Paragone demolisce Macaron: “Chi c’è dietro al candidato”: perchè dobbiamo tremare tutti

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mercoledì 26 aprile 2017

Macron, il candidato moderno. Il presidente in pectore che andrà oltre i partiti tradizionali. Il giovane euro entusiasta. Riformista, solidarista, liberista e, visto che ci siamo, anche liberal quanto basta da sposare una donna più grande di lui di parecchi anni. Macron, il candidato a taglia unica, che va bene sia ai radical chic della sinistra francese che ai moderati che guardarono a Sarkozy con fiducia. Macron, il banchiere di Rothschild, l’amico dell’Europa e nemico dei nazionalismi.

Quante cose è questo Macron, la faccia pulita che un pezzo di Francia ha scelto per andare al ballottaggio contro la pericolosa xenofoba Marine Le Pen, che – per quanto ridimensionta – alla sfida a due è riuscita ad andarci. Macron è sostanzialmente tutto e nulla, come si addice ai leader moderni: non è importante avere l’esperienza per guidare un Paese, basta avere la rete di relazioni che contano. E lui ce l’ha. Ecco perché di tutte le definizioni con cui l’hanno descritto ne manca una, assai maliziosa, che tuttavia le contiene tutte: Macron, il presidente duttile, teleguidabile. Un altro presidente perfetto per quel sistema GangBank che racconto nel mio libro appena uscito sul perverso intreccio tra finanza e politica. Un altro di quei signori che entreranno e usciranno dalle banche d’affari: Rothschild, Goldman Sachs, Jp Morgan, Morgan Stanley e compagnia bella.

«Farò da argine ai nazionalismi – ha commentato – Hanno perso i partiti tradizionali». È vero, hanno perso i partiti tradizionali, ha vinto la finanza speculativa. Ma ovviamente in questo clima di melassa non suona strano a nessuno se i partiti tradizionali stiano perdendo dappertutto, sostituiti da contenitori a taglia unica, unisex guidati da giovani rottamatori. Nell’Europa del neoliberismo i partiti tradizionali sono ferri vecchi, pezzi di antiquariato perché antiquato è il mondo cui si riferivano. Se il lavoro è disarticolato, non ha senso un partito socialista. Se le piccole imprese affogano nella tempesta della globalizzazione finanziaria, nemmeno un partito liberale serve. Così come è fuorimoda un partito repubblicano senza una Repubblica sovrana.Nella politica moderna financo la Costituzione diventa un impiccio. Una costituzione che parli di lavoro e di impresa, di diritti e di Stato, non può essere la carta fondamentale per mancanza dell’oggetto in questione. Macron è il campione di una modernità costruita in laboratorio per distruggere gli Stati.

In Francia il sistema GangBank non poteva perdere: sarebbe stata la fine. Ora le paure sono finite: in Italia, la legge elettorale è funzionale all’eurismo distruttivo. La propaganda farà il resto: come potete fidarvi della Le Pen? Come potete mandare al governo i Cinquestelle o Salvini? Come pensate di uscire dall’euro? Non solo seminano il panico ma colpevolizzano pure la vittima: avete vissuto sopra le vostre possibilità! Adesso, state buoni.

La finanza che ci fa la morale è la stessa che ha truccato la partita, che ha creato le condizioni delle bolle e poi delle crisi. GangBank ha trasformato i cittadini in consumatori per lasciarli nudi di fronte al loro indebitamento.

Macron ha chiamato il suo movimento «En Marche!» ma dietro di lui non c’è il quarto stato. Però ha vinto, ha superato il modello dei partiti, e questo basta per mettere tutti all’angolo. È la vittoria del ragazzo con la faccia pulita, il candidato che rassicura, è la sintesi di tutti i buoni principi. È il Battista del leader globale che verrà, Mark Zuckerberg, quel Gesù della Silicon Valley mandato dal dio moderno. Quando lo chiameremo presidente, il buonismo diventerà atto di fede e allora bye bye opposizione e diritto di critica. Bastano loro, i buoni per definizione.

di Gianluigi Paragone


Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/esteri/12368182/emmanuel-macron-gianluigi-paragone-presidente-teleguidato-alta-finanza.html

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IL GRANDE BUCO DI ALITALIA? COME SEMPRE C’E’ DI MEZZO MONTEZEMOLO E LA GHENGA DI BANDITI: ECCO LE LIQUIDAZIONI MOSTRUOSE DI CHI HA AMMAZZATO LA COMPAGNIA DI BANDIERA

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mercoledì 26 aprile 2017

Volare sulle ali di piombo della politica. Volare fuori rotta. Volare fuori dal mercato. La storia degli ultimi vent’anni di Alitalia è la successione seriale di fallimenti che generano altri fallimenti.

E una costante di fondo: manager modellati con la creta della politica e il Palazzo che si affanna a affondare il biscotto in quel pozzo senza fondo. «Gli interventi della politica a avario titolo – spiega il professor Marco Ponti, uno dei più autorevoli esperti di economia dei trasporti in Europa – sono stati almeno 5 negli ultimi vent’anni e secondo Mediobanca, che ha attualizzato i numeri, ricapitalizzazioni, aiuti e mance sempre generosissime sono costati al contribuente dal 1974 in poi fra i 7,4 e gli 8 miliardi di euro». Una cifra monstre per avere un’azienda sull’orlo del cratere e i conti completamente sballati.

La grande crisi comincia intorno al 2002-2003 quando Ryanair scala i cieli europei introducendo un nuovo concetto: il low cost. Alitalia, che ha una struttura vecchia e che ancora sopravvive sugli antichi allori, non fa nulla per mettersi al passo. E spesso le mosse fatte sono sbagliate o non risolutive. Gli organici sono gonfiati a dismisura, le assunzioni spesso passano dal notabile di turno, le destinazioni degli aerei devono tenere conto di troppi equilibri e diventano, come tutto il resto, un esercizio di equilibrismo. Per compiacere deputati e senatori e per ragioni di bandiera la compagnia raggiunge molte destinazioni che non sono redditizie. Anzi, sono una palla al piede. «A quel punto – prosegue Ponti – sarebbe stata necessaria una riconversione dal corto raggio al lungo raggio». Tradotto dal linguaggio tecnico a quello della strada significa sfoltire col decespugliatore le mete nazionali o europee per buttarsi su quelle intercontinentali, al momento le sole che generano profitto. Ma per farlo ci vorrebbero manager con la schiena dritta, ci vorrebbe coraggio, ci vorrebbero soprattutto molti soldi, una montagna di denari.

Alitalia, il più classico dei carrozzoni, resta impantanata nei suoi limiti strutturali, nei veti dei sindacati che banchettano allegramente con i soldi del contribuente, nella miopia di chi dovrebbe raddrizzare la barca. Ryanair ha un solo modello di aereo, Alitalia, fedele alla sua logica diplomatico-ecumenica, chiamiamola così, ne ha 22 e per di più di case diverse. Un manicomio per il magazzino, la logistica, le trattative con i fornitori.

La vendita ad Air France, che avrebbe dato un’anima alla flotta, sfuma e nel 2008 Berlusconi affida la compagnia ai «capitani coraggiosi»: i Colaninno, i Riva, i Benetton. La concorrenza continua a mangiare quote di mercato e le tariffe, per la fortuna dei passeggeri, scendono, ma il brand tricolore non decolla. Certo, i dipendenti calano da quota 20mila, uno scandalo, ma oggi, dieci anni dopo, siamo ancora a 12.500 e già si parla di altri 1.600 esuberi. Si dovrebbero ridurre i modelli e modificare le rotte ma il carburante del cambiamento non arriva. Oggi Alitalia spende 6,5 centesimi a chilometro per passeggero contro i 3,5 di Ryanair. Una guerra persa in partenza.

La compagnia è un pesce fuori scala per tutti i cieli. Troppo grande rispetto alle low cost, troppo piccola per competere con Air France e Lufthansa. A metà del guado non si va da nessuna parte, nemmeno quando arrivano gli arabi di Etihad. Che però, attenzione, acquisiscono solo il 49% e non la maggioranza assoluta del grande malato. Forse si muovono con particolare prudenza, forse hanno più dubbi che certezze. L’ultima chance svanisce. Oggi gli aerei che viaggiano a lungo raggio sono solo 25 su 115 e l’incremento portato da James Hogan è stato modestissimo: 2 unità. Poco o nulla. Il confronto finale è impietoso: i voli interni sono scesi dal 58 al 54% contro il 17-18 per cento del duo Air France Lufthansa. Un disastro. In compenso chi compra un biglietto in Italia finanzia con 3 euro una cassa integrazione di 7 anni, più lunga di uno scivolo di Disneyland. Un altro record della maglia nera dei cieli.

NON PIU’ TARDI DELLO SCORSO SETTEMBRE, APPARVE SUI GIORNALI QUESTA NOTIZIA

Silvano Cassano si è dimesso per motivi personali dalla carica di amministratore delegato di Alitalia, che ricopriva da dopo l’ingresso nell’ormai ex compagnia di bandiera degli arabi di Etihad; il dirigente, secondo quanto riportato da alcuni quotidiani, si vedrà riconosciuta una buonuscita da record: 2,4 milioni di euro il “tfr” per appena nove mesi di mandato. In una lettera interna, l’attuale presidente di Alitalia, Luca di Montezemolo, ha dato l’annuncio, spiegando che Cassano “cessa il suo mandato per motivi personali, ha formalmente comunicato le dimissioni al Consiglio di Amministrazione in data odierna”.

FONTE

ILGIORNALE

Alitalia, il super-pilota confessa:”Sapete come buttano i soldi?E poi alle hostess”

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mercoledì 26 aprile 2017

“L’Alitalia people ha sempre creduto a dispetto dei santi: ad ogni ristrutturazione si rimboccava le maniche e ripartiva sempre con rinnovato vigore. Un popolo di entusiasti. Se stavolta ha detto ‘no’ è perché c’è rabbia vera, la gente s’è stufata delle promesse e la fiducia è ormai sotto zero…”. Così Riccardo Canestrari, 54 anni, pilota civile dal ’92 e coordinatore nazionale piloti Anpac commentando la vittoria del ‘no’ al referendum su Alitalia. E ancora, al Corriere della Sera, il pilota spiega: “Ho già vissuto tre ristrutturazioni – racconta – ricordo soprattutto quella del 2008, con mille piloti e 11 mila dipendenti mandati a casa senza pietà. Un bagno di sangue, con scene tipo Lehman Brothers, gente che se ne andava in lacrime da Fiumicino, piloti che poi sono finiti a volare in Bangladesh”.

E dopo questa lunga premessa, l’attacco, durissimo, alla nostra compagnia di bandiera. “Nessuno oggi festeggia per questo ‘no’, perché sarebbe come brindare sul Titanic che affonda. L’Alitalia people ne è ben consapevole, ma il ‘no’ era l’ unico modo per dire basta”, sottolinea. Canestrari aggiunge che “noi abbiamo già dato. Ricordo nel 2014 il welcome drink per il nuovo azionista, il benvenuto dato da tutti noi a Etihad col sacrificio delle tredicesime e di quote dello stipendio. Ma perché devono sempre pagare i lavoratori per le scelte sbagliate dei manager”. E dunque il pilota le elenca, queste scelte sbagliate: “Buonuscite fantasmagoriche, piani industriali mai realizzati, errori sui leasing, sui carburanti, aerei nuovi arrivati col contagocce, corsi di formazione ad Abu Dhabi per insegnare alle hostess italiane come si versa il vino”. Piccoli dettagli che, però, rivelano in pieno gli sprechi di Alitalia. Una compagnia da anni e anni sull’orlo del fallimento che sgancia buonuscite monstre e “addestra” le hostess a versare il vino. Come dice Libero, meglio farla fallire.

Fonte: http://www.liberoquotidiano.it/news/italia/12367598/alitalia-riccardo-canestrari-maxi-buonuscite-corsi-aggiornamento-vini-hostess.html

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Il coraggio della verità sulle ONG

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di Luigi Di Maio

Da questo video potrete osservare come ormai ai criminali – cosiddetti scafisti – basti una moto d’acqua per scortare i migranti sulla prima nave disponibile per l’Italia. Le navi delle autorità italiane dall’estate scorsa non si portano più a ridosso delle acque libiche, adesso si trovano in una posizione arretrata. Alcune navi ONG invece sembrerebbero essere a portata di acquascooter.

Le morti nel Mediterraneo non diminuiscono, bensì aumentano. Il perché ce lo spiega con una chiarezza disarmante il Procuratore di Catania Carmelo Zuccaro. A Roberto Saviano che anche stamattina mi attacca dalle colonne della solita Repubblica – prestandosi chiaramente al gioco di chi vorrebbe far calare il silenzio su questa vicenda – consiglio di ascoltare sempre le procure e la magistratura, non solo quando parla (meritoriamente) di camorra nei suoi saggi e nei suoi film. Gli consiglio anche di leggere le inchieste fatte da questo quotidiano che è del gruppo editoriale per cui scrive. Il MoVimento 5 Stelle vuole verità sulle ONG e andrà fino in fondo sia nelle sedi italiane che in quelle europee. Ci aiutino anche quelle ONG che non hanno niente a che fare con ombre.

LEGGETE attentamente le parole di Zuccaro, dall’intervista a La Stampa e fatevi la vostra idea:

“È una storia che comincia nel 2012. All’epoca la Marina militare che intercettava in acque internazionali i barconi e identificava spesso gli scafisti. Molti furono gli arresti. «All’epoca – ha raccontato Zuccaro – il meccanismo prevedeva la navi-madre per attraversare il Mediterraneo; i migranti scendevano su barchini solo all’ultimo. Noi abbiamo fissato il principio che si poteva intervenire già in alto mare. Abbiamo intercettazioni tra la nave e l’organizzatore, con quest’ultimo che li tranquillizza: finchè state lì, gli italiani non possono fare niente. E invece…». 
Archiviate le navi-madre, gli scafisti passarono ai «facilitatori», ossia chi accompagnava il viaggio dei disperati. «Li precedevano, segnavano la rotta, predisponevano le vettovaglie». Ma anche questi complici spesso venivano individuati dalla Marina militare e intercettati.
La missione italiana Mare Nostrum finì e ne subentrò una europea detta Eunavoformed-Sophia. Zuccaro ha raccontato un retroscena fondamentale. «Inizialmente le navi militari erano troppo vicine alle acque territoriali libiche, così i “facilitatori” non servivano più». La nuova missione europea rischiava di diventare controproducente. «Ho fatto presente il problema e con l’ammiraglio Berutti Bergotti (in carica dal giugno 2016, ndr) abbiamo concordato un nuovo assetto, più distante dalle acque libiche».
Con le navi militari che arretrano nell’estate del 2016, per gli scafisti torna la necessità dei «facilitatori». Ma d’improvviso la procura registra l’irruzione, su cui nutre molti sospetti, di nuovi soggetti: le Ong. A partire da settembre, infatti, molte organizzazioni umanitarie, alcune nate per l’occasione, si schierano in mare. Nasce dal nulla una flotta di ben 13 navi e due droni. Sono quelle stesse Ong che anche Frontex osserva con molta irritazione.
La procura indaga sulle loro enormi spese. Soltanto per i droni, l’associazione tedesca Moas spende 400 mila euro al mese. Zuccaro non trae ancora conclusioni, ma butta lì: «Nei primi mesi del 2017 la percentuale dei loro salvataggi è salita ad almeno il 50%». E intanto il numero dei morti non diminuisce perché gli scafisti approfittano della situazione per inzeppare i gommoni all’inverosimile.
Conclude Zuccaro: «Domando: è consentito a organizzazioni private sostituirsi alla volontà delle Nazioni?».

VERGOGNA DE BENEDETTI: NON SOLO RUBA A MONTEPASCHI, ADESSO SI FA PAGARE DAGLI ITALIANI IL BUCO DELLE AZIENDE

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domenica 23 aprile 2017

Una legge favorirà Sorgenia a danno dei colossi dell’energia. Così l’ex società dell’Ingegnere salvata da Mps avrà più clienti

In gergo finanziario si dice: «Se il debitore deve alla banca 10mila euro, il problema è suo; se le deve 10 milioni di euro, il problema è della banca».

A questa massima si può aggiungere una postilla: «se la banca e il debitore sono amici dello Stato, a pagare è il cittadino». Ed è questo, in buona sostanza, il succo di una serie di emendamenti al ddl Concorrenza che potrebbero avvantaggiare la utility Sorgenia, un tempo del gruppo Cir della famiglia De Benedetti e da un paio d’anni proprietà delle banche creditrici tra le quali c’è Mps.

Il ddl Concorrenza 2015, che da agosto è in commissione Industria al Senato presieduta da Massimo Mucchetti (Pd), prevede la fine del mercato tutelato di elettricità e gas a partire dal primo luglio dell’anno prossimo. I clienti del servizio di maggior tutela entro quella data dovranno passare a una delle offerte di mercato libero dei vari operatori (le associazioni dei consumatori sono sul piede di guerra da tempo perché prevedono rincari). Ma che cosa succede a chi non eserciterà l’opzione per inesperienza o semplice dimenticanza? Lo spiegano due emendamenti all’articolo 27 approvati in commissione, uno di Francesco Scalia (Pd) e l’altro di Aldo Di Biagio (Ncd): sarà garantito un servizio di salvaguardia «attraverso procedure concorsuali per aree territoriali e a condizioni che incentivino il passaggio al mercato libero».

Il governo, secondo fonti bene informate, avrebbe già in preparazione un altro emendamento che disciplina nel dettaglio lo svolgimento delle aste precorrendo i tempi del decreto attuativo – d’uopo in simili occasioni – e stabilendo limiti rigidissimi di quote di mercato, che dovranno essere inferiori al 50%, per la partecipazione alle gare. Una sollecitudine un po’ sospetta per un ddl che da due anni vaga per il Parlamento. L’identikit dei potenziali partecipanti è presto svelato: a quelle gare non potrebbero partecipare Enel e le utility delle grandi città come Roma, Milano, Torino e Napoli. A tutto vantaggio di operatori su scala nazionale quale è appunto Sorgenia.

Se si considera che il volume d’affari ipotizzato per i servizi elettrici forniti a coloro che non eserciteranno l’opzione per il mercato libero è di almeno 500 milioni di euro, è legittimo dubitare della trasparenza delle procedure vista l’esclusione ex ante degli operatori incumbent che, tra l’altro, essendo a partecipazione pubblica, garantiscono dividendi al tesoro o ai Comuni azionisti. Ecco, è una questione di dirottamento di dividendi. Sorgenia, di proprietà delle banche dopo che Cir non era riuscita a far fronte a 1,8 miliardi di debiti (600 milioni in capo a Mps, oggetto di salvataggio pubblico da 6,7 miliardi), ha bisogno di un afflusso di risorse che le consentano di rimettersi in carreggiata facendo recuperare ai soci una piccola parte dei crediti trasformati in azioni e in nuovi finanziamenti. Il presidente dell’Authority Energia, Guido Bortoni (in scadenza nel 2018 e in cerca di ricollocazione), ha detto che «non saranno messi all’asta i clienti, ma il servizio». Le perplessità restano.

FONTE

IL GIORNALE

Saviano parla per sentito dire. 

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  Affronta il tema dei migranti come se fosse una sceneggiatura per una serie di successo, non per quello che è, ossia un problema serio che costa migliaia di vite umane ogni anno. Ci sono alcuni dati che non possono essere ignorati se vogliamo parlare con cognizione di causa della questione.

1) Definire taxi le imbarcazioni delle ONG non è un mio copyright. Prima di me, e a ragione, lo ha detto l’agenzia dell’UE Frontex nel suo rapporto “Risk analysis 2017“. Saviano questo lo ignora e parla a vanvera.

2) Saviano ignora anche che sempre Frontex ha affermato, dati alla mano, che “proprio il sovraffollamento sui barconi sta provocando più decessi” e che “i trafficanti, aspettandosi di trovare navi che salvino i migranti più vicine, forniscono poca acqua e scarsissimo cibo e carburante“. Quindi le ONG, che Saviano difende senza sapere neppure di cosa parla, stanno causando più confusione e più morti in mare.

3) Le Ong non hanno ridotto il numero di morti in mare. Il procuratore di Catania ha spiegato che “Le Ong lavorano spesso in prossimità del territorio e delle coste libiche. Abbiamo calcolato che negli ultimi quattro mesi del 2016 il 30% dei salvataggi con approdi a Catania è stato effettuato da quelle organizzazioni; nei primi mesi del 2017 quella percentuale è salita ad almeno il 50%. E accanto a questo dato emerge che il numero dei morti non è diminuito. Registriamo un dato che ci desta preoccupazione: il numero di morti in mare nel 2016 ammonta a 5000; nel triennio 2013-2015 le vittime di cui si è occupata la Procura di Catania sono state 2000: il che mi fa ritenere che la presenza di queste organizzazioni, a prescindere dagli intenti per cui operano, non ha attenuato il numero delle tragedie in mare“.

Io non cerco i voti di chi vuole i migranti in fondo al mare, Saviano invece sostiene chi materialmente ne è causa. Consiglio a Saviano di informarsi prima di parlare per evitare figuracce.

UCRAINA: Odessa città napoletana, dove l’italiano era lingua ufficiale

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Nel 1794, Giuseppe De Ribas, nato a Napoli da un nobile spagnolo al servizio dei Borboni, fondò la città di Odessa, in Ucraina, organizzandone il porto, la flotta e il commercio, rendendola una città importante per il Mar Nero e il Mediterraneo.

Al posto di Odessa “città leggendaria”, come la definisce Charles King, docente di Affari internazionali della Georgetown University di Washinghton, nel suo recente libro Odessa (Einaudi 2014), sorgeva un villaggio, Khadjber, abitato dai tatari. De Ribas entrò in contatto con questo lembo di terra quasi fortuitamente, in quanto Ufficiale di collegamento al servizio dell’Ammiraglio Grigorij Aleksandrovič Potëmkin, principe e amante dell’imperatrice Caterina, il cui obiettivo, dopo la sconfitta dell’impero ottomano, era di estendere verso ovest il grande impero russo.

De Ribas ribattezzò il villaggio Odesso, in omaggio alla vecchia colonia greca che si estendeva sulla costa. Luogo di incontro tra la civiltà orientale e quella occidentale, multiculturale per la sua stessa natura geografica, situata alla foce di grandi fiumi, tra cui il Danubio, divenne presto il cuore pulsante dell’impero meridionale della zarina Caterina, la quale per la sua stessa forza ed importanza geo-strategica ribattezzò il villaggio al femminile, Odessa.

Ben presto, ad Odessa si costituì una colonia italiana, che nel 1850 contava circa tremila di abitanti, quasi tutti di origine meridionale. Rilevante fu il contributo che questa comunità diede alla fondazione, allo sviluppo e all’economia dell’impero russo. L’italiano rimase lingua ufficiale dell’attività economica della città. Cartelli stradali, passaporti, liste dei prezzi erano scritti in italiano, e la comunità italiana diede un grande contributo alla cultura della città alle porte del Mar Nero, soprattutto nell’ambito dell’architettura. Il napoletano Francesco Frapolli fu nominato architetto ufficiale della città da Richelieu, nel 1804 e fu lui a progettare la monumentale Opera di Odessa e la famosa Chiesa della Trinità.

La famosa canzone O’ sole mio fu scritta e composta ad Odessa da Giovanni Capurro e Eduardo Di Capua che in quel tempo si trovava nella città russa. La musica si ispirò ad una bellissima alba sul Mar Nero e dedicata alla nobildonna oleggese Anna Maria Vignati Mazza. Il brano non ebbe immediato successo a Napoli, salvo poi diventare famosa sulle sponde del Mar Nero e da lì divenire canzone patrimonio della musica mondiale.

Inoltre, grandi attori teatrali come Tommaso Salvini, Ernesto Rossi ed Eleonora Duse contribuirono alla formazione dell’Opera di Odessa, facendo della città la più europea e mediterranea dell’impero russo.

Tuttavia, il peso della colonia italiana diminuì progressivamente nella seconda metà dell’Ottocento (nel censimento del 1900 la comunità italiana contava solo 286 unità), ma l’impronta italiana nella città è evidente tutt’oggi.

Odessa, città di frontiera tra est e ovest, in realtà vanta radici nell’Italia meridionale. Ieri come oggi, la costa del Mar Nero rimane una regione di frontiera tra l’Europa occidentale e quella orientale. Ripensare alle radici comuni aiuterebbe a guardarsi con fratellanza e unione.

La libertà.

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Che tutto sommato il concetto di libertà per me si riassume in quello di non scendere a compromessi per i propri traguardi, quello di non sentirsi in debito con nessuno. Accettare di rimanere indietro rispetto a chi si assicura corsie preferenziali, scegliere di leccare un cono alla nocciola nei miei jeans sdruciti, seduta su una panchina zozzosa, piuttosto che il culo di un potente qualunque in una qualsiasi stanza dei bottoni. Perché credo non valga la pena desiderare altra ricchezza o altro lusso che la libertà di dire quello che penso!

Francesca Prisco