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strage a Pontelandolfo
di Giacomo Bianco
«Potete chiamarli briganti, ma combattono sotto la loro bandiera nazionale; potete chiamarli briganti, ma i padri di quei briganti hanno portato due volte i Borbone sul trono di Napoli. É possibile, come il governo vuol far credere, che 1500 uomini comandati da due o tre vagabondi tengano testa a un esercito regolare di 120.000 uomini? Ho visto una città di 5000 abitanti completamente distrutta e non dai briganti».[1]La città di cui parla nella sua relazione il deputato milanese, Giuseppe Ferrari, è Pontelandolfo, nella quale di persona si recò mesi dopo, per constatare con i suoi occhi come il paese fu distrutto e bruciato. Vittima di una violenta repressione, il grazioso borgo medievale in provincia di Benevento, è appunto tristemente noto a storici e appassionati di storia risorgimentale, per i fatti di sangue avvenuti nei roventi giorni d’agosto nell’estate del 1861.
In breve. Il giorno della festa del patrono, il 7 agosto del 1861, durante la processione in onore del santo, irruppero nella scena religiosa un gruppo di briganti. Appoggiati da parte della popolazione e dall’arciprete don Epifanio De Gregorio, i reazionari diedero vita ad una dura sedizione, inneggiando al ritorno del re Francesco II. Il casus belli della rappresaglia avvenne quattro giorni più tardi, la sera dell’11 agosto, quando a Casalduni, a due passi da Pontelandolfo, furono uccisi in un’imboscata, dai filo-borbonici e dai legittimisti, 45 bersaglieri del nuovo esercito italiano, comandati dal tenente Bracci. Erano stati inviati dal colonello Negri per una perlustrazione, per avere conferma e informazioni sulla rivolta in atto.
La reazione punitiva non tardò ad arrivare contro i due comuni e infatti, qualche giorno dopo, il generale Cialdini, informato dei fatti dal cavalier Jacobelli della Guardia Nazionale, diede il triste ordine: «che di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra» [2]. Contro Casalduni fu incaricato l’ufficiale Melegari, mentre la marcia su Pontelandolfo fu affidata al colonnello Negri. Tutto era pronto e, all’alba del 14 agosto 1861, partirono per compiere la disumana missione. A Casalduni, l’ufficiale Melegari, non trovò che un paese abbandonato perchè gli abitanti erano stati avvisati dal sindaco e rifugiati tra i monti. A Pontelandolfo invece la strage fu piena e i civili colti nel sonno. Improvvisamente esplose l’ordine d’assalto in raffiche di fucili, in furibonde scorrerie, vennero abbattute le porte e le finestre. La sparatoria non risparmiò nessuno: caddero sotto i colpi giovani e vecchi, donne e fanciulle, chi uscì dalle case professando la propria innocenza e chi cercò di difendere i più piccoli e le donne. Fu un’azione costellata di assassinii, violenze, sopraffazioni, razzie. Dopo ci furono solo corpi e case che bruciarono fino alle prime luci dell’alba. L’indomani il Giornale officiale di Napoli, il 16 agosto del 1861, rese pubblico il dispaccio telegrafico con il quale Negri informava Cialdini che «ieri, all’alba, giustizia fu fatta per Pontelandolfo e Casalduni»[3].
In questo modo, due dei protagonisti dei fatti, ricordano l’accaduto pochi giorni dopo:
«Le notizie delle province continuano a non essere molto liete. Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò in paese, uccise quanti ne erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il foco al villaggio intero, che venne completamento distrutto. La stessa sorte toccò a Casaldone, i cui abitanti erano uniti a quelli di Pontelandolfo. Sembra che gli aizzatori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti; in tutte le province, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e abusando infamamente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte son mossi dalla miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati, il castigo sarebbe più giustamente inflitto, e i risultati più sicuri e più pronti…»
[4].
Il generale Cialdini e lo Stato Maggiore
Queste le parole del tenente Negri, la sua denuncia anticlericale in una delle tante corrispondenze con la famiglia; più avanti, sempre in una lettera al padre, dirà come è stato frustrante per lui combattere questa guerra infamante fatta di imboscate, sortite e rappresaglie. Lui, come molti altri, l’avevano immaginata in un’altro modo la guerra di liberazione dell’Italia. Le parole che seguono sono invece del bersagliere Carlo Margolfo, del sesto Battaglione seconda Compagnia quarto Corpo d’Armata, comandato dal generale Cialdini. Egli con cinismo ammette come mentre i poveri diavoli bruciavano, i soldati facevano razzie di cibo:
«Al mattino del mercoledì, giorno 14, riceviamo l’ordine superiore di entrare nel comune di Pontelandolfo, fucilare gli abitanti, meno figli, le donne e gli infermi, ed incendiarlo. Difatti un po’ prima di entrare al paese incontrammo i briganti attaccandoli, ed in breve i briganti correvano avanti a noi, entrammo nel paese subito abbiamo incominciato a fucilare i Preti ed uomini quanti capitavan indi il solfato saccheggiava, ed infine abbiamo dato l’incendio al paese, abita da circa 4.500 abitanti. Quale desolazione, non si poteva stare d’intorno per il gran calore, e quale rumore facevano quei poveri diavoli che la sorte era di morire abbrustoliti, e chi sotto le rovine delle case. Noi invece durante l’incendio avevamo di tutto: pollastri, pane, vino e capponi, niente mancava, ma che fare non si poteva mangiare per la grande stanchezza della marcia di tredici ore» [5].
Proprio così, il bersagliere aveva perso l’appetito, non davanti allo spettacolo del raccapricciante incendio del paese, ma a causa della stanchezza della dura marcia.
Anche, e per fortuna, nella Camera dei Deputati si discusse intorno ai fatti di sangue di Pontelandolfo e Casalduni. Le dichiarazione dell’onorevole Giuseppe Ferrari, milanese, tenute alla Camera il 2 dicembre 1861, a poco più di tre mesi dall’eccidio, sono alla stesso tempo testimonianza della gravità dei fatti dell’agosto dello stesso anno e un grido d’accusa contro la gestione della repressione del brigantaggio, da parte dell’esercito e del governo. La sua requisitoria inizia dichiarandosi «letteralmente inorridito per i soprusi, le prepotenze le angherie, le incomprensioni, che con leggerezza pari all’iniquità furono riservate alla italianissima, generosissima, negligissima, civilissima Napoli». Elenca poi «più di ottanta paesi…taglieggiati, sconvolti, insanguinati, abbandonati in preda al saccheggio» e prosegue:
«nel turbinìo degli avvenimenti, le morti si moltiplicano nella immaginazione del volgo, il terrore prende mille forme, il silenzio paralizza la lingua del cittadino napoletano che reclamando, teme d’esser sospetto, e la confusione giunge a tal punto che io a Napoli, non potevo sapere come Pontelandolfo, città di cinquemila abitanti, fosse trattata. Io ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare i fatti con gli occhi miei. Mai potrò esprimere i sentimenti che mi invasero in presenza di quella città incendiata…vie abbandonate, a destra e sinistra le case erano vuote e annerite : si era dato il fuoco ai mobili ammucchiati nelle stanze terrene e le fiamme avevano divorato i tetti »[6].
Non furono certo pagine edificanti nella storia dell’Italia nascente, quelle che raccontano i fatti dei due comuni del Sannio e da queste memorie muove un interrogativo: fu giusto etichettare questi due paesi del beneventano come paesi di briganti o responsabili dell’eccidio stesso? É stato giustificato il silenzio delle istituzioni sull’eccidio, per un secolo e mezzo? Pagine di sangue, dunque, ma non per questo da nascondere, o da usare contro qualcuno per recriminare gli errori commessi, ma solo pezzi di storia apocrifa da ricordare, da togliere dall’oblio. E ricorda Pontelandolfo. Infatti la cittadinanza già circa 50 anni fa, dopo le celebrazioni in occasione del centenario dell’Unità, fece sentire la propria voce e rivendicato i propri diritti di città martire del Risorgimento, con una serie di petizioni ed istanze [7], volte a fare di questo piccolo centro uno dei luoghi della memoria del Risorgimento italiano. Forse un gesto da parte delle Autorità della Stato sarebbe stato doveroso, ma non ci fu mai nessun riconoscimento ufficiale, negli anni a venire, nonostante le molte voci che si sono levate, di storici, letterati, cronisti, intellettuali.
Briganti, 1862
Bisognerà attendere il 14 agosto 2011, esattamente 150 anni dopo, perché gli sforzi dei Pontelandolfesi siano premiati con una cerimonia solenne [8], quando Giuliano Amato, in veste di Presidente dei Garanti dell’Unità tecnica di Missione per le celebrazioni dell’anniversario, ha dichiarato Pontelandolfo uno dei “Luoghi della Memoria” della storia unitaria. Oggi, grazie ad un’accurata riflessione storica, si è cercato di fare luce sui tumultuosi eventi di quegli anni. Ciò che è stato riduttivamente chiamato brigantaggio dalla classe politica del tempo, è stata in realtà una vera e propria guerra civile. Le bande di reazionari e legittimisti del sud Italia si ingrossarono rapidamente, raggiungendo ciascuna migliaia di componenti, macchiandosi di episodi raccapriccianti di violenza e giungendo all’occupazione di centri urbani popolosi. Il Regno d’Italia rispose con uno stato di guerra. La legge Pica del 1863 stabilì una giustizia sommaria, incaricata di condannare a morte quei briganti che fossero stati catturati con le armi in pugno, e ai lavori forzati a vita, quelli che non avessero opposto resistenza, e in più coloro che avessero aiutato in qualche modo i briganti stessi: potenzialmente tutta la popolazione. Questa si trovò tra due fuochi: da una parte la paura dei briganti e i reazionari che chiedevano ai locali protezione e sostentamento; e dall’altra la paura dello Stato italiano che puniva severamente chi li aiutava.
Tuttavia molti cominciarono ad appoggiare la causa dei legittimisti, poichè se grande era stata la partecipazione e l’entusiasmo con cui la popolazione meridionale aveva accolto i garibaldini – era stata massiccia infatti la presenza di meridionali nell’esercito delle camicie rosse – altrettanto grande era stata la disillusione per le promesse non mantenute. Con l’unificazione, nel giro di qualche anno, non solo – come è noto – furono inasprite le tasse e introdotto un servizio di leva più rigido, ma furono inoltre soppresse le forme di proprietà comune della terra, gli usi civici, che da sempre permettevano ai poveri di sopravvivere, raccogliendo la legna nei boschi o portando al pascolo le bestie. L’annessione, infatti, fu troppo affrettata, la cancellazione nel Meridione dell’apparato amministrativo-legislativo borbonico, troppo irrazionale. Con molta leggerezza furono abolite tutte le leggi e i codici napoletani, e impiantata la legislazione piemontese. Aver fatto ciò, prima di arrivare ad elaborare un Codice italiano, fu un grave errore, che compromise il rapporto e l’unione identitaria delle “due Italie”. Da qui dunque il risentimento dei meridionali che videro il loro paese vilipeso, tradito e trattato non meglio di una colonia, in una sola parola: “piemontesizzato”. Non fu certo quello che la gente del Mezzogiorno si aspettava di ottenere, dopo tanti sacrifici e dopo l’aiuto generosamente mostrato alla causa italiana. Il popolo dell’ex Regno delle Due Sicilie, infatti, aiutò e collaborò alla cacciata del Borbone, non per far posto ad uno stato d’assedio e ad un esercito di conquista, come si dimostrò in fondo quello piemontese. Questo stato di guerra mise in ginocchio l’economia meridionale che, nonostante il pesante sistema protezionistico borbonico, non era così deficitaria. Tutto ciò naturalmente avvicinò, come detto, molta gente alle bande dei cosiddetti briganti, che andavano da veri e propri eserciti organizzati a piccole associazioni di delinquenza locale.
Banda Giordano, Cerreto Sannita
É altresì vero, però, che non si può parlare di una vera e propria insurrezione contro il neonato Stato, poichè non ci fu mai unità d’intenti nel popolo, come non ci fu mai un appoggio totale alla causa reazionaria. Non si crearono insomma, in nessun modo, i presupposti per una coesa e decisa ribellione. Inoltre il ceto medio-alto meridionale era del tutto liberale e pro-unità. Da tempo in lotta contro il protezionismo dei Borboni, i proprietari terrieri del sud, tramite manifestazioni modernizzatrici e di stampo liberiste, come l’associazionismo agrario [9], dimostrarono la loro voglia di partecipare al libero scambio economico delle nazioni, vietato dal vecchio governo, accogliendo dunque con favore la rivoluzione del processo unitario. Il popolo si trovò diviso in due, tra reazione e rivoluzione. L’unica cosa comune a tutti in quegli anni bui, fu invece, quella di fare i conti con la più nera miseria, causata da una guerra mai dichiarata, nascosta e sempre minimizzata.
In conclusione, molti storici sostengono [10] – anche se molti altri non concordano – che la superficiale annessione del Sud al Regno d’Italia e la dura repressione del brigantaggio siano state l’origine e la causa del divario, nonchè della spaccatura socio-culturale, che divide tutt’oggi l’Italia in due parti. Infatti, a causa della manifesta diversità politica, strutturale e culturale fra regioni meridionali e regioni settentrionali, fu impossibile compiere il processo di unificazione senza controversie e conflitti. La religione civile, il senso di appartenenza alla nazione, alla patria, si sarebbe cercato di realizzarli più avanti; in quel momento, interessava solo mettere assieme tutti i “pezzi” dell’Italia, come tasselli di un puzzle, neanche troppo difficile da completare. L’aforisma di D’Azeglio diventa un ritornello che torna sempre comodo – e rischia di farci inciampare in una banale retorica – quando si parla di Risorgimento italiano: prima si è fatta l’Italia e poi si è cercato di fare gli italiani.
Da qui muove la sequela di pregiudizi che hanno accompagnato la storia post-unitaria del nostro Paese. Da una parte i settentrionali che, mentre proclamarono il loro amore per la patria, disprezzarono una parte della nazione, ritenendosi portatori di una civiltà superiore rispetto a quella dei meridionali, affetta da primitivismo selvaggio. D’altra parte, i meridionali, per cui il contatto coi piemontesi costituì, al di là dell’iniziale entusiasmo, motivo di delusione e di risentimento. E ancora mentre l’immagine che i settentrionali si erano fatti del napoletano era connotata dall’apatia e dall’indolenza, i piemontesi apparirono «superbi e arroganti» ai napoletani, quelli che pur dichiarandosi «amici e liberatori», li trattarono «ora con disprezzo ora con ischerno, come avrebbero fatto con plebi avvilite e abbiette» [11]. Certi pregiudizi, dall’una e dall’altra parte, sono ancora difficili da estirpare appunto perchè hanno ben salde radici.
Tuttavia gesti come il riconoscimento di Pontelandolfo a “Luogo della Memoria” – anche se dopo colpevole ritardo – aiutano la tanto ricercata coesione identitaria, l’appartenenza di un popolo ad una nazione che ascolta e ammette i propri errori del passato. Certo non può cancellare, come con un colpo di spugna, tutte le divisioni, le fratture, le incomprensioni, le differenze, che hanno contrassegnato l’identità stessa del nostro Paese. Ci sono sempre state due Italie, due civiltà, due stili di vita e di pensiero differenti. Ma la presenza del corpo dei bersaglieri dell’esercito italiano, nella cerimonia di Pontelandolfo per il 150 esimo anniversario della strage, ha forse aperto una nuova strada, la strada della riconciliazione:una Italia ha porto la mano all’altra.
Dialoghi Mediterranei, n.14, luglio 2015
Note
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[1] Documento: Atti parlamentari, tornata del 2 dicembre 1861:.82
[2] Luisa Sangiuolo, Il brigantaggio nella provincia di Benevento: 1860-1880, De Martino, Benevento 1975: 105
[3] Documento: Giornale officiale di Napoli, 16-08-1861, n.194
[4] Aldo De Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’unità d’Italia, 3. ed., Roma, Editori Riuniti, 2005: 26
[5] Mi toccò in sorte il numero 15. Episodi della vita militare del bersagliere Margolfo Carlo, introduzione e note di Laura Meli Bassi e Gino Fistolera , edizione a cura del Comune e della Pro Loco di Delebio, 1992.
[6] Documento: Atti parlamentari, 1861: 79-89
[7] Pontelandolfo per ricordare e non dimenticare, a cura di Renato Rinaldi, II edizione 2010, Grafiche Iuorio, Benevento: 238-263
[8] Da ufficio stampa di Pontelandolfo, in Pontelandolfo news.it, 16 agosto 2011
[9] Vedi: Marta Petrusewicz, Come il Meridione divenne una questione: 39-62
[10] Questi studiosi costituiscono il “canone antirisorgimentale” che tanta fortuna ha avuto intorno alle celebrazioni del 150esimo anniversario dell’unificazione. Vedi introduzione di Alberto De Bernardi a: Antirisorgimento. Appropriazioni, critiche, delegittimazioni, a cura di Maria Pia Casalena; Centocinquantanni di discorsi antirisorgimentali di M.P. Casalena: 3-26 e Editoria e revisionismi, 2000-2011 di M. P. Casalena: 246-257
[11] Luigi Anelli, Storia d’Italia dal 1814 al 1863 , Milano, Francasco Vallardi, 1863-1864:253
Riferimenti bibliografici
Luigi Anelli, Storia d’Italia dal 1814 al 1863, Milano, Francasco Vallardi, 1863-1864.
Alberto Mario Banti, Sublime madre nostra. La nazione italiana dal Risorgimento al fascismo, Roma Bari Laterza, 2011.
Francesco Barra, Il brigantaggio in Campania, in “Archivio storico per le province napoletane” Napoli, a.XXII, 1983.
Rocco Boccarino, Memorie dei giorni roventi dell’agosto 1861, in “Samnium” Napoli a. XLVI, 1923 , n.1-2.
Federico Chabod, L’idea di nazione, Roma Bari Laterza, 2011.
Antonio Ciano, Le stragi e gli eccidi dei Savoia (esecutori e mandanti), Formia Graficat, 2006.
Comune di Pontelandolfo, Pontelandolfo per ricordare e non dimenticare, a cura di Renato Rinaldi, II edizione 2010, Benevento, Grafiche Iuorio.
Aldo de Jaco, Il brigantaggio meridionale: cronaca inedita dell’unità d’Italia, 3. ed., Roma, Editori Riuniti, 2005.
Gigi Di Fiore, Pontelandolfo e Casalduni: un massacro dimenticato, Napoli, Grimaldi, 1998.
Paolo Macry, Unità a Mezzogiorno. Come l’Italia ha messo assieme i pezzi, Bologna, Il Mulino, 2012.
Vincenzo Mazzacane, Memorie storiche di Cerreto Sannita, Cerreto Sannita, Tip. ed. Telesina, 1911.
Vincenzo Mazzacane, I fatti di Pontelandolfo, in “Rivista storica del Sannio”, a.IX ,1923, n.3.
Marta Petrusewicz, Come il meridione divenne una questione, Catanzaro, Rubettino editore, 1998.
Luisa Sangiuolo, Il brigantaggio nella provincia di Benevento: 1860-1880, Benevento, De Martini stampa, 1975.
Nicolina Vallillo, L’incendio di Pontelandolfo, in “Rivista storica del Sannio”, Benevento, a. X, 1919, n.6