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A Vittorio Emanuele III la morte volle risparmiare l’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, che sarebbe diventata esecutiva solamente tre giorni dopo.
Sono passati quasi 70 anni e il rientro in Italia di colui che fu il più longevo sul trono d’Italia ha riaperto il dibattito storiografico sul sovrano che durante il suo regno vide ben due guerre mondiali, la presa del potere di comunismo, fascismo e nazismo, la fine della stessa era monarchica.
Eppure per almeno un ventennio era stato un ottimo re.
Non potendo certo contare su un gran fisico, causato dalla consanguineità dei suoi genitori, Umberto I e Margherita di Savoia, cugini di primo grado, si trovò sempre meglio al tavolino. Il confronto con gli aitanti e sportivi esponenti del ramo Savoia-Aosta non fece altro che esacerbare frustrazioni e spigolature che allignavano in un carattere chiuso e introverso.
Le figure più importanti della sua infanzia e della sua giovinezza furono una donna e un uomo, che non erano la madre e il padre, assenti e assorti nei doveri inerenti i rispettivi ruoli.
Per l’allattamento, il futuro re fu dato in appalto a una balia locale, e per la prima educazione a una nurse irlandese, Elizabeth Lee, vedova di un ufficiale britannico, e naturalmente cattolica perché la devota Margherita non avrebbe mai accettato una protestante. Elizabeth, detta Bessie, rimase quattordici anni col suo pupillo, e fu una delle poche creature che questi abbia amato.
La figura paterna fu rappresentata dal generale Egidio Osio, scelto come suo precettore.
“Il Principe è libero di fare tutto quello che voglio io” soleva affermare l’alto ufficiale. Le uniche lettere di Vittorio Emanuele in cui si avverte un palpito di affettuosa e rispettosa gratitudine sono quelle ch’egli seguitò a scrivere al militare, anche dopo che terminò il suo incarico, nel 1889.
Divenne re 11 anni dopo, inaspettatamente e repentinamente, in seguito all’assassinio del padre a Monza, per mano di Gaetano Bresci. Tenne subito a prendere le distanze dallo stile di vita del genitore, impartendo come primo ordine quello di spegnere i lampioni lungo il percorso che Umberto I percorreva per recarsi in visita alla sua amante ufficiale, la marchesa Litta. Ammantò il Quirinale di un’austerità sconosciuta durante il periodo umbertino, abolì sprechi e cerimonie.
Anche con l’Esecutivo si pose subito in maniera differente. Convocò nel suo studio l’allora presidente del Consiglio Saracco, reduce dalla camera ardente di Umberto e gli mostrò le carte che si ammucchiavano sul tavolo. Erano decreti su cui il padre non aveva fatto in tempo ad apporre la firma, ma che secondo lui andavano poco d’accordo con la Costituzione. Sbalordito, Saracco replicò che quello non era problema di competenza del Re, il quale doveva limitarsi a firmare come sin allora aveva sempre fatto.
“Già ma d’ora in avanti il Re firmerà solo gli errori suoi, non quelli degli altri”. Parole che gli ritorceranno contro una ventina d’anni dopo, quando non firmò lo stato d’assedio proposto dal capo del governo Facta, che quasi certamente avrebbe ucciso nella culla il Fascismo.
Da allora firmò molti degli errori di Benito Mussolini, cui si legò a doppio filo, utilizzandolo come una sorta di taxi, da cui scese solamente nel 1943. Pilatescamente si lavò la mani nel 1924, quando l’orrore per il delitto di Giacomo Matteotti sferrò un colpo duro al Duce ma non mortale anche grazie alla condiscendenza dalla Corona che avallò successivamente tutti i provvedimenti che trasformarono il Fascismo in Regime.
Beneficiò dei titoli che l’espansionismo mussoliniano gli misero nel carniere: Imperatore d’Etiopia e Re d’Albania. Si infuriò quando venne creato ad hoc il grado di primo Maresciallo dell’Impero, che de facto gli revocava il primato giuridico equiparandolo al primo Ministro. Ma era impensabile scaricare in quel momento un Mussolini all’apice del proprio consenso e venne costretto anche a firmare le famigerate leggi razziali, che equipararono de iure l’Italia, mai stata razzista e antisemita, alla Germania nazista.
Attese altri 5 anni e i rovesci ormai irrimediabili delle guerra per sganciarsi dall’abbraccio mortale con il Duce. Ma era già tardi e la vile fuga dell’8 settembre 1943 mise l’ultimo chiodo sulla bara della Monarchia. Avvinto fino all’ultimo secondo utile al suo trono non comprese che l’unica speranza per il futuro dei Savoia fosse il figlio Umberto II, che non a caso rimase disgustato dinnanzi all’indecente spettacolo del fuggi fuggi verso Brindisi.
Gli passò i pieni poteri solamente per un mese, quando ormai la barca era alla deriva e nemmeno colui che probabilmente sarebbe stato il migliore tra i re del suo casato potè porvi rimedio.