Migrazioni A.D. 2015: Parte Terza. Che SAR SARà?!

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March 5, 2016

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Irene Piccolo

 

Ho voluto ritornare tra di voi con un titolo scherzoso, ma che allo stesso tempo racchiude in sé i due punti su cui mi concentrerò:

a) le zone SAR. Cosa sono? Che obblighi comportano? Cosa hanno a che fare con l’affaire migrazioni?

b) a che punto siamo e soprattutto dove andiamo con le politiche, europee e nazionali, degli ultimi mesi. Che ne sarà di tutto questo?

Gli ultimi travagliati mesi non mi hanno impedito di accendere la TV e sentire castronerie e, da meridionale “infiammabile” quale sono, accendermi di incredulità che gradualmente ma inarrestabilmente si trasformava in rabbia. Molto spesso mi dicono che mi arrabbio perché ho in me la forza “devastatrice” dei giovani, che – in un’aspirazione verso la giustizia sociale e ideali perlopiù iperuranei da perseguire – mi faccio prendere da strani e irrealistici moti di entusiasmo; che quindi con il tempo mi passerà lasciando spazio alla rassegnazione.

Questo mi fa arrabbiare ancor di più, dal momento che la penso come uno dei nostri migliori filosofi: l’umanità più anziana siamo noi, persone dell’oggi, dal momento che pur essendo nati successivamente abbiamo tutto il bagaglio di esperienze fatte da chi ci ha preceduto nei secoli passati. Siamo noi l’umanità anziana, i giovani erano i Greci e i Latini, i neonati gli uomini primitivi. Noi siamo gli anziani. Noi siamo i Saggi. Noi siamo quelli che, per tutto quello che ci è stato consentito di imparare e per tutto quello che potenzialmente siamo in grado di conoscere grazie al passato, dovremmo saper avere una migliore visione d’insieme e soprattutto trovare soluzioni scartando quelle che più volte si sono dimostrate fallimentari.

Povera illusa, dirà qualcuno di voi! E ci sta, perfettamente: semplicemente, pur ammettendo la possibilità di fragoroso fallimento tra le opzioni che si prospettano davanti a me, io scelgo di non levarmi di dosso questa responsabilità, quella di provare e migliorare. E non la levo di dosso neanche agli altri. Questo “comodo sollievo” non lo concedo a nessuno. Accetto/ammetto/tollero il fallimento solo dopo il tentativo, non dopo la rinuncia. Altrimenti siamo tutti colpevoli dello stato di cose in cui versiamo, come minimo per connivenza.

A voi rendo il carico di responsabilità più gravoso raccontandovi quel che so; più cresce la vostra consapevolezza, più cresce la vostra responsabilità. E perciò partiamo, smentendo un po’ di disinformazioni circolate:

  1. L’Italia non può e non deve andare fin davanti le coste libiche a salvare chi sta annegando;

  2. A maggior ragione non deve farlo se è palese che la chiamata di soccorso che fanno queste carrette del mare sono studiate a tavolino dagli scafisti che si dicono tra sé e sé “l’importante è riuscire ad arrivare a un certo punto del tragitto, poi chiamiamo i soccorsi e il resto lo fanno gli italiani”.

Mi fermo qui.

Dunque, tra di voi c’è sicuramente qualche uomo di mare che mi legge. E non sarà la prima volta che sente dire che nella legge del mare la vita umana viene prima di ogni altra cosa. La legge del mare ha un suo codice di condotta/onore: un uomo in mare, chiunque egli sia, va sempre tratto in salvo. Non c’è ragione di opportunità che tenga.

Il diritto del mare è l’esempio unico e indiscusso di diritto in cui gli usi e le consuetudini quasi prevalgono e comunque integrano le leggi scritte. Anche il diritto internazionale davanti a ciò fa un passo indietro, prende atto di questo stato di cose e, anziché sostituire tali regole non scritte e nazionali, dà loro il rango di norma internazionale. Ne rafforza la vigenza.

Dopo questa premessa d’obbligo, entriamo nel vivo.

SAR è l’acronimo di Search And Rescue (Ricerca e Salvataggio). Secondo una convenzione internazionale, firmata ad Amburgo nel 1979, ogni Stato Parte alla convenzione ha l’OBBLIGO di istituire una zona SAR di propria competenza, o meglio di propria responsabilità. Gli Stati attualmente Parti della Convenzione sono 106, che non significa scarsa adesione visto che la comunità internazionale conta quasi 200 Stati: semplicemente gli Stati land-locked (senza accesso al mare) sono meno interessati, sebbene gli obblighi generali di soccorso gravino anche su di essi in virtù della natura consuetudinaria di alcune norme, come vedremo più avanti.

In precedenza la Convenzione internazionale per la sicurezza della vita in mare del 1974 (SOLAS, acronimo di Safety of Life at Sea162 Stati Parti) aveva previsto che gli Stati parte organizzassero meccanismi di comunicazione e coordinamento in situazione di «distress» nelle loro «rispettive aree di responsabilità» e per il salvataggio di persone in pericolo «intorno alle loro coste», per cui la Convenzione di Amburgo non ha fatto altro che dettagliarne le previsioni.

La zona SAR va oltre il mare territoriale (12 miglia marine dalla costa) di cui vi ho parlato in uno degli articoli sui marò; essa si estende dalla fine del mar territoriale fino a un certo limite, prefissato con accordi bilaterali, che si pone nelle acque internazionali e che coincide con l’inizio dell’area SAR dello Stato confinante. In sostanza, non vi può essere un pezzo di mare non coperto da qualche Stato che si impegna a svolgere le attività di soccorso per le persone in difficoltà. Il globo acqueo viene diviso in zone, quindi, di responsabilità, anche condivisa se del caso (ad es. per l’Artico vi è uno specifico accordo stipulato nel 2011, tra Canada, Danimarca, Finlandia, Islanda, Federazione Russa, Regno Unito, Stati Uniti).

Ho fatto uno screenshot che vi permette di visualizzare le zone SAR a livello globale.

 

Ora zoomiamo sull’Europa. Tra i 106 Stati Parti alla Convenzione di Amburgo, ritroviamo anche la Libia (dal 2005), che comunque non ha mai istituzionalizzato la zona SAR. Tuttavia, nel momento in cui uno Stato viene meno nelle sue istituzioni, molti apparati crollano. Se in Libia attualmente non c’è un governo che possa dirsi tale, figuriamoci se può esserci un Ministero dei Trasporti o uno della Difesa e via dicendo. Va da sé, che è tutto vittima di implosione.

 

 

Rebus sic stantibus, è palese ed evidente che non c’è nessuna autorità in Libia che possa assumersi la responsabilità di svolgere le attività di soccorso e salvataggio nell’area SAR libica. Allora che succede? Quella zona rimane scoperta?

No. Per Convenzione, sarà l’autorità nazionale che ha avuto il primo contatto con la persona in pericolo in mare (vedi richiesta di aiuto ricevuta dall’Italia) a coordinare le operazioni di salvataggio tanto nel caso in cui l’autorità nazionale competente S.A.R. dia risposta negativa alla possibilità di intervenire in tempi utili (come fa spesso e volentieri Malta) quanto in assenza di ogni riscontro da parte di quest’ultima (come c’è da immaginarsi per la Libia… quale autorità libica dovrebbe darci riscontro se le autorità statali libiche si sono dissolte? Ragioniamo!).

Questa regola esisteva già ancor prima dell’istituzione delle zone SAR; era infatti già prevista dalla Convenzione di Ginevra del 1958 (art. 12) che a sua volta non faceva altro che codificare una regola di rango consuetudinario. Quindi, come vi ho già spiegato in articoli precedenti, una norma non scritta che vincola tutti gli Stati che compongono la comunità internazionale. Tutto ciò si rafforza anche con i due emendamenti adottati dall’IMO (International Marittime Organization) nel maggio 2004 alla Convenzione SOLAS e a quella di Amburgo (SAR) – entrati in vigore nel 2006 –, con cui due obblighi si integrano: quello del comandante di prestare assistenza e quello degli Stati competenti per la regione SAR di cooperare nelle operazioni di soccorso e di prendersi in carico i naufraghi individuando e fornendo al più presto, la disponibilità di un luogo di sicurezza (place of safety). [nb. Per Malta questo “luogo sicuro”, previsto dal cap. V della SOLAS, non è La Valletta – quale sede del centro maltese responsabile del soccorso – bensì Lampedusa, se più vicina al punto in cui i migranti sono stati assistiti, anche se tale punto si trova nella immensa zona SAR che Malta si è autoattribuita. Parliamone…].

La zona libica passa – per così dire – “in gestione” all’autorità SAR in funzione più vicina. Quindi l’Italia.

Anche se qualcuno mi potrebbe obiettare: ma tra l’Italia e la Libia c’è Malta. Perché dobbiamo andarci noi?

 Vi riporto la cartina che evidenzia la “pretesa” zona SAR di Malta. Una zona SAR che è 750 volte superiore al territorio di cui è costituito lo stato maltese. Inutile dire che non solo Malta non è in grado di far fronte alla responsabilità che vorrebbe assumersi (tant’è che spesso chiede aiuto!), ma soprattutto crea confusione e subbuglio, perché in alcuni tratti la presunta zona SAR maltese si sovrappone a quella italiana e, in certi casi, anche a quella libica, greca e turca. Con la sovrapposizione, non sai mai a chi tocca cosa… A maggior ragione perché la cooperazione SAR tra Italia e Malta non è stata mai istituzionalizzata da alcun accordo, nonostante ciò sia raccomandato dalla convenzione di Amburgo e nonostante i rapporti tra i due Paesi siano stati sempre eccellenti a livello politico.

A ogni modo va da sé che se Malta non riesce a badare alla sua zona SAR, figuriamoci se può prendersi in carico anche quella libica. Quindi, la palla passa al gigante buono: l’Italia.

Quali obblighi impone la Convenzione di Amburgo?

Le Parti assicurano che sia fornita assistenza a qualunque persona in pericolo in mare. Lo fanno senza riguardo alcuno alla nazionalità o allo status di tale persona o alle circostanze in cui tale persona viene trovata” (art. 2.1.10 Allegato 1 alla Convenzione)

Mi pare molto chiaro il concetto e quasi impossibile da interpretare liberamente. Tuttavia, c’è chi prova ad affermare che il pericolo sussisterebbe solo quando siamo davanti a una nave che sta affondando… ma se la nave, sovraccarica in maniera sproporzionata ed esagerata, ancora galleggia, posso tranquillamente girare la testa dall’altra parte e continuare per la mia strada, anche con la coscienza sporca di sapere che nei cinque minuti successivi l’affondamento potrebbe avere luogo.

A maggior ragione se si fa una mera riflessione: la convenzione SOLAS ci detta gli standard per la sicura navigazione in mare, a tutela sia delle persone a bordo della nave stessa che delle navi che con essa si incrociano. Sia se fate un riscontro di dettaglio, ma anche ictu oculi, potrete concludere che le “carrette del mare” non rispettano gli standard di sicurezza internazionalmente richiesti. Ergo, tali carrette non possono dirsi sicure, bensì di condizioni tali da mettere in pericolo la sicurezza marittima. Da ciò deriva la circostanza che la richiesta di soccorso può pervenire agli organi SAR nazionali prima che si verifichi un evento pregiudizievole per la vita delle persone trasportate. Basta un semplice sillogismo aristotelico per arrivare alla risposta corretta.

Il diritto a volte è freddo, ma non è inumano. Specialmente nel corso del Novecento il diritto internazionale ha imposto a tutte le altre branche del diritto di mettere al centro la persona umana: se anche nel diritto dei conflitti armati, il principio di umanità è il cardine, davvero pensate che il diritto possa in qualche modo giustificare atteggiamenti inumani come l’abbandono di un naufrago a morte certa, chiunque egli sia? No, il diritto non li giustifica. Se la coscienza lo fa, credo abbia bisogno di fare seri esami di se stessa.

A ogni modo, per la Convenzione di Amburgo cui l’Italia è vincolata, la situazione di pericolo è intesa come “una situazione dove vi è una ragionevole certezza che l’imbarcazione o la persona è minacciata da grave e imminente pericolo e richiede assistenza immediata”.

Il principio è ribadito sia dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Convenzione UNCLOS – 167 Stati Parti) secondo cui “Ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri: (a) presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita; (b) proceda quanto più velocemente è possibile al soccorso delle persone in pericolo, se viene a conoscenza del loro bisogno di assistenza, nella misura in cui ci si può ragionevolmente aspettare da lui tale iniziativa” sia dalla Convenzione SOLAS già citata, la quale obbliga il “comandante di una nave che si trovi nella posizione di essere in grado di prestare assistenza, avendo ricevuto informazione da qualsiasi fonte circa la presenza di persone in pericolo in mare, a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza, se possibile informando gli interessati o il servizio di ricerca e soccorso del fatto che la nave sta effettuando tale operazione”.

Secondo la Convenzione di Montego Bay (UNCLOS), inoltre, il soccorso a persone o navi in pericolo è possibile anche nelle acque territoriali straniere (art. 18 co. 2), quindi pone una deroga al principio del “passaggio continuo e rapido” previsto dal regime del transito inoffensivo. Non si sfugge…

Aggiungiamo, infine, per spirito di completezza la Convenzione di Londra del 1989 sull’assistenza, il cui art. 10 ribadisce il concetto: “1. Ogni capitano è tenuto a prestare assistenza a qualsiasi persona che si trovi in pericolo di perdersi in mare, nella misura in cui ciò non arrechi gravi pregiudizi alla sua nave e alle persone a bordo.

Nel concreto, in Italia, il compito è affidato al comando generale del corpo delle capitanerie di porto che assicura il coordinamento di tutti i sub-center interessati dalla procedura e dislocati su territorio nazionale. Quando ricevono una richiesta di aiuto, è possibile che non vi siano navi collegate al corpo in grado di intervenire. A quel punto, per svolgere il ruolo di ricerca e salvataggio verrà cooptata qualunque imbarcazione si trovi nelle vicinanze della situazione di pericolo (ad esempio, per il soccorso dei migranti molti mercantili vengono distratti dalla loro rotta).

Per anni l’Italia ha salvato migliaia di vite nel Mediterraneo, spingendosi fino al limite delle acque territoriali libiche e maltesi, operando, dunque, al di fuori della zona SAR. Ma dopo la strage di Lampedusa (3 ottobre 2013), l’Italia ha deciso di impegnarsi ancora di più istituendo, senza aspettare i tempi elefantiaci dell’Unione Europea, la missione Mare Nostrum (18 ottobre 2013), che vedeva impiegato il personale e i mezzi navali e aerei della Marina Militare, dell’Esercito, dell’Aeronautica Militare, dei Carabinieri, della Guardia di Finanza, della Guardia Costiera nonché personale del Ministero dell’Interno – Polizia di stato imbarcato sulle Unità della Marina Militare e di tutti i Corpi dello Stato che, a vario titolo, concorrono al controllo dei flussi migratori via mare. In deroga al piano nazionale SAR, il ruolo di autorità coordinatrice non venne assegnato ad una unità di terra ma ad una unità marina, la nave San Marco. La ragione, di opportunità, sembra evidente: è al centro del teatro delle operazioni di soccorso.

“Mare Nostrum” affiancava due operazioni attivate da FRONTEX, l’agenzia europea che promuove la sicurezza e la gestione dei confini, che quindi era già presente nei nostri mari:

  1. Hermes, che aveva l’obiettivo di contrastare l’immigrazione irregolare da Tunisia, Libia e Algeria verso le coste italiane;

  2. Aeneas, nel mar Jonio, per vigilare sulle coste pugliesi e calabresi.

Alla fine di agosto del 2014, coi flussi in aumento, FRONTEX pensò di avviare “FRONTEX PLUS” a supporto di “Mare Nostrum” per garantire anche la lotta alle mafie sulle coste africane e agli scafisti.

Il 1° novembre 2014 è partita l’operazione “Triton”, che assorbe sia le precedenti operazioni di Frontex sia quella nazionale di “Mare Nostrum”, e cui si affianca, sin dal 2011, l’operazione Poseidon – che ultimamente sentiamo spesso nei nostri TG –  che invece guarda al Mar Egeo.  A “Triton” partecipano 29 paesi, ed è stata finanziata dall’Unione europea con 2,9 milioni di euro al mese: circa un terzo di quello che l’Italia aveva da sola destinato a Mare Nostrum (budget che nel dicembre 2015 sembra essere stato triplicato).

A differenza di quest’ultima, però, “Triton” prevede il controllo delle acque internazionali solamente fino a 30 miglia dalle coste italiane, per il semplice motivo che il mandato di FRONTEX è il controllo della frontiera e non il soccorso. Vi domanderete, allora, che fine va Amburgo? E le Convenzioni del mare in generale?

Dunque, qui necessita una premessa: l’Unione Europea è un’organizzazione internazionale, non uno Stato. In genere i Trattati internazionali sono siglati dagli Stati, sebbene nulla osti al fatto che un’organizzazione internazionale sigli una Convenzione. Tuttavia, è molto difficile.

A maggior ragione, se si pensa che l’Unione Europa è una organizzazione sui generis, che limita la sovranità statale in molti ambiti. Per cui, tendenzialmente, gli Stati evitano che l’Unione europea si vincoli in loro nome in alcune materie. Come vi ho raccontato in un precedente articolo sul sistema di Dublino, per esempio, l’Europa nel 1997 si è presa parte della competenza in materia di immigrazione ma continuano a essere gli Stati quelli che firmano trattati internazionali, l’UE agisce solo al suo interno, non nei confronti di Stati terzi.

Pensate che a Lisbona, quando nel 2007 si sono adottati i nuovi Trattati sull’Unione Europea e sul suo funzionamento, si è previsto espressamente che l’Unione Europea in quanto tale ratificasse la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), del Consiglio d’Europa. Ma a distanza di quasi dieci anni ancora non se n’è fatto nulla e probabilmente nulla se ne farà.

Questo vuol dire che l’Unione Europea come organizzazione, e di conseguenza i suoi organi, quale è l’agenzia FRONTEX, non è vincolata al rispetto delle Convenzioni di cui abbiamo parlato fino ad ora. Ciò, tuttavia, non svincola gli Stati che singolarmente hanno siglato tali trattati dagli impegni e dalle obbligazioni che hanno assunto. Sostanzialmente, l’Unione europea non risponde di nulla: le mazzate se le prendono i singoli Stati.

Da ciò potete capire la “leggerezza” con cui l’Europa affronta il tema.

Al contempo, da tutte le cose trattate finora, potete anche capire quanto sia molto più complessa la posizione dell’Italia quando – in maniera semplicistica – si dice “perché non facciamo come la Macedonia? O l’Ungheria? O in generale i Paesi balcanici che hanno innalzato i muri di filo spinato?”

Da un lato questi Paesi hanno confini terrestri, quindi non gravano su di loro tutte le norme sul mare (e ribadisco che quelle di cui abbiamo parlato qui sono norme di natura consuetudinaria, di conseguenza anche se – per assurdo – l’Italia decidesse di recedere dai trattati internazionali vi rimarrebbe comunque obbligata!); dall’altro, come vi ho raccontato in un altro articolo, essi hanno davvero alle porte il pericolo delle infiltrazioni terroristiche.

Conseguenze: cosa succede se non si salvano le persone in mare?

Dunque, l’Italia viola 3-4 convenzioni internazionali e 2-3 norme consuetudinarie; per il capitano della nave arriva una bella incriminazione per omissione di soccorso (art. 1158 del Codice della Navigazione – che già nel 1942 recepiva principi stabiliti dalla Convenzione di Bruxelles del 1910, per l’unificazione di alcune regole in materia di collisioni fra navi-: fino a otto anni di reclusione se dall’omesso soccorso deriva la morte della persona in pericolo); per la coscienza individuale e collettiva.. beh, fate vobis!

Migrazioni A.D.2015: Parte Seconda. Il Rifugiato, questo sconosciuto (o Dell’importanza di tornare a chiamare le cose con il loro nome)

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September 20, 2015
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Irene Piccolo

Rifugiato è chi scappa dalla guerra, chi proviene da contesti di carestia e povertà estrema, e va aiutato. Tutti gli altri sono migranti economici e vanno rispediti a casa propria.

Avete letto? Bene, adesso cancellate dalla vostra memoria tutto quanto è stato scritto nelle prime due righe perché in quelle parole non c’è un briciolo di verità.
La questione non è puramente teorica, dal momento che in base allo status delle persone che ci troviamo davanti, cambia la normativa applicabile e quindi gli obblighi che, come Stato, l’Italia ha o non ha verso di loro. E oggi mi preme affrontare due questioni:
Chi è il rifugiato e quali obblighi ha lo Stato nei suoi confronti?
L’asilo europeo che, mi dicono i telegiornali e mi dicono i politici, l’attuale governo avrebbe promosso quest’estate in sede europea.. mah!
Partiamo. Per la definizione di rifugiato, il testo di riferimento è la Convenzione di Ginevra del 1951, che nasce per offrire aiuto e soluzioni a quegli stranieri o apolidi che restavano sfollati o fuggitivi perché temevano di rientrare in patria dopo gli sconvolgimenti politici, etnici e territoriali successivi alla Seconda Guerra Mondiale e nel clima della c.d. “Guerra Fredda”. L’articolo 1 definisce rifugiato colui che “temendo a ragione di essere perseguitato per motivi di razza, religione, nazionalità, appartenenza ad un determinato gruppo sociale o per le sue opinioni politiche, si trova al di fuori del Paese di cui è cittadino e non può o non vuole, a causa di questo timore, avvalersi della protezione di questo Paese, ovvero che, non avendo la cittadinanza e trovandosi fuori dal Paese in cui aveva residenza abituale a seguito di tali avvenimenti non può o non vuole tornarvi per il timore di cui sopra”.
Quindi, gli elementi costitutivi dello status di rifugiato sono:
Timore fondato;
Persecuzione;
impossibilità e/o non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza e/o di residenza;
la presenza fuori dal Paese di cittadinanza o di residenza abituale.
Vedete in questi elementi la guerra? La carestia? La povertà?

Un esempio concreto recente – lo ricorderete tutti – è il caso di Alma Shalabayeva, moglie del dissidente kazako Ablyazov, prelevata dalla polizia italiana il 29 maggio 2013, espulsa verso il Kazakistan, riuscita a rientrare in Italia nel dicembre dello stesso anno e che ha richiesto asilo – ottenendolo – in Italia. Lì c’erano tutti gli elementi richiesti:
il 4), perché si trovava in Italia;
il 2) e il 3) perché il marito è un dissidente che si contrappone all’attuale presidente/dittatore kazako;
l’1) confermato dal fatto che, una volta rientrata in Kazakistan, neppure la popolazione kazaka sapeva dove fosse stata mandata. Se cliccate qui ritrovate il testo di una conversazione che ebbi, in quel periodo, con una mia amica kazaka che viveva ad Alma Ata (una delle principali città del Kazakistan).
Il sentimento del timore è rivolto verso il futuro, nel senso che non è necessario che la persona abbia già in passato subito persecuzioni, bensì deve avere un ragionevole timore di poterle subire nel futuro (magari perché i familiari o gli appartenenti al suo stesso gruppo sociale sono stati perseguitati). La persecuzione non ha un confine ben delineato, ma sicuramente vi rientrano la minaccia al diritto alla vita o alla libertà personale dell’individuo così come altre gravi violazioni dei diritti umani.
Il responsabile della persecuzione può essere lo Stato, partiti o organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, oppure soggetti non statuali, se i responsabili che ho citato in precedenza, comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire protezione all’individuo contro persecuzioni. Quindi c’è, in un modo o nell’altro, una connivenza dello Stato.

Facciamo un passo ulteriore.
NON è il riconoscimento da parte di uno Stato a rendere un rifugiato tale. Mi spiego meglio: un individuo è rifugiato nel momento stesso in cui i requisiti elencati dall’art. 1) della Convenzione di Ginevra si realizzano, sia che uno Stato lo riconosca sia che non lo riconosca. Il riconoscimento ha solo valore dichiarativo (lo Stato dichiara che effettivamente si trova alla presenza di un rifugiato), non costitutivo (non è il riconoscimento statale a “costituire” il rifugiato). Quindi, anche se uno Stato decidesse di adottare una politica per cui non riconosce tot persone come rifugiati (magari come soluzione alla situazione migratoria), ma quelle persone sono effettivamente rifugiate perché rispettano tutti i requisiti richiesti, ebbene è lo Stato che sta commettendo una violazione di diritto internazionale.
Spero che questo passaggio, sebbene piuttosto giuridico, sia chiaro.

Ovviamente, vi sono anche le cause per la cessazione dello status di rifugiato, nello specifico:
a) la riassunzione volontaria della protezione del Paese di cittadinanza;
b) il riacquisto volontario della cittadinanza del Paese di origine;
c) l’acquisto volontario della cittadinanza italiana o della cittadinanza di diverso Paese;
d) il ristabilimento volontario nel Paese rispetto a cui sussisteva il timore di persecuzione;
e) la possibilità di godere della protezione del Paese di cittadinanza a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato;
f) la possibilità di godere della protezione del Paese di dimora abituale, nel caso dell’apolide, a causa del venir meno delle circostanze che hanno determinato il riconoscimento dello status di rifugiato.

La Convenzione del 1951, infine, prevede però che la persona, pur rispettando tutti gli elementi costitutivi, non abbia diritto ad ottenere il riconoscimento qualora:
abbia già ricevuto la protezione da parte di altro organismo o istituzione delle Nazioni Unite;
sia considerata dalle autorità competenti del paese in cui ha stabilito la residenza come avente diritti ed obblighi connessi al possesso della cittadinanza di detto paese (c.d. quasi – cittadini);
“sussistono fondati motivi per ritenere che” (c.d. clausole di non meritevolezza):
a) abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l’umanità;
b) [vi riporto direttamente quanto previsto per l’Italia] abbia commesso al di fuori del territorio italiano, prima del rilascio del permesso di soggiorno in qualità di rifugiato, un reato grave ovvero che abbia commesso atti particolarmente crudeli, anche se perpetrati con un dichiarato obiettivo politico, che possano essere qualificati reati gravi (gravità valutata in base all’entità della pena: non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni);
c) si sia reso colpevole di atti contrari alle finalità ed ai principi delle nazioni Unite, quali stabiliti nel preambolo e negli articoli 1 e 2 della carta delle Nazioni Unite.

Entriamo sempre più nel concreto. Il respingimento, di cui tanto si è parlato per mesi e mesi in Italia.
L’art. 33 della Convenzione ONU, di cui l’Italia è parte, stabilisce il divieto di respingimento (c.d obbligo di non refoulement), che ha portata generale, cioè si applica sia nelle ipotesi di espulsione e/o respingimento tecnicamente intese, sia in qualsiasi altra forma di allontanamento forzato verso un territorio non protetto (tra cui misure di estradizione o di trasferimento informale del soggetto). Tale divieto si applica anche se la persona non è stata ancora riconosciuta rifugiata o non abbia formalizzato la domanda di asilo.
Tuttavia, la Convenzione fissa delle possibilità in cui lo Stato può respingere (articoli 32 e 33. 2): “per ragioni di sicurezza nazionale o ordine pubblico” e qualora “per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese”. Precisiamo: è il singolo, quello specifico individuo, che deve costituire un pericolo per il Paese. Quindi, se qualcuno dicesse “facciamo respingimenti di massa perché non ce la facciamo a reggere il peso dei migranti” (quindi pericolo, per esempio, per l’ordine pubblico o la sicurezza per via dei migranti), non farebbe altro che istigare alla commissione di una violazione di diritto internazionale.

A tal proposito, è bene avere presenti alcune cose: l’Italia è obbligata nei confronti dei rifugiati attraverso diverse normative, non solo la Convenzione di Ginevra del 1951.
Innanzitutto, dobbiamo rispettare la nostra Costituzione: l’articolo 10 (che vi propongo integralmente) dedica specificamente allo straniero tre commi su quattro.
“1. L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute.
2. La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali.
3. Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica secondo le condizioni stabilite dalla legge.
4. Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici.”

Successivamente, entra in gioco la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), che molti credono abbia a che fare con l’Unione europea ma che con l’Unione europea non c’entra nulla. Pensate che la prima delle comunità europee, la CECA (ve ne ho parlato nel precedente post), nasce l’anno dopo rispetto alla firma di questa importantissima Convenzione. Convenzione che è stata l’avanguardia della civiltà giuridica per anni e anni e che è stata fonte di ispirazione e oggetto di imitazione delle altre corti regionali. Tutti ce l’hanno invidiata per anni!
Questa Convenzione venne firmata il 4 novembre 1950, tra l’altro a Roma, dai Paesi facenti parte del Consiglio d’Europa. Piccola digressione: il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale che ha lo scopo di promuovere la democrazia, i diritti dell’uomo, l’identità culturale europea e la ricerca di soluzioni ai problemi sociali in Europa. Fu fondato il 5 maggio 1949 col Trattato di Londra e conta oggi 47 stati membri (tra cui i 28 Stati membri dell’Unione), praticamente il doppio dell’UE.

Ebbene, l’Italia è ovviamente vincolata a questa Convenzione, il cui articolo 3 garantisce al rifugiato una tutela anche più ampia di quella fornitagli dalla Convenzione di Ginevra. Tale articolo è forse uno dei più famosi della Convenzione e stabilisce, in maniera secca e sintetica, il divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti ai danni di qualunque persona (rifugiato compreso, quindi). E tale divieto è inderogabile e deve essere garantito sempre, anche nei casi di pericolo pubblico costituente una minaccia per la vita della nazione e indipendentemente dalla condotta personale dello straniero. Tradotto: anche se il rifugiato costituisce un pericolo per lo Stato italiano, ma in patria rischierebbe di essere sottoposto a torture o altri trattamenti inumani e degradanti, NON può essere respinto.
È praticamente lo stesso articolo che l’Italia ha violato rimandando i due Marò in India, dove il reato di cui erano allora accusati era punito con la pena di morte. E non c’è rassicurazione che tenga. L’espatrio non poteva e non doveva essere eseguito.. (ma su questo tornerò nei prossimi giorni).

Agganciandomi alla CEDU, ritorno un attimo al divieto di respingimenti collettivi. Di questi giorni sembrano rimpiangersi gli accordi che l’Italia aveva preso con Gheddafi, per il rimpatrio di coloro che arrivavano. Ebbene, abbiamo fatto la storia!
Breve narrazione dei fatti: il 6 maggio 2009 circa 200 persone, su tre barche dirette in Italia, venivano intercettate da motovedette italiane, in acque internazionali, all’interno della zona SAR (Search and Rescue) di responsabilità maltese. Quindi, venivano trasferite a bordo delle navi italiane e riportate in Libia, da dove erano partite, in conformità agli accordi bilaterali fra Italia e Libia, senza essere identificate e senza essere informate circa la loro reale destinazione. Era l’avvio della c.d. “politica dei respingimenti”. Nel corso del 2009, l’Italia ha condotto nove operazioni di questo tipo in acque internazionali.
La storia che vi voglio raccontare è quella di Hirsi Jamaa e altri 23 cittadini somali ed eritrei – che facevano parte di quel gruppo di respinti il 6 maggio 2009 – che hanno presentato ricorso contro l’Italia per violazione della CEDU, art. 3 in particolare, ma non solo..
Il governo italiano si è difeso dall’accusa di aver esposto, tramite il respingimento, i ricorrenti a trattamenti proibiti in Libia, affermando che: queste persone non avevano le prove di esser stati sottoposti a tali trattamenti; l’Italia aveva agito in base ad accordi bilaterali in risposta ai crescenti flussi migratori; si trattava di un’operazione di salvataggio in acque internazionali, dunque non era necessario identificare le parti coinvolte, in quanto le autorità si sono limitate a prestare assistenza; i migranti in questione non hanno mai espresso la loro intenzione di chiedere asilo; la Libia era all’epoca un Paese sicuro, firmatario di numerosi trattati internazionali sui diritti umani.
Ma la Corte ha risposto [ndr. Ovviamente!], all’unanimità, in sentenza della Grande Chambre (che fa diventare la decisione di portata storica), che:
Pur essendo consapevole delle difficoltà legate all’immigrazione via mare, il divieto posto dall’art. 3 CEDU è assoluto e quindi non può essere violato in nome di tali difficoltà;
C’era materiale in abbondanza che dimostrava la situazione terribile vissuta in Libia per gli immigrati irregolari e il mancato rispetto da parte di quello Stato di ogni regola in materia di protezione dei rifugiati, e l’Italia non poteva non sapere cosa sarebbe capitato ai migranti rinviati in Libia;
l’Italia non può violare una Convenzione come la CEDU in nome di accordi bilaterali di qualunque tipo con chiunque siano stipulati;
l’Italia non può difendersi affermando che nessuno dei ricorrenti ha richiesto asilo. Era infatti compito delle autorità nazionali verificare il trattamento a cui sarebbero stati esposti i migranti, una volta riconsegnati alle autorità libiche.

Ma a questo punto ci si potrebbe chiedere, articolo 3 a parte: i ricorrenti erano somali ed eritrei, l’Italia li ha mandati in Libia, non in Somalia o Eritrea, quindi non li ha respinti verso i Paesi di origine che teoricamente sono i persecutori. Dove sta la violazione?
Ebbene, esiste il principio di non refoulement indiretto: in caso di espulsione, uno Stato ha l’obbligo di assicurarsi che lo Stato dove rinvia un individuo offra garanzie sufficienti circa il fatto che non procederà ad un ulteriore rinvio di questi verso il suo Paese di origine, senza una valutazione del rischio di subire trattamenti proibiti.
Ora, la beffa, che poteva essere evitata se qualcuno si fosse informato davvero sulla Libia, è che la Libia non ha mai firmato la Convenzione di Ginevra del 1951.. per la Libia la figura del rifugiato non esiste! Non è prevista nessuna procedura di richiesta d’asilo dal momento che non se ne riconosce l’esistenza.. Ma davvero uno Stato come la Libia poteva dare l’assicurazione che non avrebbe violato la norma fondamentale di una Convenzione che non ha mai voluto firmare?
E, ammettendo che adesso, la Libia non si trovasse nella situazione in cui invece si trova (smembrata e contesa da attori di ogni genere e specie, tra cui terroristi), davvero pensiamo che sarebbe disposta ad aprire centri profughi sul proprio territorio? Ma non ci pensa proprio!
Nel 2012, in seguito agli accordi bilaterali, molte delle persone respinte dall’Italia e riportate in Libia, finirono in centri di detenzione. Molti furono torturati, molti altri vi morirono per i maltrattamenti. Alcuni non hanno avuto remore a definirli campi di concentramento. Alla Libia non interessa nulla dei diritti umani: i migranti erano e sono solo uno strumento di minaccia verso l’Europa. Lo schema è sempre stato il seguente: io Libia ti faccio una richiesta, prevalentemente economica; e se tu non l’accetti spalanco le porte dei campi di raccolta dove ammucchio i migranti e te ne mando una bella tornata.

Ultime due precisazioni:
i media parlano continuamente di profughi sfollati. Allora, siamo chiari: gli sfollati sono persone che hanno i requisiti per ottenere lo status di rifugiato (fondato timore; persecuzione; impossibilità e/o non volontà di avvalersi della protezione dello Stato di cittadinanza e/o di residenza) MA sono rimasti all’interno del proprio Stato. Per intenderci, si può parlare di sfollato siriano (qualora rispetti i requisiti di cui sopra) solo se non ha lasciato la Siria e si è rifugiato in uno dei campi profughi lì allestiti o dall’UNHCR o da Paesi limitrofi. Chiamiamo le cose con il loro nome.
Ho sentito che nelle ultime settimane il governo ha deciso di proporre l’istituzione dell’asilo europeo. Confesso, il primo pensiero che ho avuto è stato: “e adesso chi lo dice al mio collega di dottorato che sta scrivendo, da ben due anni, la tesi su un argomento che a quanto pare è stato proposto solo alcune settimane fa?” Sebbene non abbia dubbi sulle qualità del mio collega di essere un visionario e anticipare i tempi, beh, non è questo il caso.
Infatti l’Unione Europea parla di tutto ciò sin dall’ottobre del 1999 (sì, proprio ieri…), quando il Consiglio europeo a Tampere (Finlandia) decise la creazione di un regime comune di asilo, in diverse fasi, mirando all’istituzione di un Sistema Comune Europeo di Asilo (CEAS, o Common European Asylum System), di una procedura comune e di uno status uniforme e unico dei titolari di asilo. Con il Trattato di Lisbona (2007) s’introduce il concetto di asilo europeo.

Ora, non ci voglio scrivere una tesi (a quello ci pensa già il mio collega!), per cui non sto a elencarvi tutti gli atti che l’Unione europea ha adottato in materia, che sostanzialmente riproducono le disposizioni della Convenzione di Ginevra quanto allo status di rifugiato, ma pongo l’accento su una cosa: tutti gli atti sono stati adottati con Direttiva.
Altra pillola di diritto internazionale. Ricordate che nel precedente articolo vi dissi che il “sistema di Dublino” era adottato con Regolamento, l’atto più “forte” tra quelli che l’Unione può emettere? Ebbene, dopo il Regolamento, in termini di forza vi è la direttiva, che fissa obblighi di risultato ma non di mezzi. Cosa significa?
Significa semplicemente che l’UE detta l’obiettivo da raggiungere e gli Stati si obbligano a raggiungerlo (in questo caso, l’uniformità di standard di accoglienza per i rifugati & Co.), ma sui mezzi da utilizzare c’è libertà di scelta. Ma proprio perché tutto è lasciato alla decisione degli Stati, i tempi si allungano: il parlamento discute la questione, facciamo le navette tra Camera e Senato, allunghiamo il brodo, recepiamo la direttiva e promulghiamo gli atti che hanno il compito di applicarla. Non vi parlo dei tempi di recepimento dell’Italia..
Ma quello che volevo sottolinearvi è che, nonostante la materia fosse la stessa, “immigrazione e asilo”, per le cose che facevano “comodo” a un certo tipo di Europa sono state adottate misure immediatamente efficaci, per le cose di cui non importava a nessuno – o quasi – si è ricorsi a misure che prima di vedere la luce ci mettono spesso anni. E ora stiamo pagando per questo..
All’interno del sistema europeo, i titolari dello status di rifugiato possono circolare liberamente sul territorio dello Stato in cui hanno ottenuto l’asilo, MA possono andare negli altri Paesi Schengen per massimo tre mesi. Ciò significa che non solo i Paesi d’ingresso sono costretti a esaminare le domande e i migranti sono costretti a presentarla a loro, ma significa anche che – se lo Stato concede l’asilo – quelle persone devono risiedere per forza, per esempio, in Italia.

Per completezza del quadro europeo, e per far capire anche “che fine fanno” invece tutti quelli che provengono da contesti di guerra, dal momento che molti di loro non rientrano nella qualifica di rifugiato, rimando a trattazione successiva la c.d. protezione internazionale sussidiaria.

Allo Stato attuale, senza farmi prendere da pietismi ed emozioni, ma trattando freddamente questioni di diritto, sono qualificabili rifugiati molto di più i somali, gli eritrei, i nigeriani che arrivano sulle nostre coste piuttosto che i siriani che scappano dalla guerra (ma lì va fatto un netto distinguo: i.e., valutare se stanno scappando dalla guerra in senso generale o dall’ISIS in particolare).
Difatti, chi può dirmi che un eritreo non è da considerarsi un rifugiato? L’Eritrea è il primo Stato al mondo (viene anche prima della Corea del Nord) in quanto a chiusura, è una dittatura militare rigidissima, c’è la leva obbligatoria a vita, gli oppositori vengono mandati al “confino” all’interno di container poi abbandonati nel deserto e che, dopo alcuni giorni, per assenza di acqua e cibo e per il calore amplificato dalla lamiere portano alla morte di tali oppositori.
Chi ha il coraggio di dirmi che un somalo non è da considerarsi rifugiato? La Somalia, lo Stato fallito per eccellenza. Uno Stato dove il governo legittimo ha appena il controllo di un quartiere della capitale, neanche di tutta la capitale! Dove il resto del territorio è in mano a tribù o a milizie, tra cui quella terroristica di Al Shabaab, che ha indotto – per la prima volta nella loro storia – Medici senza Frontiere ad abbandonare il territorio. Gli stessi Shabaab che nell’aprile scorso hanno fatto incursione all’alba – ricordate? – nel campus universitario di Garissa, in Kenya, facendo una strage di studenti.
Chi ha il coraggio di dirmi che un nigeriano che scappa dal governatorato del Borno, dove Boko Haram (che significa “l’educazione occidentale è peccato”) è nato e prolifera liberamente, non è da considerarsi rifugiato? Che viene proprio da quei posti, Maiduguri e dintorni, dove mentre l’Europa piangeva per i fatti di Charlie Hebdo, venivano uccise in un solo giorno 2000 persone. E a maggior ragione adesso che, dalle ultime notizie, sembra che nell’area siano arrivati i Janjaweed (letteralmente, “diavoli a cavallo”), dal Sudan; esattamente quelli che nello scorso decennio, eseguendo gli ordini di Al Bashir, decimarono – anzi, genocidiarono – la popolazione del Darfur.
Tutte queste persone sono al 99,9 % vittime di persecuzione, prevalentemente per ragioni etniche e religiose. Ancor peggio se sei donna o bambino. Qui esiste il fondato timore, anzi più che fondato.

La questione migrazione merita molti articoli, e tutti gli aspetti (Schengen, le zone SAR, la protezione internazionale, il traffico, per citarne alcuni) saranno trattati nel tentativo di riuscire ad arrivare ad avere una visione di insieme della situazione. Una visione che possa aiutarci a capire quando le politiche di gestione del fenomeno che ci vengono proposte sono: realistiche, efficaci e – possibilmente- non producano conseguenze che portano lo Stato a sborsare soldini per violazioni di diritto internazionale.
L’importanza di chiamare le cose con il loro nome non è perché mi piace fossilizzarmi sui cavilli. Bensì, vorrei indurvi a una riflessione: se già dicono tante corbellerie sulle nozioni di base (ve lo giuro, quello che vi ho raccontato qui sono le nozioni di base), quale attendibilità possono realisticamente avere quando si lanciano in discorsi che presuppongono la conoscenza delle norme di dettaglio?

Migrazioni A. D. 2015: Parte Prima. A Dublino la mela succulenta del peccato originale.

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September 13, 2015
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Irene Piccolo

C’era una volta… tanta confusione.

Leggendo i giornali e, soprattutto, ascoltando i telegiornali e i programmi c.d. di approfondimento, mi sono domandata quanti conoscono effettivamente quello di cui parlano e quanti invece – magari anche animati da buone intenzioni, eh! – fanno citazioni di cose e concetti leggiucchiati qua e là senza però averli assimilati e fatti propri. In questi giorni l’Italia è divisa tra lo sconvolgimento creato dalle foto del piccolo Aylan riverso sulla spiaggia di Bodrum, la paura del migrante che scappa dai CARA, la preoccupazione per l’esplosione di quell’arteria – da sempre dolorante e sempre sottovalutata! – che è la rotta balcanica e in più l’irritazione/sberleffo nel vedere Angela Merkel darci lezioni di accoglienza. In questo vortice d’emozioni contrastanti, la disinformazione può galoppare liberamente; distese e praterie le si aprono davanti.

Esattamente come per la vicenda dei marò, gli aspetti da toccare sono molti e variegati. Oggi però mi occuperò solo del c.d. “sistema di Dublino”, ponendo l’attenzione su alcuni aspetti a mio modo di vedere piuttosto rilevanti:
L’erosione della competenza degli Stati in materia di immigrazione;
L’allargamento dell’Unione europea (veri motivi e rischi).

PRIMO ERRORE in circolazione: “Dublino l’avete voluta voi, quando l’avete votata nel 2013”.
No. Nel 2013 è stato approvato il Regolamento Dublino III, che modifica – rendendolo più umano (e leggermente migliore per i Paesi d’ingresso) – il sistema creato dalla Convenzione di Dublino del 1990 (recepita sostanzialmente in toto nel Regolamento Dublino II).
Il 15 giugno 1990, infatti, Antonio Gava, Ministro dell’Interno del governo Andreotti, firmava per conto dell’Italia la Convenzione di Dublino, la cui dicitura completa è “Convenzione sulla determinazione dello Stato competente per l’esame di una domanda di asilo presentata in uno degli Stati membri delle comunità europee”. Due precisazioni, prima di andare oltre:
Si parlava ancora di comunità europee, perché l’Unione europea come la conosciamo oggi nascerà solo con il Trattato di Maastricht il 7 febbraio 1992. Nel 1990 avevamo ancora tre comunità: la Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA), la Comunità europea dell’energia atomica (CEEA o Euratom) e la Comunità economica europea (CEE). La prima morta di morte naturale nel 2002, allo spirare del Trattato di Parigi che l’aveva istituita nel 1951; la seconda nata nel parto gemellare che nel 1957, con i Trattati di Roma, aveva dato alla luce anche la CEE e che tuttora sopravvive come ente esterno all’Unione europea, pur servendosi delle istituzioni di quest’ultima.
Si fa riferimento all’esame delle domande d’asilo presentate in base alla Convenzione ONU di Ginevra del 1951. Rinvio a un altro post la trattazione sulla definizione di rifugiato e tutto ciò che ne consegue; tuttavia, mi preme sfatare il SECONDO ERRORE che circola in questi giorni: la definizione di rifugiato NON richiede affatto che la persona provenga da un Paese dove c’è la guerra o un conflitto armato di qualunque tipo. La Convenzione fra un po’ neanche la cita la guerra… Riflettiamo solo su una cosa: la Convenzione del 1951 nasce per dare asilo ai dissidenti che scappavano dall’Unione Sovietica. Vi risulta che ci fossero guerre in corso in quegli anni all’interno dell’Unione Sovietica? Le condizioni di criticità ora come allora sono altre; il contesto di guerra può essere un’aggiunta a tali condizioni, ma non è LA condizione.

Torniamo a Dublino. La normativa attualmente in vigore prevede che “gli Stati membri esaminano qualsiasi domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide sul territorio di qualunque Stato membro, compreso alla frontiera e nelle zone di transito. Una domanda d’asilo è esaminata da un solo Stato membro, che è quello individuato come Stato competente in base ai criteri enunciati al capo III”.
Orbene, questo Capo è interessante e, si fa per dire, divertente! Va dal “particulare” (e qui Guicciardini ci starebbe “a fagiuolo”!) all’universale, analizzando prima situazioni specifiche e poi quelle residuali/generali. Adesso mi spiego meglio.

Il primo dei criteri fissati dal Capo III (art. 8) riguarda i minori non accompagnati: in questo caso, competente a esaminare la domanda è lo Stato in cui si trova legalmente un familiare del minore (per familiare s’intende il coniuge o partner stabile, se il minore è sposato; se non lo è, allora valgono anche i genitori o altro adulto legalmente responsabile secondo la legge del Paese in cui si trova quest’ultimo) o un fratello. Ma tutto ciò avviene “purché sia nell’interesse del minore”, quindi non è automatico!
Questa è una modifica rispetto al testo originario, dove il minore (accompagnato o meno che fosse) non era considerato oggetto di particolare attenzione. In più, nel testo precedente, perché uno Stato fosse competente in situazioni che potremmo definire di “ricongiungimento familiare” non era sufficiente che il familiare (tra i quali fratelli e sorelle non erano ricompresi) risiedesse legalmente in un altro Stato membro, ma tale familiare doveva aver ottenuto lo status di rifugiato.

I criteri successivi (artt. 9 e 10) sono rivolti ai casi in cui il migrante ha un familiare che ha già ottenuto la protezione internazionale o l’ha già richiesta a uno Stato membro. In questo caso, la competenza a decidere anche sulla richiesta del neo-arrivato spetterà allo Stato cui il familiare si era già rivolto (purché il migrante lo richieda espressamente, non è automatico neanche qui quindi).
Il terzo criterio (art. 12) è basato su titoli di soggiorno e visti: vale a dire che se il migrante che vuole fare domanda di asilo ha già avuto da un Paese membro un visto o un permesso di soggiorno, sarà competente a esaminare la domanda proprio lo Stato che gli ha già rilasciato tali titoli.

Infine, ecco che arriva il gentile cadeaux che l’Europa centrale ci ha riservato e che noi, illuminati e lungimiranti, abbiamo accolto non rendendoci conto (davvero?!) a quale cavallo stessimo facendo varcare le mura di Troia: l’articolo 13 dell’attuale regolamento (che riprende l’articolo 6 della Convenzione del 1990)!
Questo magnifico articolo infatti ci dice che “quando è accertato che il richiedente ha varcato illegalmente, per via terrestre, marittima o aerea, in provenienza da un paese terzo, la frontiera di uno Stato membro, lo Stato membro in questione [ndr. quello di frontiera] è competente per l’esame della domanda di protezione internazionale”. E questa responsabilità cessa solo dopo 12 mesi dall’ingresso illegale nel territorio. Decorsi questi 12 mesi, come si fa a capire chi è poi lo Stato competente?
Ebbene, è competente lo Stato – recita sempre l’articolo 13 – in cui il migrante “ha soggiornato per un periodo continuato di almeno cinque mesi prima di presentare domanda”. Vi renderete conto che se lo Stato d’ingresso è “costretto”, in quanto competente a esaminare la domanda, a tenere sul proprio territorio nei CARA i richiedenti asilo che sono arrivati, e deve farlo per almeno 12 mesi, a meno che il migrante non fugga senza aver presentato domanda e non riesca a permanere sul territorio di un altro Stato (es. la Francia) per almeno 5 mesi prima di presentare la domanda, sarà sempre lo Stato d’ingresso a rimanere competente. Torniamo punto e a capo!

In pratica, abbiamo un sistema in cui a tutti gli Stati che non sono Stati d’ingresso/di frontiera arrivano “migranti di buona qualità” socialmente parlando, quelli più innocui: minori non accompagnati; persone che in quegli Stati hanno già ottenuto il visto o il permesso di soggiorno e quindi in un qualche modo si sono già inseriti nel loro substrato sociale; persone che hanno lì parenti che hanno già ottenuto o hanno buone possibilità di ottenere l’asilo.
Quelli che invece arrivano illegalmente, quindi probabilmente i meno ricchi, forse i meno acculturati, di sicuro i meno controllati, oltre che i più sfruttati e schiavizzati (quindi nelle condizioni umanitarie più precarie e che probabilmente avrebbero bisogno di aiuto più di altri!), sono di sola ed esclusiva competenza del Paese d’ingresso. E in questo caso, ovviamente, tutto è automatico: il migrante non può decidere alcunché! Bell’affare abbiamo fatto!

Sull’onda del filoeuropeismo a tutti i costi degli anni ’90, lo stesso che ci fece fare un bel maquillage dei conti per entrare nell’Euro (non lo dico io, eh! Il bluff italiano è ormai un caso di scuola in praticamente tutti i libri di economia..), non abbiamo saputo – quando potevamo ancora farlo – tutelarci. Perché dico che prima potevamo farlo e ora no?

Introduciamo una nuova pillola di diritto internazionale: in genere, quando una Convenzione viene modificata o integrata, lo strumento giuridico che si utilizza è il Protocollo. Ma io, citandovi Dublino II e Dublino III, vi ho sempre parlato di Regolamento. Questo perché, nel corso del tempo, le competenze sono cambiate.

Infatti, nei primi anni ’90, asilo e immigrazione erano competenza esclusiva degli Stati (come la sovranità monetaria, ricordate?). Ma, con il Trattato di Amsterdam del 1997, entrato in vigore nel 1999, gli Stati hanno delegato parte di questa competenza all’Unione europea, perciò da quel momento in poi la disciplina in materia sarebbe stata adottata con atti comunitari, quali sono appunto i Regolamenti. E, tra gli atti dell’Unione, i regolamenti sono i più “penetranti” nella nostra realtà, perché sono immediatamente vincolanti e direttamente efficaci. Tradotto: uno Stato non deve recepirli. Nel momento stesso in cui l’Europa li emette, i regolamenti entrano nell’ordinamento italiano e hanno per noi cittadini valore di legge. Nessuna intermediazione statale, tramite parlamento o governo che sia.
Quindi quando potevamo, nel ‘90, perché avevamo competenza esclusiva, ci siamo imbavagliati; ora – che abbiamo competenza c.d. complementare – come Stato possiamo fare poco e nulla, giuridicamente parlando. L’unica via per noi è la negoziazione politica con gli altri Paesi; tuttavia, non mi sembra che stiamo brillando ultimamente.. Se nel 2013 è stato adottato il nuovo regolamento non è certo per merito degli Stati d’ingresso che si sono battuti a favore dei propri interessi; per quello dobbiamo ringraziare solo la Corte di Giustizia dell’UE che con alcune sentenze ha dato delle belle scudisciate al “sistema di Dublino”.
E’ importante che in Europa si faccia fronte compatto, e non che una volta lì ci si senta di destra, di sinistra o di centro piuttosto che italiani. Se non siamo uniti là, le migrazioni ci sopraffarranno tutti quanti.
E una volta compattato il fronte italiano, provare a fare un'”alleanza” fra i Paesi d’ingresso. Possibile che siamo gli unici a non saper fare i nostri interessi? L’unione fa la forza non è solo un detto.. E in Europa ogni Stato vale uno, uno Stato è un voto: il voto della Germania non vale più degli altri, a meno che non siamo noi ad attribuirgli maggior valore.
Non dovremmo mai dimenticare che l’Unione Europea, per quanto sui generis, rimane comunque un’organizzazione intergovernativa, quindi un fascio di relazioni tra governi e non una mega-nazione dove ci possiamo permettere di parlamentare in eterno sul dibattito destra – sinistra o palla al centro. Lì non va portato l’interesse “particulare” di una corrente politica, ma l’interesse “particulare” e generale del cittadino.

Andiamo avanti.
Quali Stati firmarono a Dublino? Oltre all’Italia, avevamo Belgio, Danimarca, Germania, Grecia, Spagna, Francia, Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi, Portogallo, Regno Unito. 12 Stati. Infatti, allora la Comunità economica europea era composta solo da 12 Stati. Oggi siamo ben 28!
Ci pensate? Siamo partiti nel 1957 che eravamo solo in cinque. Dal 1957 fino al 31 dicembre 1994, trentasette anni, sono entrati solo altri sette Paesi. Dal 1995 al 2013 (data dell’ultimo allargamento), 18 anni, si sono aggiunti invece alla combriccola ben sedici Paesi!
È vero che, una volta che un processo si innesca, tutto diventa più veloce e spedito. Tuttavia, facciamo un bell’esame. Per entrare nella CEE i parametri erano molto rigorosi; essendo un’unione economica si voleva che tutti gli Stati fossero al passo e nessuno costituisse una palla al piede per gli altri. Poi, con l’Unione europea, chissà com’è, tanto rigore a parole, ma poi nei fatti “flessibilità”. Ai nuovi entrati, soprattutto quelli del 2004 (Cipro, Estonia, Lettonia, Lituania, Malta, Polonia, Repubblica Ceca, Slovacchia, Slovenia e Ungheria) è stato semplicemente chiesto che garantissero che in un tot di anni sarebbero rientrati nei parametri richiesti. Quindi non sono entrati essendo già in regola con i requisiti di ammissione, ma con una promessa, un bel “pagherò”!
Allora, forse ci domanderemo, come mai l’Europa, e la Germania in particolare, che tanto ci bacchettano a suon di minaccia di procedure di infrazione, che tanto sono inflessibili con la Grecia, sono stati “tolleranti” in questo caso? Le risposte sono davvero tante, ma per il momento ne suggerirei tre:
Di tipo economico. Il mercato della Germania è l’Europa dell’est, è il suo spazio vitale e naturale. Quale cosa migliore che tirar dentro i suoi partner commerciali privilegiati, godendo poi dei vantaggi che l’Euro – se usato bene – può dare?
Di tipo geopolitico, dal momento che tutto ciò che va all’Europa viene tolto alla Russia.
Non solo l’Europa dell’est in senso classico, ma vediamo, ad esempio, anche il riconoscimento a dir poco prematuro che l’Europa fece di Croazia e Bosnia – Erzegovina, nel 1992, quando la guerra in ex Jugoslavia era praticamente agli inizi e tali Stati non avevano il controllo di nemmeno metà del proprio territorio. Già da allora l’UE iniziò a parlare di processo di stabilizzazione e integrazione dei Balcani. [In proposito, la Commissione Badinter (creata per di più dall’UE stessa) dirà che tale riconoscimento fu prematuro e acuì l’inasprirsi del conflitto..] Cioè, i Balcani non erano fra un po’ neanche saltati in aria e già pensavamo a come tirarli dentro?
Parimenti col Kossovo: pur di sottrarlo all’influenza dei russi, arrivati per primi a Pristina, l’Europa sta allevando nel suo seno uno dei principali hub criminali e fuori controllo del globo. E a me può anche star bene: sulle ragioni geopolitiche nulla quaestio! Ma prendi le tue contromisure, cerca di smantellare quell’hub, fai qualcosa!
Se in questi giorni tutti noi stiamo nel timore è anche perché i migranti, per arrivare in Germania, sono quasi costretti a percorrere le rotte balcaniche.. cosa può arrivare da quel vaso di Pandora, una volta dischiuso?
Di tipo opportunistico. Per tornare là donde ci siamo mossi, guardate queste due cartine (cliccando sulla data): per i migranti quali erano i Paesi d’ingresso nel 1990? Chi dopo l’allargamento fiume del 2004? Con gli allargamenti successivi al 2004, la cerniera di sicurezza intorno all’Europa centrale (alias Germania) si è solo rafforzata.

TERZO ERRORE in circolazione è quello secondo cui, per accogliere i siriani, la Germania avrebbe sospeso Dublino. La mia prima affermazione sarebbe “’cca nisciuno è fesso, la Germania men che meno!”. Ma secondo voi davvero, con un sistema che la tutela così tanto, alla Germania può venire in mente di sospenderlo?
Certo che no! La Merkel ha semplicemente applicato l’articolo 17 di Dublino III, le c.d. Clausole discrezionali o volontarie. La Germania ha applicato la prima di queste, e cioè: “ciascuno Stato membro può decidere di esaminare una domanda di protezione internazionale presentata da un cittadino di un paese terzo o da un apolide, anche se tale esame non gli compete in base ai criteri stabiliti nel presente regolamento”. Sottolineo il “può (non deve!) decidere”, e la Germania lo ha fatto, scegliendo quali domande esaminare. Il resto dei migranti agli Stati d’ingresso e tanti cari saluti!
La seconda clausola discrezionale invece prevede che uno Stato competente a esaminare le domande (ad es. Italia) possa chiedere a un altro Stato (ad es. la Germania) di farsene carico. A questo punto l’altro Stato può (non deve!) decidere di accettare e quindi prendersi quei migranti e relative procedure. E se decide di non farlo, non deve neppure spiegare il perché.

Questo è il bel sistema in cui ci siamo cacciati, mordendo la mela che sembrava così succulenta del filoeuropeismo incondizionato. In questo post posso esser sembrata antitedesca, in realtà ho solo voluto mettere in risalto due diversi atteggiamenti. Da un lato, quello di uno Stato che in nome di un ideale europeista, che tra l’altro credo non fosse più tanto chiaro, si è dato la zappa sui piedi da solo, anziché pensare al bene comune dei suoi cittadini (l’Italia); dall’altro, l’atteggiamento di chi ha sempre fatto solo i propri interessi, lo ha fatto egregiamente e con buoni risultati (al punto che ora la Germania passa per il paradiso dell’accoglienza..!) in barba però al principio di solidarietà che sta alla base del costrutto europeo.
Nessuno di questi due atteggiamenti, temo, starà facendo riposare in pace i Padri Fondatori.

Le navi permanentemente utilizzati dalle ONG al largo della costa libica

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Fenice Il Phoenix è una delle due navi Moas. La nave è regolarmente avvistato nelle acque territoriali della Libia. Si è registrata in Belize, America del Sud. Tuttavia, la nave è di proprietà e gestito dai maltesi per portare gli immigrati a Italia. Sito web: MOAS

Topaz Responder Il Topaz Responder, un vaso di risposta di emergenza su misura 51 metri, che ospita due lanci di salvataggio ad alta velocità. La nave è gestita in combinazione con MSF. Questo è uno dei tre traghetti che possono trasportare centinaia di persone in una volta sola. La nave è registrata alle Isole Marshall. Sito web: MOAS

Iuventa Iuventa è registrato sotto la bandiera dei Paesi Bassi e di proprietà della ONG tedesca Jugend Rettet. Sito web: Jugend Rettet .

Golfo Azzurra Il Golfo Azzurro è utilizzato da ‘Boat Refugee Foundation’ gli olandesi. Golfo Azzurro opera sotto la bandiera di Panama. La Fondazione barca Refugee charter della nave per un prezzo simbolico. Sito web: Bootvluchteling .

Dignità Dignità 1 è registrato sotto la bandiera di Panama. Crediamo che la nave appartiene a Medici Senza Frontiere. Sito web: MSF .

Bourbon Argosjpg I Argos borbonici, una nave di Medici Senza Frontiere. Si tratta di una delle tre navi utilizzate per trasportare le persone dai vasi più piccoli in Italia. La nave è attualmente registrato sotto la bandiera del Lussemburgo. MSF .

Acquario L’Acquario è una delle tante navi gestite da Medici Senza Frontiere. Si è registrato sotto la bandiera di Gibilterra. Sito web: MSF .

la tua Hestia La ricerca e soccorso nave Vos Hestia, noleggiata dalla carità Save The Children, come molti dei vasi ONG è sotto la supervisione del sito italiano Guardia Costiera: Save the Children .

Astrale Proactiva Open Arms opera Astrale. Abbiamo individuato l’Astral molte volte nelle acque territoriali libiche. La nave è scomparsa in maniera regolare dai AIS monitoraggio siti web. Sito web: Proactiva Open Arms .

Sea Watch 1A La MS Sea-Watch I è posseduto da un’organizzazione con sede a Berlino. Si lavora a stretto contatto con Watch The Med, una rete transnazionale di persone che combattono contro il regime dei confini europei, e richiedono un passaggio libero e sicuro per l’Europa. Sito web: Sea-Watch .

Sea Watch 2jpg La MS Sea-Watch II è di proprietà di un’organizzazione con sede a Berlino. Si lavora a stretto contatto con Watch The Med una rete transnazionale di persone che combattono contro il regime dei confini europei, e chiedono un passaggio libero e sicuro per l’Europa. Sito web: Sea-Watch .

Audurjpg L’Audur è registrata sotto la bandiera dei Paesi Bassi. Non sappiamo a chi appartiene questa nave.
Sea Eye La MS Sea-Eye è di proprietà di Sea-Eye-eV. Michael Buschheuer da

Regensburg, in Germania, e un gruppo di familiari e amici ha fondato l’organizzazione non-profit di soccorso in mare Sea-Eye eV Sito web: Sea-Eye .
veloce La Speedy è un motoscafo di proprietà di Sea-Eye-eV. La nave è confiscata dal governo libico. Sito web: Sea-Eye .
tutto Minden è di proprietà della organizzazione tedesca scialuppa di salvataggio. La nave è attualmente registrato sotto la bandiera della Germania. Sito web: Lifeboat .

Maggiori informazioni:

Nel mese di ottobre abbiamo scoperto che quattro ONG raccolto persone nelle acque territoriali libiche. Abbiamo la prova che questi contrabbandieri hanno comunicato la loro azione in anticipo con le autorità italiane. Dieci ore prima gli immigrati hanno lasciato la Libia, la guardia costiera italiana ha diretto le ONG per lo spot “di salvataggio”: completo del conto “Catturato nell’atto: ONG deal in traffico di migranti”

L’organizzazione MOAS ha stretti legami con il famoso contractor militare degli Stati Uniti “Blackwater”, l’esercito degli Stati Uniti e la marina maltese. Pienamente conto: “Gli americani da MOAS traghetti migranti verso l’Europa”

C’è un resoconto completo sulle navi coinvolte: “Ong Armada che operano al largo delle coste della Libia” e come le persone sono incoraggio a venire in Europa: “La morte strada per l’Europa ha promosso sul web”

Caught In The Act: ONG trattano in traffico di migranti

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Software di Ship-tracking e sui resoconti dei giornalisti dimostrano che le ONG, la Guardia Costiera e contrabbandieri italiani coordinare le loro azioni. Il sistema di identificazione automatica (AIS) espone le ONG che operano nelle acque territoriali libiche. Dal momento che la cacciata del presidente Gheddafi, un numero crescente di africani sono contrabbandata in Europa. Viaggiano via Libia da dove attraversano il Mediterraneo. Diverse organizzazioni “umanitarie” o le ONG coinvolte sono una parte indispensabile del percorso smuggle verso l’Europa. Abbiamo notato che la guardia costiera italiana, le ONG e gli abitanti coordinare le loro azioni. Qualunque sia la chiamano loro, queste operazioni non possono essere classificati come operazioni di soccorso genuini.

Gli olandesi, Ong maltese e tedesco in base fanno parte della rete di contrabbando umano e ci si chiede, sono queste ONG stesse organizzazioni criminali.

Qualunque sia i motivi di queste ONG, il loro comportamento è illegale, e in paesi governati da una costituzione, vale a dire gli Stati europei, la criminalità dovrebbero essere perseguiti a prescindere dalla volontà dei suoi autori.

Abbiamo seguito i movimenti del Golfo Azzurro, il 12 ottobre. Abbiamo usato i segnali AIS Marine Traffic, Twitter e vivere le relazioni di un giornalista olandese a bordo del Golfo Azzurro.

La sera del 12 ottobre alle ore 21:15, 113 persone sono state raccolte 8,5 miglia nautiche al largo della Libia Mellitah Complex, da quattro navi delle ONG; la Fenice, l’Astral, l’Iuventa e il Golfo Azzurro. In quel momento questi quattro navi erano all’interno delle acque territoriali della Libia.
Durante questo trasporto, 17 persone sono state segnalate mancante, tra cui un bambino di tre anni.

Mercoledì 12 ottobre alle otto del mattino, la guardia costiera italiana ha informato il Golfo Azzurro sull’operazione venuta “salvataggio”, da 10 a 12 ore di anticipo; hanno diretto il Golfo Azzurro in una posizione all’interno delle acque territoriali libiche. Eveline Rethmeier, un giornalista olandese, era a bordo del Golfo Azzurro. Al 20:23 (ora UTC 18:23) ha pubblicato un video erano ‘Capo della Missione’ Mateo ha detto l’equipaggio qualcosa stava arrivando. Nel suo blog ha scritto: “Alle otto del mattino abbiamo ottenuto i messaggi che v’è una nave con problemi di 30 miglia nautiche di distanza da noi. La guardia costiera italiana ha chiesto l’assistenza nella zona. Siamo stati informati dal ‘Capo della Missione’ Mateo. Ci ha detto che dobbiamo essere preparati per gli ospiti “. 1)

La guardia costiera italiana non solo ha diretto il Golfo Azzurro alle acque territoriali libiche, ma anche la fenice, l’astrale e l’Iuventa. Secondo il Malta Today: “Erano circa le 7 di sera (12 ottobre), quando il Maritime Rescue Coordination Center di Roma ha contattato Phoenix. Eppure, era solo al 21:20 che il gommone è stato avvistato da – avvalendosi della Schiebel droni a bordo della Phoenix. In collaborazione con le altre ONG di ricerca e salvataggio della zona, un’operazione di salvataggio è stato rapidamente lanciato “. 2) Il Golfo Azzurro è stato detto a 8:00 che c’era una nave con problemi durante la Fenice è stato contattato da 10 a 11 ore dopo !
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12 ottobre

Durante la settimana che abbiamo monitorato la zona, quattro rimorchiatori italiani, tra i quali il Megrez, erano di stanza presso il Complesso di Mellitah, ed erano al minimo la maggior parte del tempo.

Mentre il Golfo Azzurro ha iniziato il suo viaggio di 30 miglia per assistere la barca da 6 a 9 miglia nautiche al largo di Mellitah, ci sono voluti 10 ore prima della Megrez, uno dei quattro rimorchiatori, ha lasciato il porto di Mellitah (20:00) nella direzione del punto di “salvataggio”.

Il Megrez navigato 6 miglia nautiche in mare aperto, 2 miglia nautiche dal punto di salvataggio. Intorno 20:40 ha raggiunto il suo punto finale e senza fermarsi si girò e tornò a Mellitah, dove è arrivato al 21:17. L’intero viaggio compreso il tempo, la data e la velocità viene registrata dai diversi AIS monitoraggio siti web.

Il Megrez, un rimorchiatore di diritto italiano, ha navigato in linea retta su e giù senza fermarsi e senza che partecipano all’operazione “salvataggio”. Sembra che il Megrez appena lasciato qualcosa in mare aperto e subito tornato a casa. Quaranta minuti più tardi, dopo la Megrez si voltò, perfettamente a tempo, la Fenice avvistato una barca con i migranti.

8,5 miglia nautiche al largo di Mellitah, all’interno delle acque territoriali libiche, le quattro navi, appartenenti a ONG europee, hanno iniziato la loro missione di “salvataggio” e raccolto 113 persone. Il porto sicuro più vicino è Zarzis in Tunisia, circa 65 miglia nautiche a ovest dal punto di “salvataggio”. Questa porta è spesso visitato da navi che operano per queste ONG. Invece di portare i migranti di Zarzis, la Fenice ha portato gli immigrati 275 miglia nautiche a nord verso l’Italia. Naturalmente, i 113 passeggeri pagati 1000-1500 euro per essere spediti in Europa e non per essere trasportato a Tunisi.
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Sulla base della nostra osservazione, si è scoperto che le autorità italiane sapevano in anticipo che ci sarebbe stata un’operazione di “salvataggio” quella notte.

Hanno contattato il Golfo Azzurro in anticipo come la nave era più di 30 miglia nautiche al largo della costa libica. Il capitano sapeva che era in programma per raccogliere i migranti, anche se non c’era ancora un segnale di soccorso. In quel momento i migranti sono stati probabilmente ancora in Libia. Alle 19:00 il Phoenix è stato avvertito dalla guardia costiera e diretto al punto di pick-up. Alle 20:00 il Megrez lasciato la Libia. 2 miglia nautiche dal punto di pick-up, alle ore 20.40 si voltò. Quaranta minuti dopo la Fenice avvistato il gommone. L’intera operazione era perfettamente programmato. 3)
Sequenza temporale
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Sembra che il “salvataggio” è una parte di un’operazione di traffico di esseri umani pericolosi ben organizzato. Il fatto che 17 persone sono scomparse non rende questa una missione di soccorso. Gli organizzatori e coloro che sono coinvolti sono interamente responsabili per la sicurezza dei loro passeggeri e dovrebbero essere ritenuti responsabili.

NGOs are smuggling immigrants into Europe on an industrial scale

Le ONG contrabbandano immigrati in Europa?

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Qualcosa di molto strano accade nel Mediterraneo Gefira – South FrontPer due mesi, utilizzando marinetraffic.com, abbiamo monitorato i movimenti delle navi di proprietà di un paio di organizzazioni non governative e, utilizzando i dati di data.unhcr.org abbiamo tracciato l’arrivo quotidiano di immigrati africani in Italia. Abbiamo scoperto di essere testimoni di una grande truffa e di un’operazione di traffico illegale di esseri umani. ONG, contrabbandieri e mafia in combutta con l’Unione europea hanno spedito migliaia di clandestini verso l’Europa con il pretesto di salvarli, assistiti dalla guardia costiera italiana che ne coordina le attività. I trafficanti di esseri umani contattano la guardia costiera italiana per ricevere aiuto e raccogliere i loro dubbi carichi. Le navi delle ONG vengono dirette sul “luogo del soccorso”, anche se è ancora in Libia. Le 15 navi che abbiamo osservato sono di proprietà o affittate da ONG viste regolarmente salpare dai porti italiani in direzione sud, fermarsi a poche miglia dalle coste libiche, prendere il carico umano a bordo e naturalmente rientrare per 260 miglia in Italia, anche se il porto di Zarzis, in Tunisia, è solo a 60 miglia di distanza dal punto di salvataggio. Le organizzazioni in questione sono: MOAS (Migrant Offshore Aid Station), Jugend Rettet, Stichting Bootvluchting, Medici Senza Frontiere, Save the Children, Proactiva Open Arms, Sea-Watch.org, Sea-Eye e Life Boat. Le vere intenzioni dietro le ONG non sono chiare. Il loro movente può essere il denaro, che non sorprenderebbe se si rivelasse essere così. Possono anche essere politicamente pilotati; le attività dell’organizzazione di Malta, MOAS, che traffica persone in Italia, è la migliore garanzia che i migranti non appaiano sulla rive maltesi. MOAS è gestita da un ufficiale della marina maltese ben noto per maltrattamenti ai rifugiati (1). E’ anche possibile che tali organizzazioni siano gestite da ingenui “buonisti” che non sanno di servire da magnete per le persone provenienti dall’Africa e quindi, volenti o nolenti, causare altri morti, per non parlare delle azioni per destabilizzare l’Europa. Per quanto nobili siano le intenzioni di tali organizzazioni, sono criminali, come la maggior parte dei migranti che non può ricevere asilo, finendo per strada a Roma o Parigi, minando la stabilità in Europa aumentando le tensioni sociali a sfondo razziale. Bruxelles ha creato una legislazione particolare per proteggere i trafficanti di esseri umani dalle accuse. In una sezione dedicata a una risoluzione UE, intitolata Ricerca e salvataggio, il testo afferma che “proprietari privati di navi e organizzazioni non governative che assistono i salvataggi nel Mediterraneo non dovrebbero rischiare punizioni per tale assistenza“. (2) Nei due mesi di osservazione, abbiamo monitorato almeno 39000 africani illegalmente contrabbandati in Italia con il pieno consenso delle autorità italiane ed europee.

Le navi utilizzate dalle ONG al largo delle coste libicheLa Phoenix è una delle due navi della MOAS. La nave è regolarmente avvistata nelle acque territoriali della Libia. È registrata in Belize, Sud America. Tuttavia, la nave è di proprietà di maltesi che trasportano gli immigrati in Italia. Sito web: MOASLa Topaz Responder, un vascello di soccorso di 51 metri, ospita 2 lance di soccorso ad alta velocità. La nave è gestita assieme a MSF (e ad Emergency di Gino Strada. NdT). È uno dei tre traghetti che trasportano centinaia di persone alla volta. La nave è registrata nelle Isole Marshall. Sito web: MOAS La Iuventa è registrata nei Paesi Bassi ed è di proprietà della ONG tedesca Jugend Rettet. Sito web: Jugend Rettet.La Golfo Azzurro è utilizzata dall’olandese ‘Boat Refugee Foundation‘. Golfo Azzurro opera sotto la bandiera di Panama. La Fondazione trasporta rifugiati con la nave a un prezzo simbolico. Sito web: Bootvluchteling.La Dignity 1 è registrata a Panama. Crediamo che la nave appartenga a Medici Senza Frontiere. Sito web: MSF. La Bourbon Argos, nave di Medici Senza Frontiere. È una delle tre navi utilizzate per trasportare persone tratte da imbarcazioni più piccole in Italia. La nave è attualmente registrata in Lussemburgo. MSFLa Aquarius è una delle tante navi gestite da Medici Senza Frontiere. È registrata a Gibilterra. Sito web: MSF. La nave di ricerca e soccorso Vos Hestia, noleggiata da Save The Children, come molti vascelli delle ONG. è supervisionata dal sito della Guardia Costiera italiana: Save the Children. L’Astral della Proactiva Open Arms. Abbiamo individuato l’Astral molte volte nelle acque territoriali libiche. La nave è scomparsa regolarmente dal monitoraggio dei siti web AIS. Sito web: Proactiva Open Arms.La Sea-Watch I è di proprietà di un’organizzazione di Berlino che collabora con Watch The Med, rete transnazionale di persone che combattono il regime di frontiera europeo, e chiedono il passaggio libero e sicuro per l’Europa. Sito web: Sea-Watch. La Sea-Watch II è di proprietà di un’organizzazione di Berlino che collabora con Watch The Med, rete transnazionale di persone che combattono il regime di frontiera europeo, e chiedono il passaggio libero e sicuro per l’Europa. Sito web: Sea-Watch.

L’Audur è registrata nei Paesi Bassi. Non sappiamo a chi appartenga.La Sea-Eye è di proprietà della Sea-Eye-eV. Michael Buschheuer di Regensburg, in Germania, un gruppo di familiari e amici che ha fondato l’organizzazione non-profit di soccorso in mare. Sito web: Sea-Eye.

Lo Speedy è un motoscafo di proprietà della Sea-Eye-eV, ma è stato confiscato dal governo libico. Sito web: Sea-Eye. La Minden è una scialuppa di salvataggio di proprietà di un’organizzazione tedesca. La nave è attualmente registrata in Germania. Sito web: Lifeboat.

Altre informazioni: Ad ottobre abbiamo scoperto che quattro ONG raccolgono persone nelle acque territoriali libiche. Abbiamo la prova che questi contrabbandieri comunicano in anticipo le loro azioni alle autorità italiane. Dieci ore prima che gli immigrati lascino la Libia, la guardia costiera italiana dirige le ONG sul luogo di “salvataggio”: il completo resoconto “Colti sul fatto: le ONG gestiscono il traffico di migranti” L’organizzazione MOAS ha stretti legami con il famoso contractor militare degli Stati Uniti Blackwater, con l’esercito degli Stati Uniti e la marina maltese (e ricordo, anche con Emergency di Gino Strada). Resoconto: “Gli statunitensi del MOAS traghettano i migranti in Europa“. Vi è una relazione completa sulle navi coinvolte: “L’Armada delle Ong che opera al largo delle coste della Libia” e come le persone sono incoraggiate a venire in Europa: “La strada della morte per Europa promossa sul web“.

Le ONG pro-immigrazionismo, impiegano materiale militare, come questo drone di fabbricazione tedesca.

Traduzione di Alessandro Lattanzio http://sitoaurora.altervista.org/home.html http://aurorasito.wordpress.com

Le ONG contrabbandano immigrati in Europa?

IL PD DI NUOVO NEI GUAI MA I GIORNALISTI NASCONDONO LA NOTIZIA:CONDIVIDETELA VOI!

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sabato 6 maggio 2017

A Milano abbiamo il sindaco piddino Sala indagato e un’indagine dell’Anac su 173 monitor installati al Palazzo di giustizia, comprati con fondi Expo ma senza gara.

I giornaloni, però, non ritengono importante questa vicenda. Ne parlano, sì, ma la relegano nelle pagine interne dei propri siti, senza metterla in evidenza.

Sono più importanti i guai della Raggi e ai cittadini, di ciò che succede a Milano, non è dato sapere. Ma per fortuna c’è internet e ci sono i social network e potete leggere quanto segue.

Anac indaga su fondi Expo a Tribunale

Riporta Il Corriere della Sera:

“Per mesi e mesi sono rimasti assolutamente spenti, poi hanno cominciato a funzionare per un «test-udienza facile» che dura ancora senza fine e solo da un annetto una sparuta parte dei 173 monitor che tappezzano pareti e i corridoi del Palazzo di giustizia fa il proprio dovere fornendo ai circa 10mila utenti che ogni giorno entrano nell’edificio di corso di Porta Vittoria poche informazioni stringate sulle udienze in corso nelle sezioni civili del Tribunale di Milano. Quei monitor marca «Samsung» sono stati istallati grazie a un appalto legato ad Expo 2015 sul quale l’Autorità anticorruzione guidata da Raffele Cantone ha deciso di puntare la propria attenzione mandando la Guardia di finanza ad acquisire gli atti negli uffici del Tribunale e a Palazzo Marino. L’operazione «monitor» nel Palazzo di giustizia rientrava tra gli appalti finanziati con 16 mioni di euro di fondi pubblici stanziati per Expo e relativi a servizi e infrastrutture destinate al Palazzo di giustizia in vista dell’esposizione internazionale.”.

Il Corriere aggiunge poi che questo servizio “non è mai decollato e i monitor continuano a rimanere accesi dalla mattina alla sera anche se non sono realmente operativi. Con la velocità alla quale galoppa la tecnologia, sono già stati superati dai modelli più moderni e rischiano di diventare obsoleti ancor prima di funzionare”.

Photo by fabiolopiccolo:

MILENA GABANELLI SU TUTTE LE FURIE:”PERCHE’ LE ONG NON SBARCANO I MIGRANTI ANCHE A NIZZA E MALTA?”. EUROPA MASSACRATA!

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venerdì 5 maggio 2017

“MI-JENA” GABANELLI MOZZICA L’UE: “LE ONG SBARCHINO I MIGRANTI ANCHE A NIZZA E A MALTA E FACCIANO ESPLODERE IL PROBLEMA SUI TAVOLI DELL’EUROPA. MAGARI SI INNESCA L’URGENZA DI RIVEDERE GLI ACCORDI DI DUBLINO, E ANCHE QUELLA DI OBBLIGARE LA TUNISIA AD ACCOGLIERE I NAUFRAGHI…”

Milena Gabanelli per il Corriere della Sera

Torniamo ad aprile 2015: al largo delle coste libiche si ribalta un peschereccio con più di 700 migranti. Si solleva l’ indignazione generale e nel Mediterraneo viene messa in campo l’ operazione Triton, sotto il controllo di Frontex, l’ agenzia della guardia di frontiera e costiera europea. Cosa fa Frontex: definisce modelli dell’ immigrazione clandestina e delle attività criminali transfrontaliere ai confini esterni, inclusa la tratta di esseri umani.

Condivide i suoi dati con i Paesi dell’ Ue e la Commissione Europea, e li usa per operazioni congiunte inviando mezzi di rinforzo nelle zone che ne hanno necessità. Dispone di 1.500 esperti. In italia le strutture operative fanno riferimento al Viminale e alla Guardia di Finanza.

Triton (che oggi si chiama Eunavfor Med o «Sophia») fa attività di pattugliamento marittimo e aereo, di soccorso e investigazione per il contrasto dei traffici migratori illegali dal nord Africa. La priorità è il soccorso di vite umane fino a 70 miglia dalle acque libiche, ed è coordinata, su mandato di Bruxelles, dalla nostra Guardia Costiera, che dipende dal ministero delle Infrastrutture. Operano 11 imbarcazioni, 3 aerei, 2 elicotteri.

Il 2015 è un anno cruciale: l’ Europa da un lato monitora, dall’ altro prende le distanze, e a fine anno si chiudono tutte le rotte via terra; mentre l’ instabilità libica consente il via libera ai trafficanti di uomini. Fra il 2015 e il 2016 il numero delle organizzazioni umanitarie che affittano imbarcazioni battendo bandiera panamense, del Belize, olandese, e partono verso le coste libiche, si impenna, e continua a crescere nei primi mesi del 2017.

Più navi e più morti Tutte operano con donazioni private e fino a prova contraria del loro spirito umanitario non si può dubitare. Il dato è che non ci sono mai state tante barche per salvare vite nel Mediterraneo, e mai tanti morti: 4.500 nel 2016, contro i 2.800 del 2015. Dal primo gennaio 2017 a fine aprile i dispersi sono 849. Il pensiero rozzo è: più navi sono pronte a soccorrere e più i trafficanti stipano anime in mare su imbarcazioni improbabili. Allora la risposta civile potrebbe essere: organizziamo più soccorsi! L’ 85% dei migranti irregolari verso l’ Italia parte dalla Libia e proviene dall’ Africa Subsahariana. Si sta aggiungendo un fenomeno nuovo: un flusso dal Bangladesh che arriva in aereo al Cairo, poi scende verso il Sudan e rientra in Libia da sud.

Il rapporto di Frontex e l’ audizione del suo direttore al Senato sono noti: «Gli uomini libici che controllano la migrazione irregolare, il traffico di droga e armi, sarebbero in contatto con le Ong durante l’ operazione di soccorso. Abbiamo evidenze che alcune imbarcazioni spengono per alcune ore il sistema automatico di identificazione».

Il rapporto riservato delle audizioni rese dai migranti dice inoltre «Navigarono per circa 8 ore, quando una nave di Medici senza frontiere venne loro in soccorso. L’ interrogato afferma che la lancia con i facilitatori libici rimase sul posto durante l’ evacuazione e parlarono coi soccorritori. Dopo che tutti i migranti furono salvati, i facilitatori libici distrussero la barca di legno. Prima avevano smontato il motore, che portarono con sé». In un’ altra audizione: «fu messo in mare un gommone con circa 140 persone a bordo, scortato da un gommone ad alta velocità, con 4 guardie armate in uniforme. Dopo poco più di un’ ora, fecero una chiamata, nella quale il testimone li sentì dire: “Abbiamo già lasciato qui la gente, potete venire”». Ancora:

«Al crepuscolo, la barca di legno lasciò la costa libica, guidata per 2 km da un libico armato, che istruì due africani sulle manovre da compiere. Dopo circa tre ore lo skipper africano, che aveva ricevuto dal libico un satellitare, lanciò una richiesta di soccorso Poco prima del salvataggio, gettò in mare il telefono e una bussola. I migranti furono portati, dalla nave Aquarius, a Pozzallo».

Tsunami umano Le testimonianze sono tante, ma dimostrano poco. I numeri di telefono delle navi di soccorso e la loro posizione non sono segreti, si trovano su internet. E comunque di fronte ad un gommone alla deriva non è compito delle Ong occuparsi degli scafisti. Mentre le Procure di Catania e Trapani cercano la mela (o le mele) marcia, sul nostro Paese il nastro trasportatore scarica disperati a ritmo continuo.

Lo tsunami umano si è messo in moto, l’ Europa si è girata dall’ altra parte, noi siamo rimasti l’ approdo più facile. Come ne usciamo? Allestendo i corridoi umanitari nei Paesi d’ origine.

Ma quanti sono i Paesi d’ origine, e chi ci deve pensare? Il ministro dell’ Interno Minniti le sta provando tutte per far dialogare le fazioni libiche a suon di milioni ottenuti dall’ Europa. Paghiamo le tribù del sud per limitare i flussi; addestriamo le guardie costiere libiche e gli forniamo imbarcazioni per impedire le partenze; paghiamo le organizzazioni internazionali perché allestiscano i campi d’ accoglienza in Libia dove fare la ricognizione di chi ha diritto alla protezione. Paghiamo i Paesi d’ origine perché si riprendano i loro migranti economici. Ma fino a quando?

Azioni dimostrative Nella più complessa situazione geopolitica della storia recente, le Ong, oltre a salvare persone, potrebbero fare un’ altra cosa: contribuire a far esplodere il problema sui tavoli dell’ Europa. Per esempio Médecins Sans Frontières, la cui dedizione alla causa è totale, che utilizza navi attrezzate di tutto, non potrebbe tentare un’ azione dimostrativa, sbarcando un carico di migranti a Nizza? Si rifiuterà la civile Francia di soccorrere uomini, donne e bambini? La Fondazione Moas, degli imprenditori milionari Catambrone con sede a Malta, con la loro nave Phoenix, perché non provano ad attraccare almeno una volta nel più vicino porto sicuro della Valletta, come prevede la convenzione di Amburgo? L’ isola è piccola, ma qualche centinaio di persone ogni tanto, potrebbe anche gestirle, in fondo stiamo parlando dello Stato europeo più ricco.

Costringa il Paese che in questo momento ha la presidenza di turno dell’ Ue ad allestire centri degni di questo nome, o al contrario, ad esporre al mondo la propria viltà.

Magari si innesca l’ urgenza di rivedere gli accordi di Dublino, e anche quella di obbligare la Tunisia, che ha firmato la Convenzione di Amburgo, a raccogliere e accogliere i naufraghi, essendo geograficamente il porto più sicuro. Oltre alla consapevolezza che il mondo sta cambiando per tutti.

Fonte: dagospia

Photo by fabiolopiccolo:

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