciare un nuovo servizio contenente capi adatti alla vita di tutti i giorni e rivolto al consumatore medio.

Come funziona il noleggio fashion?

Il nuovo modello di shopping si basa su un abbonamento mensile da sottoscrivere online. Al costo di 89 dollari al mese il cliente ha a disposizione quattro capi da noleggiare tra vestiti e accessori. I capi vengono recapitati direttamente a casa, freschi di lavanderia e con il bollino per essere rispediti gratuitamente a fine mese. Dunque spedizione, restituzione, pulizia e assicurazione del prodotto sono inclusi nell’abbonamento.

Lo shopping a noleggio in Italia

L’esperienza americana è stata replicata anche in Italia da diverse realtà imprenditoriali. Una start up propone il noleggio di abiti e accessori delle ultime collezioni. Il sistema dell’azienda italiana, però è diverso. Qui il noleggio diventa finalizzato: si tratta di un abito per un evento, una cerimonia, un matrimonio. Dopo la registrazione al sito si sceglie l’abito preferito, si seleziona la taglia, la data di consegna e si prenota l’abito. Il noleggiodura quattro giorni. Al termine, un corriere passa a casa del cliente e ritira l’abito. Ci sono poi dei siti di noleggio destinati ad accessori particolari come le borse griffate o addirittura gli abiti da sposa.

Chi sono i clienti?

I clienti non si avvicinano ai siti di noleggio di abiti o accessori per il prezzo, che non è poi così basso. Affittare un vestito può costare tra i 100 euro ed i 500. Le borse griffate tra i 50 e i 300 euro.  L’obiettivo delle aziende, invece, è quello di puntare su un target di clienti che non rinunciano al prodotto da passerella o alla borsa griffata, ma con la possibilità di spendere meno e cambiarli sempre.

Fumare in macchina: ecco quanto ti costa

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Il danno economico che subisce la tua macchina, se ci fumi dentro, è di oltre 2mila euro

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«Smettere di fumare è la cosa più facile del mondo. Lo so perché l’ho fatto migliaia di volte» … Smettere di fumare non è semplice, il fumo è una “brutta bestia”, lo sanno tutti. Se fino a qualche anno fa, la scusa era che non si conoscevano gli effetti negativi delle “bionde” e si fumava ovunque (nei locali, anche al cinema, al teatro, negli ospedali addirittura) oggi siamo tutti ben consapevoli che il fumo fa male. Fa male non solo alla salute, ma anche all’economia. Attenzione: non di certo all’economia “in generale”. I governi “fanno cassa” quasi ogni anno, alzando i balzelli sulle sigarette. Il che è un po’ come lucrare su questo “dannato vizio” che il fumatore incallito conosce bene. Il fumo impoverisce noi comuni mortali e non ci vuole né un economista, né una calcolatrice per farsi due conti. Conti che, però, potrebbero non tornare se si decide di far valutare la propria auto. Eh sì, perché chi fuma davvero, salvo che quando dorme, fuma un po’ ovunque: a casa, al ristorante (riservandosi sempre un posto all’aperto) e anche in macchina. A tale ultimo proposito, la notizia è che fumare in macchina costa parecchio e non c’è finestrino “abbassato” che tenga. Vediamo perché.

Fumare in macchina costa più di 2mila euro

Crolla il valore delle macchine usate, se chi le vuole vendere ci ha fumato dentro. Fumare in macchina costa più di 2mila euro. O meglio, il danno economico che subisce la tua macchina se ci fumi dentro è pari, per l’esattezza, a 2.260 euro. Di tanto si deprezza una vettura se a guidarla è stato un fumatore. A “fare i conti” è la nota società britannica Carbuyer che ha realizzato un’indagine sul tema, quantificando il danno economico in 2mila sterline (cioè circa 2260 euro). Si legge nel noto magazine che “la prima cosa che un concessionario vuole fare è controllare se la macchina viene ceduta da un fumatore”. Un po’ come il medico che, in sede di primo controllo, ti chiede se e quante sigarette fumi al giorno (salvo poi, nutrire seri dubbi, sul numero effettivo delle sigarette realmente fumate). Tornando a noi: alcuni concessionari confessano di non voler nemmeno ritirare veicoli da fumatori, calcolando tempo e spesa per liberare l’abitacolo dagli odori spiacevoli. Ma il problema non è solo la puzza di fumo (della quale il fumatore nemmeno si rende conto). Secondo gli esperti le bionde in automobile finiscono per danneggiare l’abitacolo e tutti i rivestimenti (tappeti, sedili, pannelli porta, cielo), non solo con la cenere ma anche con il tipico cattivo odore dell’ambiente dove si fuma. Insomma ripulire una macchina diventata una “camera a gas” costa circa 2.260 euro: quindi, dal prezzo di mercato dell’usato va detratta questa somma.

Ora, a parte la svalutazione dell’usato e le solite “prediche” su quanto fumare sia nocivo (cosa che il fumatore sa benissimo, anche se nessuno glielo ricorda) è bene comunque sottolineare che il fumatore attivo non “rovina” solo la propria salute (e le proprie tasche), ma anche i polmoni di chi gli sta intorno. Ed in macchina, per il fumatore passivo non c’è scampo. A tale proposito, la legge ha esteso il divieto di fumare al conducente di auto, in sosta o in movimento, e ai passeggeri a bordo, in presenza di minorenni e di donne incinte: le multe vanno da 27,5 euro a 550 euro.

note

[1] Diceva Mark Twain.

[2] D.lgs. n.  6 del 12.01.2016.

Il tempo non sana l’abuso edilizio

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Nessuna sanatoria se l’immobile con l’abuso viene venduto e passa di proprietà: anche dopo molti anni l’ordine di demolizione non va motivato.

Hai fatto una piccola modifica al giardino, costruendo una tettoia per riparare le auto dalla pioggia, ma non hai mai chiesto il permesso di costruire al Comune. Una parte del terrazzo è stata coperta per ricavarne una piccola veranda ma senza alcuna licenza edilizia. In casa c’è un soppalco adibito a salottino, anch’esso abusivo. Sono passati molti anni da quando le modifiche sono state effettuate e nessuno ti ha mai detto nulla, né è arrivata la polizia per i controlli. Peraltro, a eseguire alcune di queste opere sono stati i precedenti proprietari di casa e tu non ne hai alcuna colpa; anzi, avendo acquistato l’appartamento in queste condizioni, ritieni che ormai siano state tacitamente sanate. È davvero così? La risposta è negativa ed a darla è stata una recente sentenza del Consiglio di Stato in seduta plenaria [1]. Secondo i giudici amministrativi il tempo non sana l’abuso edilizio. Ma procediamo con ordine e vediamo meglio cosa significa.

Bisogna tenere distinto il reato di abuso edilizio e le pene che dalla condanna derivano dalle sanzioni di carattere amministrativo che esso comporta, sanzioni consistenti nell’ordine di demolizione. Tanto il processo penale, tanto la demolizione si salvano solo se viene richiesta la sanatoria (l’istanza va presentata prima, ovviamente, dell’avvio delle indagini). La sanatoria può essere concessa solo se la costruzione è conforme al piano regolatore in vigore al momento dell’esecuzione dei lavori e (se nel frattempo modificato) della presentazione della domanda. Sul punto leggi Come sanare immobile abusivo.

In assenza di sanatoria, il reato di abuso edilizio si prescrive dopo quattro anni (cinque se interviene un rinvio a giudizio). Ciò che invece non cade mai in prescrizione è l’ordine di demolizione. Questo può essere impartito anche a distanza di numerosi anni. Secondo infatti il Consiglio di Stato, il lungo tempo trascorso dalla commissione dell’illecito non esclude la repressione dell’illecito. Non conta se, nel frattempo, il proprietario abbia confidato nel perdono. Quindi è legittima un’ordinanza di demolizione anche dopo 30 anni dalla realizzazione della costruzione abusiva (tale è stato il caso deciso nella sentenza in commento).

Non è tutto. L’ordine di demolizione dell’abuso edilizio non deve essere necessariamente motivato, neanche se la costruzione irregolare risale a parecchio tempo prima. Anche se alcune pronunce hanno sposato in passato l’interpretazione opposta (secondo cui il lungo lasso di tempo trascorso dalla commissione dell’abuso e il protrarsi dell’inerzia dell’amministrazione ingenera una posizione di affidamento nel privato che obbliga la Pa a spiegare perché il pubblico interesse giustifica il sacrificio del contrapposto interesse privato) si tratta di una tesi minoritaria. La tesi prevalente – sposata ora dalla Seduta Plenaria del Consiglio di Stato – è di opposto avviso. Non è, quindi, in alcun modo concepibile l’idea stessa di collegare una tacita e automatica sanatoria nell’ordine di demolizione al trascorrere del tempo e all’inerzia dell’amministrazione. Ciò legittimerebbe i comportamenti abusivi dei privati che, quindi, confidando magari nella non visibilità dell’abuso o nell’assenza di controlli, potrebbero essere indotti a commettere illeciti edilizi. Invece, non vi sono termini per tutelare il paesaggio e il territorio, trattandosi di un bene comune il cui interesse “non cade mai in prescrizione”.

Risultato: anche se l’abuso edilizio è stato realizzato molti anni prima da un diverso proprietario dell’immobile, se anche il nuovo non subisce alcuna responsabilità di carattere penale (un po’ perché il reato è stato commesso dall’autore dell’illecito, un po’ perché il tempo lo ha fatto cadere in prescrizione) resta comunque tenuto alla demolizione. Salvo che, nel frattempo, non abbia chiesto ed ottenuto la sanatoria.

note

[1] Const. Stato sent. n. 9 del 17.10.2017.

Beppe Grillo scrive agli italiani: “Non abbiamo più tempo, dobbiamo mandarli a casa”

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“L’Italia deve diventare una comunità, nessuno deve essere lasciato indietro.
E’ intollerabile, inumano, vedere le file di esodati, sfrattati, disoccupati alle mense della Caritas mentre chi ha sprofondato il Paese nella miseria si muove con la scorta, l’auto blu, senza alcuna preoccupazione economica. I partiti sono i primi responsabili di questa situazione, hanno occupato lo Stato, lo hanno svenduto, spolpato da dentro. Ora, queste persone si presentano, grazie ai giornali e alle televisioni che controllano, come i salvatori della patria, proprio loro che l’hanno affossata, usata per i loro interessi.
L’Italia ha le tasse tra le più alte del mondo, uno dei maggiori debiti pubblici, un tasso di disoccupazione, soprattutto giovanile, che ha fatto emigrare in pochi anni un milione e mezzo di ragazzi italiani, diplomati, laureati con il sacrificio dei loro genitori.
E’ ora di dire basta, questa commedia deve finire o finirà il Paese. Non abbiamo più tempo, dobbiamo mandarli tutti a casa. Tutti coloro che fanno parte di questo marcio sistema, devono andarsene, sparire, ma prima devono giustificare il loro eventuale arricchimento. Io non chiedo il tuo voto, non mi interessa il tuo voto senza la tua partecipazione alla cosa pubblica, il tuo coinvolgimento diretto, se il tuo voto per il M5S è una semplice delega a qualcuno che decida al tuo posto, non votarci. Questo Paese lo possiamo cambiare solo insieme, non c’è alternativa. Usciamo dal buio e torniamo a rivedere le stelle. Lo Stato deve proteggere i cittadini o non è uno Stato, per questo va istituito il reddito di cittadinanza. Io sono Stato, tu sei Stato, noi siamo Stato. Riprendiamoci l’Italia.”Beppe Grillo
20 punti per uscire dal buio:
    1. Reddito di cittadinanza
    2. Misure immediate per il rilancio della piccola e media impresa
    3. Legge anticorruzione
    4. Informatizzazione e semplificazione dello Stato
    5. Abolizione dei contributi pubblici ai partiti
    6. Istituzione di un “politometro” per verificare arricchimenti illeciti dei politici negli ultimi 20 anni
    7. Referendum propositivo e senza quorum
    8. Referendum sulla permanenza nell’euro
    9. Obbligo di discussione di ogni legge di iniziativa popolare in Parlamento con voto palese
    10. Una sola rete televisiva pubblica,senza pubblicità, indipendente dai partiti
    11. Elezione diretta dei parlamentari alla Camera e al Senato
    12. Massimo di due mandati elettivi
    13. Legge sul conflitto di interessi
    14. Ripristino dei fondi tagliati alla Sanità e alla Scuola pubblica
    15. Abolizione dei finanziamenti diretti e indiretti ai giornali
    16. Accesso gratuito alla Rete per cittadinanza
    17. Abolizione dell’IMU sulla prima casa
    18. Non pignorabilità della prima casa
    19. Eliminazione delle province
    20. Abolizione di Equitalia

Il governo salva nominati e corrotti del fisco

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di Riccardo Fraccaro

Ciao a tutti. Vi chiedo un minuto del vostro tempo. Dovete sapere quello che sta accadendo in Parlamento perché riguarda le vostre tasche. I vostri soldi. Vi faccio una domanda: chi è che controlla le vostre dichiarazioni dei redditi? Chi è che vi può mandare un accertamento o una cartella esattoriale? Semplice, l’agenzia delle entrate.
Ebbene, nelle agenzie fiscali (cioè dogane ed agenzia delle entrate) ci sono circa 800 dirigenti illegittimi, ex funzionari che non hanno vinto un concorso per entrare nella dirigenza come prevede la costituzione ma sono stati nominati. Così i partiti hanno creato un sistema di clientele e di favoritismi.
Nel 2015 però la corte costituzionale ha stabilito l’illegittimità di queste nomine e l’obbligo di fare dei concorsi pubblici e questo è un problema per i partiti ci governano e ci hanno governato perché perdono il loro potere di ricatto su noi cittadini.

Ma non è finita: grazie al MoVimento si è scoperto che nelle agenzie fiscali ci sono 340 indagati per vari reati, principalmente contro il patrimonio (furto, rapina, estorsione ecc.) Quindi abbiamo dirigenti delle agenzie delle entrate nominati dai partiti e indagati per gravi reati come la corruzione (e poi ci chiediamo perché sono sempre i soliti a pagare le tasse).

Ora cosa sta facendo il governo? Due cose: una peggiore dell’altra

Con un decreto interministeriale firmato da Padoan e Madia, scoperto dal MoVimento, si consente di aprire i nuovi concorsi per la dirigenza di questi enti strategici a:

“coloro che abbiano riportato sentenze penali di condanna ancorché non passate in giudicato o di patteggiamento … e a dare un punteggio maggiore a chi è già in carica magari proprio perché nominato”.

Uno scandalo. Ma questa vergogna non sarebbe legittima nella pubblica amministrazione e allora ecco il secondo passaggio. Al senato stanno approvando la riforma degli enti fiscali, con la quale i partiti sostanzialmente vogliono tirar fuori l’agenzia delle entrate e delle dogane dal perimetro della pubblica amministrazione. Che oggi li obbligherebbe a reclutare la dirigenza con concorsi fatti per bene. Cercheremo di bloccare questo schifo ma vi chiediamo una mano condividete queste informazioni. Fate sentire la vostra voce
altrimenti avremo un fisco che anziché punire i veri evasori continuerà a tartassare i normali cittadini e a insabbiare le cartelle degli amici, magari di quelli che gli finanziano la campagna elettorale.

http://www.ilblogdellestelle.it/il_governo_salva_nominati_e_corrotti_del_fisco.html?utm_medium=push_notification&utm_source=rss&utm_campaign=rss_pushcrew

 

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