La prima comunione

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E io che, ingenua, mi pensavo che le prime comunioni modello sposalizio erano una roba cafona dei miei tempi. Cazzo è che non avevo mai incontrato di persona l’orgogliosa madre di Noemi, Chantecler, Avacomelava Scannasurice. Una donna, in fin dei conti, semplice se non siete così superficiali da soffermarvi sul fatto che sembra l’anello di congiunzione tra Barbie Gang bang e l’ultimo modello di bambola gonfiabile; Lady Godeva, che, peraltro, tengono pure la stessa bocca aperta in un ohhhh di… meraviglia, solo che alla signora è stata colpa del Botox andato di acito. Cioè che dalla grigia sala di attesa del medico della mutua io mi sento all’intrasatta proiettata in uno scenario che è un ibrido tra il Boss delle cerimonie e il mio Grosso grasso matrimonio gipsy. Vengo rapita dalla descrizione del vestito della creatura con corpetto vedo-non vedo, l’acconciatura intrafogliata con rarissime orchidee egrù, le scarpetelle di pexiglas modello Cenerentola. Mi perdo sognante nel volo di farfalle e nel lancio di confetti gusto cotica, fatti realizzare apposta su ricetta dello zio chianchiere. Mi sbavo sulle scarpe quando elenca le trenta portate del menù che si chiude, giustamente con fella di carne arrostuta e spaghetti aglio e olio. Ma, soprattutto, mi scopro priva di scrupoli quando, su due piedi, congegno un efferato piano per entrare in possesso della bimbiniera: una statuina di Capodimonte con le fattezze della peccerella, abiti in seta di San Leucio, cristalli Swarovski al posto degli occhi, che tiri un filo e canta le hit di Maria Nazionale. Ecco, ucciderei per averla. F.to Francesca Prisco 

L’ordine è partito dall’alto, colpite la Raggi”. Dichiarazione choc: il giornalista ha scoperto tutto

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giovedì 11 maggio 2017

“. Condividete.

PS: anche se il video è di qualche mese passato, ricordare queste dichiarazioni nell’opinione pubblica è di assoluta importanza, sopratutto in giorni simili a questi in cui la Raggi viene attaccata per una presunta “Emergenza Rifiuti”, smentita anche da un video del giornalista Franco Bechis.  

                                                         
Nella serata di martedì 20 dicembre è andata in onda su La7 la prima puntata di Terza Repubblica, il talk show politico condotto dal duo formato da David Parenzo e Luca Telese. Tra gli argomenti trattati non poteva mancare il cosiddetto ‘caso Roma’ che coinvolge, anche grazie al massiccio impegno dei mass Media, la Giunta M5S di #Virginia Raggi. Tra i ‘relatori’ della serata c’era Peter Gomez, direttore del fattoquotidiano.it, secondo il quale “buona parte dei giornali rappresentano l’establishment” e non apprezzano, quindi, la “rottura” rappresentata dai grillini. Bianca Berlinguer, ex direttore del Tg3, riporta un dato interessante: a Tor Bella Monaca, quartiere ghetto dove hanno trionfato i 5 Stelle, la gente rivoterebbe la Raggi nonostante tutto. Ma la testimonianza che ‘scassa’ arriva da #Maurizio Belpietro, direttore del quotidiano La Verità, convinto che sia stato #Matteo Renzi in persona ad ordinare a tv e giornali di colpire la Raggi “per dimostrare che i 5 Stelle sono incapaci di governare”.

Il video dell’attacco di Belpietro a Renzi
“L’attenzione che il circolo dell’informazione ha dedicato a Virginia Raggi e alla Giunta del M5S – questa l’accusa che Belpietro rivolge ai Media mainstream – è superiore a quella dedicata a tutte le altre giunte della Capitale. Io ricordo Ignazio Marino: sbagliò le nomine, faceva gaffe una dietro l’altra, nominò un capo dei vigili che non aveva i titoli, nominò un capo dell’Ama (anche quello senza titoli ndr)”. E questi fatti, ricorda il giornalista di fede berlusconiana, non finirono mai “come titolo di apertura dei principali giornali” e non furono “l’apertura dei tg nazionali”.

Insomma, prosegue Belpietro, “di fronte agli andamenti pessimi dell’economia italiana, i principali tg della Rai hanno scelto di raccontare il caso di Virginia Raggi che aveva sbagliato l’assessore”. Esempio fulgido di “inesperienza e incapacità”, ma che “si facessero le aperture su questo anziché su altro fa abbastanza sorridere”. Poi, ecco la bomba lanciata contro l’ex presidente del Consiglio. “Del resto era evidente – punta il dito Belpietro – il giorno dopo la vittoria del 5 Stelle è partito da Renzi un ordine che aveva questo significato: ‘Colpite la Raggi perché lì dobbiamo dimostrare che i 5 Stelle sono incapaci di governare’”.

“Ma quello che mi colpisce di più – prosegue – è l’esiguità dell’arretramento” nei sondaggi del M5S, calato di soli 1 o 2 punti nonostante la bufera politico-mediatico-giudiziaria che imperversa su di loro, soprattutto riguardo al caso Roma. “Io penso che tutto sommato, di fronte a quello che è successo a Roma, l’arresto di Marra, la Muraro che si dimette, che il M5S rimanga il primo partito italiano dovrebbe far riflettere”. Certo che “sull’onda dell’emozione qualche punto se ne va, ma il M5S conserva tutto quanto il proprio consenso o, comunque, la maggioranza, la stragrande maggioranza del proprio consenso”.

“Evidentemente i romani – questo il pensiero dell’ex direttore di libero – e anche forse gli italiani, a questo punto si rendono conto che Roma era gestita così male che nessuno poteva fare un miracolo, e quindi perdonano alla Raggi l’inesperienza e forse anche la presunzione. Ma sostanzialmente dicono: ‘Vabbè, sono lì da sei mesi, vediamo quello che combinano’”. Alla fine, “nonostante il fuoco di sbarramento che è stato messo in atto nei confronti del Movimento per questo caso – conclude Belpietro rimarcando la sua insospettabilità in quanto lontanissimo dal M5S – gli italiani pensano: ‘Peggio di quello finora non è successo, fra un po’ giudicheremo e tireremo le somme’”.

Photo by fabiolopiccolo:

FOTO. Yemen, l’Arabia Saudita appoggiata dagli USA ha distrutto 412 centri medici e l’Organizzazione mondiale della Sanità distribuisce farmaci scaduti

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I servizi di sicurezza e le autorità mediche yemenite, ieri, hanno sequestrato camion appartenenti alla Organizzazione Mondiale della Sanità OMS, con farmaci scaduti destinato alla popolazione della provincia di Taiz.

FOTO. Yemen, l'Arabia Saudita appoggiata dagli USA ha distrutto 412 centri medici e  l'Organizzazione mondiale della Sanità distribuisce farmaci scaduti

Il direttore dell’ufficio medico a Taiz, Wasek al-Fakih, ha spiegato che l’Organizzazione mondiale della Sanità, OMS, ha inviato al popolo yemenita, che vive da 3 anni sotto il blocco saudita-USA, una grande quantità di farmaci scaduti o in via di scadenza.

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Al-Fakih ha sottolineato la necessità che questi aiuti siano conformi alle norme mediche.

412 centri medici distrutti dalla coalizione guidata dall’Arabia Saudita

Da parte sua, il portavoce del Ministero della Salute yemenita, medico Abdel Hakim Kaahlani, ha assicurato che l’industria medica sta per crollare a causa del blocco e dell’aggressione militare della coalizione Di Arabia Saudita-Stati Uniti contro lo Yemen.

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In un’intervista con la catena AlMasirah, M.Kaahlani ha dichiarato che “5000 pazienti con insufficienza renale soffrono di una carenza di farmaci nelle cliniche. Lo stesso vale per i pazienti con cancro e diabete “.

Kaahlani li ha definiti “crimini contro l’umanità gli assalti della coalizione contro il settore medico”, affermando che ci sono stati “80 martiri e 220 feriti tra il personale medico. Le forze della coalizione hanno distrutto 412 centri sanitari e 360 ambulanze “.

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Fonte: www.almasirah.net

 

Attività fisica, 100 minuti a settimana per vivere di più Esperto Usa, 7 regole per ‘sfiammare’ l’organismo

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Bastano cento minuti di attività fisica la settimana per essere in salute e vivere più a lungo, con 7 regole per ‘sfiammare’ l’organismo. Il corpo, infatti, si nutre e si ‘sfiamma’ anche grazie all’attività fisica. Proprio come il cibo, il movimento allena le cellule a disattivare i geni pro-infiammatori e ad attivare quelli della longevità.

 

Perché l’esercizio fisico, al pari dell’alimentazione, può modificare l’espressione dei geni. Ecco perché l’attività fisica è uno dei pilastri della Positive Nutrition, la nuova ‘formula’ della longevità, che riprende l’omonimo titolo del nuovo libro di Barry Sears, biochimico americano ideatore della dieta Zona.

Se ne è parlato oggi a Milano all’International Congress Science in Nutrition organizzato dalla Fondazione Paolo Sorbini per la scienza nell’alimentazione. Dunque movimento e cibo giocano in tandem, perché l’attività fisica aiuta a controllare l’infiammazione ma il cibo giusto aiuta a migliorare la performance. Dando vita a 7 regole chiave, che insieme possono migliorare la qualità di vita.

Queste le 7 indicazioni dell’esperto: 1. La “dose” giusta di movimento. Gli studi scientifici suggeriscono di praticare 3 allenamenti la settimana. In pratica, un giorno sì e uno no; 2. Rispettare l’interval training, ovvero l’intervello tra gli esercizi sportivi con un allenamento ad alta intensità con la massima quantità di ossigeno che i muscoli consumano al minuto, seguito da 3-4 minuti di recupero; 3. L’allenamento a digiuno. Lo sport svolto con una scarsa disponibilità di energia aziona l’enzima della vita, l’AMP chinasi che, se attivato, sostiene la longevità. Questa molecola viene attivata proprio quando la cellula ha poca energia; 4. L’allenamento ‘concorrente’, ovvero, non solo allenamento aerobico. Al corpo serve esercitare anche la forza muscolare. Abbinare i due tipi di allenamento nell’arco della giornata o della settima; 5. L’importanza dell’idratazione. Bisogna bere sempre e nelle giuste dosi, due litri d’acqua al giorno, anche quando non si ha sete; 7. La giusta intensità. Il fiato è un buon metro di misura dell’intensità di un allenamento. Nella prima fase di riscaldamento la respirazione non deve essere mai affannata. (FONTE)

Una vita tutta curve (o Cosa fanno le banche centrali)

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Lo stato della nostra economia può essere emblematicamente spiegato con un episodio: quando Berlusconi, in un periodo di acuta crisi economica, disse che i ristoranti erano pieni, si fu quasi in procinto di fare la rivoluzione. Mi rendo conto che, per chi non è messo in buone condizioni economiche, un’affermazione del genere può essere considerata una presa per i fondelli e, nell’ipotesi più soft, uno sberleffo bello e buono.

In quell’episodio tuttavia si è misurato quanto in Italia quel che conta di più è fare bagarre politica e non risolvere i problemi economici, poiché – se un minimo di preparazione economica la si avesse (e mi riferisco ai politici e non ai cittadini) – non si trascurerebbe mai che la prima regola dell’economia è una regola psicologica: l’ottimismo. E non voglio riprendere Tonino Guerra con l’affermazione che l’ottimismo è il profumo della vita: no, l’ottimismo è il motore dell’economia.

Finché saremo pieni di politici che ci ricordano, come se noi non lo sapessimo già abbastanza bene, che l’economia va male, l’economia non migliorerà mai! Mi spiego meglio: non parlo dell’essere ipocriti, parlo del fatto che i politici non dovrebbero campare delle lamentele, ma dovrebbero proporre soluzioni. Guardatevi in giro e fate mente locale: quanta parte della politica è fatta di accuse e controaccuse, di lamentele, populismi e via dicendo? E quanta parte è fatta dalla messa sul piatto di soluzioni concrete e fattibili?

La politica e i politici di oggi inculcano solo pessimismo su pessimismo. Questa è una delle cause principali, ovviamente non la sola (poiché la situazione italiana è così ingarbugliata che ormai le variabili da considerare sono moltissime), dell’immobilismo della nostra economia.

 A cosa serve l’ottimismo? A riavviare i consumi quando sono fermi o a continuare ad alimentarli quando sono in essere. Una popolazione di consumatori ricettivi incrementa la domanda di prodotti e quindi anche il lavoro richiesto alle aziende, il che si potrebbe convertire in nuove assunzioni giacché per produrre più prodotti serve più personale. Ma perché dico “si potrebbe convertire” e non “si converte”? Perché il condizionale anziché l’indicativo?

La risposta è semplice: nel momento in cui un imprenditore deve decidere se farsi carico o meno di un nuovo stipendio con annessi e connessi, valuta se quest’ottimismo – e quindi la maggiore richiesta di consumo di prodotti – è una costante nel tempo oppure è un “capriccio” momentaneo del consumatore. In quest’ultimo caso, non si prenderà il rischio di assumere un nuovo dipendente che, una volta cessato il consumismo della popolazione, dovrà comunque pagare “a vuoto”; bensì, quel che farà sarà al massimo far fare gli straordinari ai dipendenti già assunti. Ne consegue che non ci saranno nuove persone a beneficiare di un nuovo posto di lavoro.

 Già solo con questi due ragionamenti si è capito come l’ottimismo influenzi, in primis, la produttività di un’impresa e, in secondo luogo, l’aumento dei posti di lavoro. Se invece quest’ottimismo non c’è non si verifica nessuna delle due cose, per il semplice motivo che – anche nel caso in cui gli individui vedessero incrementare il proprio reddito (come sembra, ad esempio, sia avvenuto per le tasche degli italiani nell’ultimo anno) – quei soldini in più non li spenderanno, e invece di andare a finire nella voce Consumo (C) andranno in quella Risparmio (in economia indicato con S, dall’inglese Saving). Lo stesso vale per gli investimenti, interni o esteri: chi investe se non è altamente probabile che l’andamento positivo rimarrà a lungo?

 Ma perché vi parlo di ristoranti e consumi in un post dedicato alle banche?

 Beh, perché in economia tutto è interdipendente. Difatti, l’economia di uno Stato sta bene da tutti i punti di vista quando si trova in una posizione di equilibrio – o ad essa molto molto vicina – tra due indicatori, ossia la curva IS (iniziali delle parole inglesi Investment e Savings) e quella LM (iniziali delle parole inglesi Liquidity e Money), graficamente rappresentate come due rette che si intersecano (nel punto di equilibrio) e che sono matematicamente riassunte, invece, in due equazioni.

 Allora, non voglio fare alta economia, fate solo lo sforzo di seguirmi per qualche riga un po’ più complicata, ma potete capirle tranquillamente e vi servirà per capire un sacco di cose poi. Io, dal mio canto, cercherò di essere il più semplice possibile.

Il grafico qui sotto rappresenta l’equilibrio macroeconomico (quindi quello riferito a uno Stato e non, per esempio, a una singola impresa e al suo andamento economico-finanziario).

 Come spiega il grafico, la curva IS rappresenta l’equilibrio nel mercato dei beni (leggasi, commercio) mentre la curva LM l’equilibrio nel mercato finanziario (leggasi, per semplificare, nel mondo delle valute, delle monete). Il punto di equilibrio cui tendere perché il Paese goda di una situazione economica ottimale è quello di intersezione, indicato con il punto A. I due parametri su cui si muovono le curve IS e LM sono la produzione Y (o anche reddito, inteso come reddito del Paese) indicata sull’asse orizzontale e il tasso di interesse i indicato sull’asse verticale.

Quindi, in breve, IS è quella combinazione di produzione e tasso di interesse che garantisce l’equilibrio nel mercato dei beni e servizi, mentre LM è quella combinazione di produzione e tasso di interesse che garantisce l’equilibrio nel mercato monetario.

Ma Y da cosa è composto? Y è sì la produzione, ma è ancora più semplicemente il reddito. Il reddito di uno Stato intendo. Esso si compone così: Y=C+I+G+X dove

  • C è il consumo (prevalentemente privato, quindi i soldi che mettete/mettiamo in circolazione andando a fare acquisti, sia di beni di prima necessità che di beni “superflui”)

  • I sono gli investimenti

  • G è la spesa pubblica (in questo caso la si intende comprendendo le tasse, o meglio al netto delle tasse. Vale a dire che le tasse T sono un’entrata mentre la spesa pubblica è denaro che esce, di conseguenza il denaro che effettivamente rimane nelle tasche dello Stato è dato dalla sottrazione T-G)

  • X sono le esportazioni nette, ossia esportazioni meno importazioni. Questo perché siamo in un mercato aperto, che quindi commercia con l’estero; altrimenti, se fossimo in un mercato chiuso in se stesso, il reddito dello Stato sarebbe composto solo da consumo, investimenti e spesa pubblica.

La matematica ci insegna che quando uno degli addendi cambia, cambia anche il risultato finale. Quindi se il consumo diminuisce, con gli altri fattori rimasti invece invariati, anche il reddito diminuisce e allora il punto della curva IS in cui si piazza l’economia dello Stato non è più A (quindi l’equilibrio) bensì un altro punto che però non si interseca più con LM in quello che è il punto di equilibrio. Siamo finiti in un punto di “disequilibrio”.

 Perciò, lo Stato, per tornare al punto di intersezione con la curva LM cosa deve fare? Deve intervenire sulle altre componenti del reddito, quindi per esempio sulla spesa pubblica (ad es. taglia le pensioni o gli stipendi degli statali, o fa nuova edilizia statale, ecc.) o aumenta le tasse, oppure prova ad aumentare le esportazioni, di modo che alla fine dei conti il risultato torni ad essere quello iniziale. In pratica, la variazione del consumo viene contemperata dalla variazione di un altro componente, con il risultato finale che mantiene l’equilibrio.

Tutti gli interventi che lo Stato fa o può fare su C, I, G e X prendono il nome di “politica fiscale”. Quindi, quando si parla di politica fiscale solo rispetto alle tasse si riduce notevolmente il significato che economicamente ha questa espressione.

 Ma se non si riesce o non si può momentaneamente intervenire sulla curva IS per riavvicinarsi al punto di equilibrio, è possibile intervenire e quindi far spostare in qualche modo la curva LM? Sì, e in questo caso tutti gli interventi che si fanno sulle componenti di quest’altra equazione prendono il nome di “politica monetaria”.

Ed ecco qui che entra in gioco la banca, per l’esattezza la Banca Centrale. Nell’immaginario collettivo, quella che stampa la moneta. Ma se la stampa non è per diletto o per evitare che i soldi finiscano; la Banca Centrale quando stampa un tot di moneta lo fa per assecondare o contrastare i movimenti della curva LM rispetto alla curva IS. Insomma, la nostra realtà economica è tutta una questione di curve!

 Abbiamo già detto che LM sta per “liquidity” e “money”. Per liquidità intendiamo il denaro sonante, quello che circola, quindi banconote e spiccetti 🙂

E non è assolutamente vero che più moneta circola e meglio è! Difatti, dovete considerare il denaro come un qualunque altro bene che può essere barattato: se prima barattavamo un kg di zucchine con un kg di melanzane, adesso quel kg di zucchine lo barattiamo con una monetina di due euro. Ecco, se iniziate a considerare la moneta come un semplice bene, potete capire perché non è sempre cosa buona che ce ne sia tanto in circolazione.

Mi spiego ancora meglio: pensate alla frutta di stagione. Questa, nella sua stagione, è generalmente in grande quantità per cui tendenzialmente costerà di meno perché facilmente reperibile. Una volta passata la sua stagione, la quantità di frutti disponibile diminuisce facendo sì che il prezzo aumenti, perché quel frutto è divenuto una merce più rara. Riprendendo la moneta e ipotizzando che sia questa il frutto di stagione, se la moneta in circolazione (banconote e spiccetti) diventa troppa essa perderà di valore. Questo significa che se oggi ho 10 euro e per un mese la banca centrale inietta moneta a più non posso nel mercato, io il mese successivo avrò sempre in mano quella moneta da 10 euro ma varrà di meno e potrò comprarci quello che prima avrei avuto ad esempio con soli 9 euro. Tradotto in soldoni (scusate il gioco di parole): se c’è troppa moneta in circolazione, il mio potere d’acquisto cala!

 Ora, tornando alla curva LM, sostanzialmente in base alla posizione che questa curva acquisisce nel grafico (posizione legata o alla congiuntura economica generale che per esempio porta a ridurre i consumi o le esportazioni, o alla politica fiscale del governo o a entrambe, e che quindi è assolutamente interdipendente dalla curva IS), la Banca Centrale di ogni Paese decide quando aumentare la liquidità di moneta e quando ridurla.

Per aumentare la liquidità, sostanzialmente la Banca batte moneta. Ma per ritirarla? Generalmente, l’opzione usata è quella delle obbligazioni di Stato(ricordate i Bot che negli anni ’80 hanno invaso la vita degli italiani e vi hanno fatto sentire ricchissimi?!). Il meccanismo è molto semplice: tu cittadino se vuoi comprare un’obbligazione mi paghi in moneta, quindi io banca centrale a te do il foglietto con l’obbligazione e tu dai a me le banconote e gli spiccetti che quindi ritiro dalla circolazione e mi metto in cassaforte, fino a quando non ci sarà nuovamente bisogno che io li ri-immetta nel mercato. Il problema di queste obbligazioni è che tu, cittadino, le compravi perché ti assicuravano un rendimento futuro a scadenza, quindi la banca centrale non ti avrebbe solo restituito il prezzo che avevi pagato bensì ti avrebbe dato denaro aggiuntivo. In pratica, per ritirare denaro dalla circolazione la banca finiva per indebitarsi.

Al contempo, tu cittadino eri invogliato a comprare più Bot se il rendimento (leggi tasso di interesse) era più alto: ricordate l’asse verticale del grafico che vi ho segnalato su? Quindi, anche la curva LM come quella IS dipende dal tasso di interesse (più alto è più l’obbligazione diventa per me appetibile!).

Quando la Banca centrale immette moneta parliamo di politica monetaria espansiva, quando la ritira è politica monetaria restrittiva.

 Spero che fin qui sia tutto chiaro.

Ora, dove sta l’inghippo?

Sta nel fatto che il grafico IS-LM non è uguale per ogni Paese, bensì ogni Stato c’ha il suo, e dipende dalla propria capacità industriale, da quella commerciale soprattutto di IMPORT-EXPORT, dalla ricchezza pro-capite, e via dicendo. Ne consegue, che sia la politica fiscale (curva IS) sia quella monetaria (curva LM) dovrebbero essere “mosse” a livello nazionale: tutto in genere dipende dalle decisioni statali che vengono eseguite, nel caso della politica fiscale, dal governo (inteso in senso lato) e, nel caso di quella monetaria, dalla Banca centrale.

Su questo trend ci muovevamo fino a quando in Italia vi era la lira, e sebbene non fosse ben presente a nessuno di noi, la nostra Banca centrale doveva operare sulla base della nostra curva LM di modo da completare e complementare le politiche governative che invece operavamo sulla curva IS. Era quindi tutta una questione di bilanciamento ed equilibrio. Fino a quando le due politiche dialogavano, il Paese poteva funzionare. A modo suo, ma poteva farlo.

A maggior ragione perché la Banca centrale poteva, quando necessario, intervenire anche sulla curva IS. Come? Attraverso la svalutazione, ossia la diminuzione di valore della moneta nazionale, che quindi rendeva più competitivi i nostri prodotti all’estero rispetto ad altri aumentando le nostre esportazioni, e quindi facendo aumentare anche la voce delle esportazioni nette (X) presente tra quelle che abbiamo detto essere le componenti di IS.

 Con l’ingresso nella zona euro, cosa è successo? È successo che la curva IS è rimasta nazionale mentre quella LM è diventata unica e soprattutto sovranazionale. Ciò si traduce nel fatto che, siccome la politica monetaria è solo una, magari essa è adatta alla curva IS della Francia o della Germania mentre non è adatta e quindi potenzialmente nociva per la curva IS italiana.

A maggior ragione perché, come da trattato istitutivo, il compito della Banca centrale europea (BCE) NON è assolutamente quello di fare una politica monetaria “tradizionale” o sostenere l’economia europea. No. Il compito principale della BCE è mantenere l’inflazione (quindi la variazione del livello dei prezzi) all’interno di un determinato range. Vale a dire che la BCE batterà moneta o la ritirerà dal mercato (prevalentemente attraverso il meccanismo delle obbligazioni che vi ho raccontato prima) solo e unicamente se questo serve a stabilizzare l’inflazione. Per cui, poco le importa se l’Euro si apprezza o si deprezza, e quindi di come vanno o non vanno le esportazioni.

 Ricordate il periodo in cui si diceva l’Euro è forte? Sì, l’Euro era forte (quindi la moneta era apprezzata) e ciò rendeva conveniente per gli europei, ad esempio, acquistare i beni americani o comunque venduti in dollari. Però, con la bocca piena de “l’Euro è forte, l’Euro è forte, olé!” non ci si rendeva conto (o si faceva finta di non rendersene conto) che l’altra faccia della medaglia era che, mentre i beni venduti in dollari erano appetibili, quelli venduti in euro no. Ne conseguiva che aumentavano le nostre importazioni, ma le esportazioni no (e prima abbiamo visto che a contare nel reddito dello Stato, Y, sono le esportazioni!!!)! Ciononostante, ovviamente, la BCE non si è posta il problema di svalutare. L’euro è rimasto forte per molto tempo.

 Quanto detto non significa che la BCE non possa, in determinate circostanze, venire incontro alle esigenze commerciali dell’eurozona (badate, dell’eurozona nel complesso, non del singolo Paese: la curva LM è solo una!); può farlo purché questo non vada in collisione con il suo compito fissato da Trattato. Infatti, L’articolo 127, paragrafo 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sancisce che: “L’obiettivo principale del Sistema europeo di banche centrali […] è il mantenimento della stabilità dei prezzi. [ndr. livello dell’inflazione]”.

E successivamente precisa che, “fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il SEBC sostiene le politiche economiche generali dell’Unione al fine di contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione definiti nell’articolo 3 del Trattato sull’Unione europea”

Nb. Il SEBC (Sistema europeo di banche centrali) è composto dalla BCE e dalle Banche centrali di tutti i Paesi membri dell’UE (non solo quelle dei Paesi entrati nell’Euro).

 Questa “critica” alla BCE non significa che il controllo dell’inflazione non sia importante, tutt’altro. Significa però che la politica monetaria è stata privata di moltissimi strumenti che ci sarebbero stati utili…

L’aspetto inflazionistico è importante perché tenendo sotto controllo l’inflazione si impedisce che la moneta che abbiamo in saccoccia perda valore e quindi garantiamo il nostro potere d’acquisto. L’esempio storicamente più noto dei danni dell’inflazione è quello della Germania degli anni ’20, in cui si verificò un fenomeno di iperinflazione dovuto al fatto che la banca centrale tedesca stampava banconote a gogò per poter far fronte al pagamento dei debiti di guerra nonché alle riparazioni (annotatevi mentalmente questo fatto, perché nei prossimi articoli “economici” ci torneremo parlando di JP Morgan & Co.!). Quindi la liquidità di moneta era tantissima e questo portò, nel novembre 1923, il marco a valere un bilionesimo [1/1.000.000.000.000] di quanto valeva nel 1914.

Per fare un paragone, un po’ grossolano ma comunque d’effetto, è come se mille miliardi di euro di adesso fra dieci anni valessero solo un euro. Chiaro il concetto? No? In pratica, se io fossi una miliardaria adesso ma il sistema fosse il balìa dell’inflazione, fra dieci anni, pur tenendo in cassaforte i miei bei miliardi (quindi non sperperandoli a destra e a manca, che è tutt’altra storia!), con quei bei miliardi potrei comprarmi fra dieci anni appena appena un pezzo di pane.

Come sapete tutti, il malcontento e l’enorme crisi economica generati dall’iperinflazione nella Germania di Weimar crearono il substrato per l’ascesa del nazismo (andate a vedere le prime campagne elettorali di Hitler a cosa guardavano!). Questo evidenzia l’enorme nesso tra l’economia e i destini politici di una Nazione, per cui mi rifaccio al primo concetto di questo articolo: siate ottimisti! Perché l’essere pessimisti noi, danneggia l’economia dello Stato (non ha davvero senso vedere lo Stato come qualcosa di avulso da noi. Parafrasando il Re Sole, “L’État c’est nous!”. Lo Stato è fatto dall’insieme degli individui quindi i comportamenti individuali messi insieme fanno il comportamento collettivo. Pensare che l’eurino che abbiamo in tasca non influenzi un bel nulla significa svilire il valore di quell’eurino ma anche svilire il ruolo che il nostro comportamento individuale ha nel contesto economico generale!).

 Il pessimismo fa solo andar peggio un’economia che già va male, il pessimismo aumenta il populismo. A creare il boom economico in qualunque situazione è stata la forte speranza e la determinazione di potercela fare: guardate solo il New Deal proposto da Roosevelt dopo il crollo di Wall Street nel 1929. Come fece l’America a riprendersi da quel disastro solo Dio lo sa! E non è una battuta, perché in questo caso economia e religione hanno in comune una cosa: la fede! Bisogna aver fede che una ricetta economica funzionerà: se non vi si crede tutti o quasi tutti fin dall’inizio, ne abbiamo già decretato la morte.

Alla fine, per fare un altro parallelo, una delle componenti principali del New Deal era la costruzione di grandi opere, anche quando queste non erano proprio prioritarie per gli Stati Uniti, a volte addirittura inutili. Da noi invece appena si cita il ponte sullo Stretto sembra che si stia delirando, la TAV è figlia del demonio e qualunque altra grande opera che viene proposta viene alla fine “accannata” perché si ha paura (basta la paura, eh, non è necessario il sospetto, figurarsi la certezza… è troppo chiedere!) che si possano verificare episodi corruttivi. Nulla di più probabile della corruzione, vero, ma così l’economia italiana, e quindi l’Italia, e quindi noi tutti, uno per uno, siamo e rimaniamo bloccati dalla paura. Grandioso!

Il New Deal è stata la massima espressione della ricetta keynesiana (andatevi a spulciare l’economista inglese John Maynard Keynes, è un tipo interessante!), secondo la quale uno Stato pur di far ripartire l’economia avrebbe dovuto assumere degli operai anche per fare opere perfettamente inutili come seppellire bottiglie vuote nel terreno e una volta seppellite disseppellirle e poi seppellirle nuovamente. Questo perché? Ovviamente non per dare agli individui un lavoro svilente ma perché nel frattempo lo Stato avrebbe fatto da garante al riavvio dell’economia: assumere persone – sebbene per un lavoro completamente inutile – significava pagar loro degli stipendi, che in parte sarebbero divenuti risparmi per le famiglie ma in parte sarebbero divenuti consumi, e quindi l’operaio sarebbe andato a comprare il pane e avrebbe fatto lavorare (e quindi guadagnare) il fornaio, sarebbe andato a comprare i vestiti e quindi avrebbe fatto lavorare (e quindi guadagnare) l’azienda tessile della sua regione, ecc. In questo modo gli Stati Uniti risorsero…

 L’obiettivo è innescare il circolo virtuoso. Se invece di far girare la ruota, mettiamo sempre i bastoni fra le ruote facendoci prevalentemente condizionare dagli urlatori e dai populisti, forse (ma non ci metto la mano sul fuoco) un giorno diverremo un popolo meno corrotto, tuttavia è pressoché certo che non diventeremo un popolo più ricco.

 L’atteggiamento mentale fa tutto: l’atteggiamento mentale batte moneta!

 P.S.: agli economisti di professione, non rimproveratemi se ho soprasseduto a qualche tecnicismo, a quando sarebbe stato meglio parlare di valuta anziché di moneta, ecc. ma vi chiedo di comprendere l’obiettivo di questo blog: essere comprensibile superando i tecnicismi e creare consapevolezza rendendo accessibili le dinamiche di fondo delle cose. E voi sapete meglio di me che quelli che ho raccontato qui sono i rudimenti dei rudimenti della macroeconomia: siate clementi con me!

https://www.ameimportasoltantodisapere.com

Come sapere se l’Ici è prescritta?

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La legge [1] stabilisce che nel caso di omesso o insufficiente versamento dell’Ici o di omessa o infedele dichiarazione Ici, l’ente creditore (nel caso del lettore, il Comune) deve inviare al contribuente:

  1. innanzitutto un avviso di accertamento (in rettifica e d’ufficio) entro il termine del 31 dicembre del quinto anno successivo a quello nel corso del quale si doveva provvedere ad effettuare il pagamento dell’Ici dovuta o a presentare la dichiarazione Ici;
  2. e, successivamente, deve inviare una cartella di pagamento, attraverso Equitalia, nel caso in cui il contribuente non dovesse pagare il dovuto nemmeno dopo la notificazione dell’avviso di accertamento; la cartella di pagamento deve essere inviata al contribuente entro il termine del 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui l’avviso di accertamento è divenuto definitivo (l’avviso di accertamento diventa definitivo il sessantesimo giorno successivo alla sua notificazione nel caso in cui non venga impugnato davanti alla Commissione tributaria).

Applicando questi termini al caso del lettore ed applicando i termini stabiliti dalla legge al suo caso, si può dire quanto segue:

  1. per l’Ici 2006 il Comune doveva inviare avviso di accertamento entro il 31.12.2011, mentre per l’Ici 2007 l’avviso di accertamento doveva essere notificato all’indirizzo del contribuente entro il 31.12.2012;
  2. siccome la cartella deve poi essere inviata entro il 31 dicembre del terzo anno successivo a quello in cui gli avvisi di accertamento sono diventati definitivi (e gli avvisi diventano definitivi sessanta giorni dopo la loro notificazione all’indirizzo del contribuente) e siccome nel suo caso la cartella risulta notificata il 10.10.2015, si può dire che la cartella è regolare (cioè è stata inviata nel rispetto del termine di legge) se gli avvisi di accertamento (Ici 2006 e 2007) siano pervenuti all’indirizzo del contribuente dopo all’anno in cui gli avvisi sono diventati definitivi); se, invece, gli avvisi di accertamento fossero pervenuti prima del 01.11.2011, allora la cartella notificata il 10.10.2015 è da considerarsi tardiva (in questo caso, infatti, gli avvisi diventavano definitivi nel corso del 2011, cioè scadeva nel corso del 2011 il sessantesimo giorno successivo alla notificazione degli avvisi e, quindi, il termine per la notificazione della cartella scadeva il 31.12.2014, cioè il 31 dicembre del terzo anno successivo all’anno in cui gli avvisi sono diventati definitivi).il 01.11.2011 (in tal caso, infatti, gli avvisi diventavano definitivi all’inizio del 2012 – cioè sessanta giorni dopo la loro notificazione – e, quindi, il termine per la notificazione della cartella scadeva il 31.12.2015, cioè il 31 dicembre del terzo anno successivo.

Tuttavia, anche se nel caso del lettore la cartella dovesse essere tardiva, vi è da precisare che la cartella può essere impugnata entro e non oltre sessanta giorni da quando sia pervenuta all’indirizzo del contribuente altrimenti essa diventa definitiva e non può più essere contestata.

Se la cartella è stata notificata il 10.10.2015, già scaduto il termine di sessanta giorni per poterla impugnare davanti alla Commissione tributaria provinciale (per ottenere il suo annullamento), per cui non è più possibile eccepire la sua tardività (ammesso che vi sia) ed essa è definitiva e non più impugnabile. Allo stesso modo, un’eventuale istanza in autotutela (ammesso e non concesso che la cartella sia tardiva) è assai probabile che sarebbe respinta proprio perché la cartella, regolare o no, è ormai diventata definitiva. In ogni caso, anche se si volesse presentare un’istanza in autotutela (una volta che si sia accertato che la cartella sia tardiva e cioè una volta che si sia accertato che gli avvisi di accertamento siano stati notificati prima del 01.11.2011), si deve tener presente che l’istanza in autotutela non sospende la decorrenza degli interessi da calcolarsi sul dovuto e non sospende le procedure di riscossione di Equitalia (la quale, una volta che siano passati 120 giorni da quando è pervenuto l’avviso, potrà avviare le procedure cautelari quali, ad esempio, il fermo amministrativo dell’autoveicolo di proprietà o anche le procedure esecutive come pignoramenti di stipendi o pensioni o di conti correnti bancari o postali).

Infine:

  1. a) le date di notificazione degli avvisi di accertamento dell’Ici 2006 e dell’Ici 2007 (che sono comunque indispensabili per comprendere se la cartella di pagamento sia tardiva o no, anche se essa non risulta più oggi contestabile) possono essere individuate nella stessa cartella di pagamento notificata il 10.10.2015;
  2. b) è possibile chiedere ad Equitalia (in alternativa all’istanza in autotutela), la rateizzazione dell’importo da pagare (la rateizzazione, una volta concessa e sottoscritta dal contribuente, impedisce ad Equitalia di avviare la procedura di fermo amministrativo o di procedere con azioni esecutive di pignoramento in danno del debitore).

Articolo tratto da una consulenza dell’avv. Angelo Forte

note

[1] L. n. 296 del 2007 che è in vigore dal 1.1.2007, ma che è comunque applicabile anche all’Ici 2006.

Il cibo buono ……  di una volta…..

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Cioè mo mi volete intossicare pure la birra e le patatine, non ci bastava che siete arrivati a mettere il caviale Beluga con pagliuzze di platino e diamanti per sopra la pizza fatta, invece che con la comune farina, con polline di orchidea e il lievito figlio di madre surrogata; che l’hamburger, siccome non vi bastava la chianina o la marchigiana, me lo fate di manzo Kobe misto a recchie di cavalluccio marino albino. Ci stanno certe cose che non si possono nobilitare guardate, perché se mi fate la versione della Nutella, senza olio di palma, a basso contenuto di colesterolo, con il cacao andino areato prima di soggiornarci, cioè per me non tiene più la valenza della trasgressione, mi togliete lo sfizio di pensare che sto a fare una porcata pazzesca, un peccato mortale. Che se da dentro a una merendina confezionata ci levate i grassi idrogenati, i conservanti, i coloranti, gli zuccherini radioattivi, non tiene manco più senso che una mamma si vada a studiare i nascondigli più impervi – la mia, potevano venire pure i ladri e fottersi i gioielli di famiglia, metteva le girelle e i buondì Motta nella cassaforte – per non farle trovare ai figli. Che quando poi scoprivi il nascondiglio segreto, queste cose tenevano il sapore più buono del mondo, che manco se vai a mangiare nel migliore ristorante stellato ritroverai mai più. Per cui, per cortesia, nun a voglio a birra artigianale dei monaci ermafroditi del Caucaso con le patane viola a strisce gialle, incartate a una a una per conservarne la freschezza, da gustare – secondo le istruzioni sulla busta – davanti ad una retrospettiva di Kurosawa, lasciatemi alla mia deriva autolesionista a base di Peroni, San Carlo e l’ennesima replica di un film di Totò. 

F.to Francesca  Prisco 

Migrazioni : alle radici del male

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Questa settimana desidero fare un passo ulteriore. Questo blog si occupa di cultura internazionale, perciò non si limiterà a trattare solo questioni che coinvolgono in primo piano l’Italia, bensì anche quelle che apparentemente non c’entrano nulla con noi.

 Sottolineo l’”apparentemente”, dal momento che qualunque cosa succede in questo mondo si riverbera su di noi anche se non ce ne accorgiamo o, pur accorgendocene, poi ce ne dimentichiamo. D’altronde, nell’immaginario collettivo, la guerra dello Yom Kippur nel 1973 fra Egitto, Siria e Israele riguardava solo quegli Stati e le loro ataviche (per noi) questioni da risolvere!  Anche la rivoluzione khomeinista, del 1979, la prima cosa cui fa pensare è l’assalto all’ambasciata americana a Teheran con il sequestro dei suoi dipendenti per ben 15 mesi (il film “Argo” ce lo ha recentemente ricordato). Uno scontro tra titani, tra due Stati, entità comunque estranee alla nostra realtà.

Ma non è così. Non siamo una monade. Tutto ci riguarda. Anche l’Italia ne risentì!

Rileggete le date: 1973 e 1979. Ricordate le targhe alterne? La crisi, anzi le crisi petrolifere degli anni ’70? Bene, da dove sono nate? E chi ne ha pagato gli effetti?

 Siamo in un mondo in cui davvero “il minimo battito d’ali di una farfalla è in grado di provocare un uragano dall’altra parte del mondo”. Se poi al posto del battito di una farfalla abbiamo eventi più cruenti, cosa dobbiamo aspettarci al posto dell’uragano?

 Quello di cui voglio parlarvi oggi è il genocidio. Ce n’è uno in corso e nessuno, o quasi, ne parla. Non perché non sia noto a chi di dovere, anzi. Prendete nota di una cosa: raramente un evento “internazionale” è imprevedibile. In genere esso si costruisce nel tempo, in anni, neppure in mesi. I segnali e le avvisaglie ci sono sempre, sotto gli occhi di tutti coloro che vogliono coglierli. L’intervento russo in Siria sembra un evento spiazzante, ma lo ritroviamo annunciato nei verbali degli ultimi due anni del Consiglio di sicurezza. Quando la Russia ha iniziato i bombardamenti, qualcuno mi ha scritto “Irene, tu lo avevi detto!”. Ma io non sono una veggente, né tantomeno Putin mi aveva fatto una soffiata. Era più o meno tutto scritto: andava solo individuato il “quando” ma tutto il resto era pressoché ineludibile.

 Stessa cosa per quello di cui vi sto per parlare: più giù vi segnalerò un articolo di un anno fa, che riporta la notizia del fatto che le Nazioni Unite avvisavano della preparazione del genocidio in corso. Della preparazione! Cosa abbiamo fatto in quest’anno? Cosa abbiamo fatto per evitarlo?

A parte lo stigma per l’atrocità della cosa e lo sdegno che può suscitare in noi, quali ne possono essere gli effetti?

 Per farvi capire meglio dove voglio andare a parare vi ho preparato una cartina: in rosso, tra Ruanda, Tanzania e Repubblica Democratica del Congo, trovate il Burundi, sì, quel puntino! In azzurro vi ho segnalato i paesi africani da cui provengono la maggior parte dei migranti che arrivano in Italia. Abbiamo sempre sulla bocca il nord Africa, ma esso costituisce perlopiù solo il luogo di transito. I posti da dove è iniziata e continua la spinta sono più a sud, al di sotto del Sahel, quella fascia opacizzata che vi ho segnalato in cartina. E quei posti, piano piano, li esamineremo uno per uno.

Con le stelline ho indicato i principali conflitti in corso, i principali non tutti!

E con quel rombo verde, tra Eritrea, Etiopia e Somalia, vi ho voluto indicare uno staterello, di cui nessuno parla ma dove l’Italia ha parecchi interessi oltre che una bella postazione militare: Gibuti.

 Vi ho segnalato il Mare Arabico, che è quello dove si svolgono le più grosse azioni antipirateria e dove, per intenderci, l’India ha illegalmente inseguito l’Enrica Lexie e arrestato i nostri Marò.

 Non che i pirati stiano solo lì, ma è lì che gli Stati hanno il maggior interesse a tutelare le rotte: quello è uno snodo di traffici di impareggiabile valore. A tal proposito vi ho segnalato lo stretto di Hormuz, tanto citato perché se l’Iran lo chiude ci blocca il grosso dei rifornimenti di petrolio.

E solo un po’ più su, ecco l’Afghanistan! Il “cuore del mondo”, secondo le tradizionali teorie geopolitiche.

 Vedete, questa (l’intera area che vi ho descritto) è una zona di cui nessuno di noi può ignorare l’esistenza e, possibilmente, le dinamiche principali. Lì si decidono la maggior parte delle cose di questo mondo – non tutte, ma moltissime! -; mentre ce le fanno passare per luoghi esotici e lontani, gli Stati fanno i loro giochi. Dobbiamo imparare a sentirli posti vicini, più vicini che mai.

Io cercherò di accompagnare il più possibile chi di voi abbia voglia di fare anche questo percorso.

 Dopo questa lunghissima premessa, a mio parere necessaria, partiamo.

Perché vi riporto la notizia del Burundi e del genocidio in corso? Perché rischia di coinvolgere, se non fermato in tempo, i vicini Congo, Tanzania, Ruanda e Uganda.

Guardate nella cartina quale sarebbe l’estensione del conflitto. Noi già abbiamo militari italiani in Repubblica Centrafricana oltre che tra Kenya e Somalia, perché le situazioni di quei Paesi son già di per sé molto preoccupanti. Di quanto si aggreverebbe la cosa con un’ulteriore ed esplosivo conflitto regionale?

 Da osservatrice esterna, l’impressione che ho avuto io è che un conflitto etnico sia di gran lunga peggiore di quello religioso. Ha radici ancora più profonde ed effetti più devastanti.

 Alcuni ci vedono lo zampino francese, perché facendo scoppiare un conflitto allargato, tornerebbe ad essere l’attore europeo principale nella zona. Certo, sarebbe un ossimoro, visto che la Francia è uno dei pochi Stati a condannare, anche con legislazione interna, il crimine di genocidio; è quella che intervenne per prima con un’operazione (la mission Turquoise) in Ruanda dopo il genocidio; e via dicendo. Tuttavia, la cosa non mi sorprenderebbe, se consideriamo come si comportò la Francia proprio nel genocidio ruandese.

 Innanzitutto, cos’è un genocidio?

Vi riporto la definizione della Convenzione ONU del 1948 che è più che esaustiva (art. 2):

per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso, come tale:

a) uccisione di membri del gruppo;

b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;

c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;

d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;

e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.

Quindi, le condotte che integrano il genocidio sono solo quelle in elenco.

 Ad esempio, si è cercato di far passare il concetto di “genocidio culturale” perpetrato dalla Cina nei confronti del Tibet, ma è difficile far combaciare le condotte. In più, come vi ho evidenziato, l’atto deve essere contro un gruppo, non un individuo. E soprattutto solo nei confronti di un certo tipo di gruppi: o nazionale o etnico o razziale o religioso. Non anche nei confronti di un gruppo “culturale”.

Inoltre, è necessario che la condotta contro questo gruppo sia posta in essere con la lucida e perfetta intenzione di distruggerlo, in tutto o in parte. Altrimenti avremo “semplice” sterminio, non genocidio.

Vi faccio queste distinzioni perché per ognuna di queste definizioni c’è una normativa, quindi tutto cambia. La definizione è importante.

 Fatta la premessa giuridica, andiamo ai fatti.

 In questo post, pur agganciandomi al Burundi, non vi parlerò della situazione in corso lì (però, per averne un’idea vi rinvio alla lettura di questo articolo: Burundi. Le Nazioni Unite informano della preparazione di un genocidio. E’ un articolo dello scorso anno, che però descrive abbastanza fedelmente la situazione in quel Paese, che non è cambiata di molto. Si è solo più radicata. Tant’è che quattro giorni fa ha avuto inizio il genocidio).

Io invece voglio parlarvi delle radici profonde che stanno alla base di quanto avviene ora in Burundi (quindi l’articolo sul Burundi vi consiglio di leggerlo dopo questo post).

 1994: Ruanda. Il Paese più densamente popolato dell’Africa, fino a quell’anno. La dinamica che si ripropone in Burundi è la stessa del genocidio ruandese: Hutu contro Tutsi. È la stessa per il semplice fatto che Ruanda e Burundi facevano parte dello stesso territorio coloniale, sotto dominio belga, che prendeva il nome di Ruanda-Urundi.

La percezione di questa divisione etnica è stata in gran parte effetto del dominio coloniale europeo, prima tedesco (dal 1897) e poi belga (1917, su mandato della Società delle Nazioni). L’antropologia razzista teorizzò che i Tutsi appartenevano a una razza diversa dagli Hutu (i termini esistevano già prima, ma si riferivano agli individui e non ai gruppi!) e questa distinzione doveva essere indicata nelle carte d’identità che i coloni introdussero. I Tutsi erano considerati intrinsecamente superiori in quanto più simili agli europei, infatti erano più alti e più chiari di pelle, quindi più intelligenti e più adatti al governo. Fu così che, sebbene gli Hutu fossero oltre l’80% della popolazione, i rappresentanti del governo coloniale erano i Tutsi.

La prima avvisaglia dell’odio covato si ebbe con le prime elezioni libere a suffragio universale (chieste dall’ONU al Belgio) nel 1956 in cui gli Hutu ottennero inevitabilmente la maggioranza. Ciò indusse il Belgio a dare progressivamente al Ruanda l’autogoverno, fino all’indipendenza nel 1962. In questa situazione di minoranza, i Tutsi emigrano in Uganda e Burundi, da cui facevano incursioni in Ruanda. Dal 1975 il generale Habyarimana prese il potere, con un colpo di stato, fino al 6 aprile 1994, giorno in cui l’aereo presidenziale su cui si trovava venne abbattuto da un missile terra-aria.

 Nel frattempo in Uganda si era organizzato il Fronte Patriottico Ruandese, composto da Tutsi, che nei primi anni ’90 aveva tentato un colpo di stato in Ruanda, non riuscendoci ma accendendo ulteriormente gli animi. Per “difendersi” da queste incursioni, il presidente Habyarimana (Hutu) aveva alimentato campagne d’odio attraverso l’utilizzo della radio, in particolare Radio Ruanda e Radio Mille Colline.

 Fatto sta che all’indomani dell’abbattimento dell’aereo presidenziale, gli hutu si riversarono contro i tutsi e contro gli hutu moderati che costituivano l’opposizione interna. Il via ai massacri fu dato proprio da Radio Mille Colline che incitava i cittadini a uccidere gli “scarafaggi tutsi”. Uno dei suoi conduttori fu l’unico non ruandese ad essere condannato dal Tribunale internazionale: Georges Omar Ruggiu, un italo-belga che dopo la condanna fu portato in Italia a scontare la pena, ma – come vi riferisce l’articolo che vi ho segnalato – nel 2009 esce di prigione (no comment).

 In cento giorni furono uccise circa un milione di persone, quindi cica 400 persone in un’ora, 6 persone al minuto. Fu una carneficina, a dir poco. Fu prevalentemente condotta a colpi di machete, ma per raggiungere le vette raggiunte in così poco tempo fu spesso utilizzata la tattica delle trappole: a migliaia di persone veniva assicurato un rifugio sicuro dentro degli edifici (chiese, comuni, scuole, palestre, ecc.) che, una volta riempiti, venivano sigillati e sistematicamente abbattuti. Ad aiutarli vi erano gli “insospettabili”, tra cui anche preti. Ad esempio Padre Seromba, che dopo i fatti era fuggito in Italia sotto falso nome e si era rifugiato in una parrocchia del fiorentino. Rintracciato, fu condannato per genocidio e sterminio per aver fatto abbattere a colpi d’artiglieria la propria chiesa parrocchiale in Ruanda, al fine di uccidere circa 2000 Tutsi che vi avevano cercato rifugio, e per aver poi partecipato in modo attivo al successivo massacro dei pochi superstiti.

 L’ONU a quel tempo aveva già una missione in territorio ruandese (l’UNAMIR – United Nations Assistance Mission for Rwanda), creata l’anno prima. Ma gli appelli del suo comandante, il generale Roméo Dallaire, – che mesi dopo tentò il suicidio per le scene a dir poco traumatiche cui aveva assistito – rimasero del tutto inascoltati: allertava sull’imminente genocidio in preparazione e chiese più uomini. Ma non solo questi gli vennero negati, bensì – una volta iniziata l’attività genocidiaria – questi uomini furono rispediti a casa e il contingente drasticamente ridotto: da 2.500 a 500.  Dallaire si rifiutò di lasciare il territorio ruandese e con gli uomini che gli erano rimasti riuscì a salvare migliaia di Tutsi.

Il Consiglio di sicurezza non riconosceva il genocidio in Ruanda per via del veto USA. Per sei settimane l’UNAMIR tentò di portare avanti un negoziato e, alla fine, il 17 maggio il Consiglio di sicurezza approvò l’invio di 5.500 uomini. MA, come vi ho spiegato nell’articolo precedente, non esiste un esercito ONU. I singoli Stati mandano un tot di uomini e poi tutti insieme appassionatamente si va in missione con il marchio ONU. Ebbene, in quest’occasione i singoli Stati si rifiutarono di mandare i propri uomini finché la violenza non si fosse un po’ calmata. Si arriva così al 22 giugno (ormai il massacro dei Tutsi stava volgendo al termine), giorno in cui il Consiglio di sicurezza approva la Mission Turquoise, composta da caschi blu francesi.

 La Francia però nei mesi precedenti, assieme al Belgio, era intervenuta in Ruanda: aveva mandato truppe per recuperare i propri cittadini sul luogo e poi andarsene. Il governo francese, inoltre, negli anni aveva armato e addestrato le FAR (forze armate ruandesi, quelle presidenziali) e aveva fiancheggiato le milizie hutu che si ritiravano dopo il genocidio quandoi Tutsi del Fronte patriottico, che vi ho citato su, entrarono in territorio ruandese raggiungendo Kigali (la capitale del Ruanda) e dando avvio a un governo tutsi.

La maggior parte dei mandanti e dei perpetratori del genocidio trovarono rifugio in quello che allora si chiamava Zaire, ora Repubblica democratica del Congo.

 La storia si ripete. Stavolta tocca al Burundi.

 Postilla: ricordatevi che eravamo nel 1994. Solo l’anno prima, l’amministrazione Clinton e gli americani avevano subito il trauma della battaglia di Mogadiscio (anche qui un film ci viene in soccorso, “Black Hawk Down”). Per la prima volta gli americani, i cittadini, avevano visto in diretta l’uccisione dei loro uomini. Un conto sono i bollettini di guerra, scritti, con una lista di nomi e di numeri; un conto è vedere live le atrocità fatte ai tuoi connazionali. Tutto ciò aveva portato alla decisione americana di lasciare la Somalia.

https://www.ameimportasoltantodisapere.com/single-post/2016/03/05/Migrazioni-AD-2015-Parte-Terza-Che-SAR-SAR%C3%A0

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